Tanto tuonò che piovve. Alla fine è arrivato il via libera al progetto dell’Alta Velocità sull’Adriatica: 650 chilometri per una linea interamente nuova da Bologna a Bari al prezzo stratosferico di 50 miliardi di euro (sic!).
di Massimo Ferrari*
Un ordine di grandezza dieci volte superiore a quanto stimato per velocizzare l’attuale direttrice, non certo tortuosa come la linea storica tra Firenze e Roma, che giustificò ampiamente la prima “Direttissima” del dopoguerra. Con migliorie che consentirebbero il raggiungimento di velocità di 200 km/h. Per ora si tratta solo di uno studio comparativo tra le due opzioni alternative, la cui scelta definitiva spetterà ovviamente al governo in carica.
Fin qui tutto corretto, ma il buon senso farebbe comunque propendere per la soluzione meno onerosa ed impattante, visto il divario, appunto, dieci volte maggiore per raggiungere i 300 km orari e risparmiare un’ora di viaggio tra Milano e Bari. Che, con tutto il rispetto dovuto al capoluogo pugliese, non può certo essere paragonato a Roma, per importanza demografica, economica e politica. Mentre i principali centri intermedi, come Ancona e Pescara, non sviluppano neppure lontanamente il traffico generato da Bologna e Firenze.
Eppure, mentre già si è levato un coro di critiche al rilancio del progetto del Ponte sullo Stretto (un’impresa faraonica, come ben sappiamo, ma che peserebbe sull’erario “appena” un quinto dell’importo stimato per l’intera AV Adriatica), nessuno per ora ha sollevato la benché minima perplessità su questa ulteriore grande opera. Forse perché, come per la nuova Salerno – Reggio Calabria, bisogna compensare il Mezzogiorno degli antichi torti subiti, costi quel che costi? Anche se abbiamo tante città, da Roma alla stessa Bari, passando per Genova e Taranto, drammaticamente carenti di moderne infrastrutture utili per ridurre la cronica congestione viaria?
Beh, forse, le cose non stanno proprio così. L’obiettivo da raggiungere non è tanto quello di tagliare un’ora tra la Pianura Padana e la Puglia. Gli appetiti sostanziosi stanno nel corollario, quando si parla di “arretramento a monte” della linea veloce. Appetiti dei costruttori, non c’è dubbio, che prefigurano centinaia di chilometri di ponti e gallerie in mezzo ai contrafforti dell’Appennino (e sul punto gli ambientalisti, già in allarme per la presunta turbativa alla migrazione dei volatili attraverso lo Stretto, non hanno nulla da dire in merito ad un’opera cento volte più impattante?)
Ma, soprattutto, ci sono appetiti edilizi, speculativi ed urbanistici di chi guarda concupiscente alle aree liberate dagli attuali binari. Magari anche senza mirare ad extra profitti, come per i sindaci in buona fede che puntano alla ricucitura del tessuto urbano condizionato dalla presenza della ferrovia. I quali, però, non sembrano tenere in alcun conto il fatto che la drastica riduzione del numero delle stazioni e la distanza delle superstiti dai centri abitati renderebbe inevitabilmente la scelta del treno (anche se un po’ più veloce) assai poco appetibile. Lo si è già visto nel Ponente Ligure.
Per fare la prova del nove, provate a sostenere una soluzione intermedia, tipo: va bene la nuova linea veloce a monte, ma a condizione di mantenere in esercizio gli attuali binari per il traffico locale, che, vista la continuità delle località costiere, assumerebbe le caratteristiche di un servizio metropolitano. Vedrete gli entusiasmi di tanti fautori dell’arretramento a monte dell’Adriatica raffreddarsi di colpo. Degli interessi degli utenti, attuali e potenziali, della ferrovia non sembra importare granché agli amministratori centrali e locali. A cominciare dall’ineffabile sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, che arruola persino l’ex primo cittadino di New York, De Blasio, a sostegno del proprio sogno, quello della espansione della “ciclopolitana” da lui voluta in città.
E poco importa se parte della ferrovia Adriatica sia già stata in parte arretrata in sede di raddoppio, in anni relativamente recenti, per esempio, sulla “Costa dei Trabocchi” in prossimità di Vasto. Oppure che siano state costruite stazioni imponenti come Pescara Centrale, al posto dei precedenti fabbricati. Vogliamo adesso abbandonare anche queste? Certo, si possono individuare alcuni ambiti in cui la realizzazione di una nuova linea veloce si rivelerebbe più che sensata, come tra Barletta e Bari (segmento su cui confluirà la nuova linea da Napoli), per riservare gli attuali binari al traffico pendolare che gravita sul capoluogo pugliese.
Ma, guarda caso, mirare a risolvere le criticità presenti dei viaggiatori non sembra calamitare molta attenzione: la priorità (qui come altrove) sembra quella di liberarsi dalla “servitù dei binari”. Come dire, grandi investimenti ferroviari per allontanare il treno rendendolo meno fruibile. Tanto lo usano soprattutto studenti, pendolari, immigrati e turisti. Tutte categorie non importanti, perché spendono poco e spesso neppure votano in loco. Benché da una crescita di traffico per ferrovia ne verrebbero strade meno intasate, a beneficio dei residenti e degli stessi automobilisti. Già, ma nessuno ci pensa.
Così i generosi fondi del PNRR rischiano di tradursi in opere non solo inutili, ma talvolta persino dannose. Vogliamo fare un altro esempio su scala locale? Prendiamo allora l’acquisto di treni ad idrogeno da far circolare su certe linee secondarie dalla Lombardia (Val Camonica), alla Calabria, alla Sardegna. Una soluzione tecnologica di dubbia efficienza, dal punto di vista energetico, ma in compenso più costosa di una normale elettrificazione. Con un impatto ambientale assolutamente trascurabile. Quanto inquina un treno diesel in aree rurali, quando, secondo il Presidente di Anfia, Biscotti, l’intero parco rotabile di tutti i bus in circolazione in Italia (e sono migliaia), contribuirebbe alle emissioni inquinanti nella misura dello 0,7 per cento?
Ma, soprattutto, senza alcun impatto positivo sulla competitività dei nuovi servizi ad idrogeno, in termini di comfort e velocità commerciale. O forse si spera di convertire una parte degli automobilisti all’uso del servizio pubblico – unico fattore che davvero potrebbe incidere significativamente sull’ambiente – solo perché il treno sarà ad idrogeno, anziché diesel o elettrico? Fino a quando vogliamo continuare a prenderci in giro?
C’è di più: visto che la trazione ad idrogeno si può applicare solo ad una ferrovia – e non ad un tram-treno, soluzione diffusa con successo in altri paesi europei – si rinuncia in partenza alla possibilità di una penetrazione urbana capillare del servizio (per esempio, a Sassari ed Alghero, dove è prevista la realizzazione del raccordo con l’aeroporto). Mentre, grazie alle normative di sicurezza vigenti nel nostro Paese, si impongono margini di rispetto di oltre 30 metri ai due lati del binario, quando per il passaggio di un tram-treno ne basterebbero non più di cinque.
Il che, applicato al pur breve raccordo per l’aeroporto di Alghero, comporterà l’esproprio di terreni agricoli pregiati (quelli dei vigneti della Sella e Mosca) con prevedibili contenzioni, infinite tenzoni burocratiche a beneficio di uno stuolo di avvocati. Non certo degli utenti. Ma questa è una situazione che sembra replicarsi un po’ dovunque in Italia. Siamo passati da una stagione in cui gli investimenti sulla ferrovia latitavano ad una nuova fase in cui non si lesinano ingenti stanziamenti, ma soprattutto se a vantaggio di progettisti, costruttori, fornitori di materiale rotabile, senza alcuna attenzione per le esigenze di chi con i treni vorrebbe spostarsi (se fossero comodi e puntuali).
E così si spiega che, mentre sono al palo almeno una trentina di nuove linee tranviarie e metropolitane in molti capoluoghi italiani – a cominciare dalla capitale – ben poche siano le città in cui i lavori avanzano a ritmi accettabili: Bergamo, Firenze, forse Palermo. Per Bologna staremo a vedere. Mancanza di fondi, come si è lamentato per decenni? No, soprattutto mancanza di volontà politica nel realizzare opere che non si è stati capaci di far conoscere ai cittadini, spiegandone i potenziali benefici. Come nel caso della nuova metro tranvia Milano – Seregno, i cui cantieri attendono di partire da ormai dodici anni, in un continuo succedersi di ripensamenti, richiesta di varianti, beghe tra i comuni interessati. E, quando non si hanno le idee chiare su ciò che serve davvero fare (o non fare), non si va molto lontano.
*Massimo Ferrari (Presidente UTP/Assoutenti)