Il Festival di San Remo ha trovato la sua collocazione naturale.
di Gianfranco Barcella
Il visitatore che si reca ad Ospedaletti ed a Bordighera, non si trova in quel paesaggio scabro, roccioso delle Cinque Terre, immortalato magistralmente dai versi di Montale: “Meriggiare pallido e assorto/presso un rovente muro d’orto,/ascoltare tra i pruni e gli sterpi/ schiocchi di merli, frusci di serpi…”. Ma la vista si appaga di <muraglie di sassi e cocci aguzzi di bottiglia> anche se si inerpica per via delle Palme e via delle Rose nel Ponente Ligure.
Si inebria alla vista di un profluvio di siepi rosse, lilla, azzurre, gialle, arancio, violetto ed una magnificenza di fiori che traboccano dalla cinta dei giardini e dai contorni delle strade. E poi si delizia con l’orizzonte d’infinito, passeggiando lungo il mare sotto la protezione di palme altissime e secolari. La Natura non appare matrigna né tanto meno selvaggia perché educata da due secoli a convivere con l’uomo, anche se ferita da troppi edifici alcuni anche in stile Frank Lloyd Wright e Liberty. Si è preservata però l’oasi naturalistica dei Giardini Hanbury, il tempio della bellezza di quella Riviera.
E’ uno dei giardini più famosi del mondo, nato dal sogno di un inglese Thomas Hanbury, che iniziò nel 1867 lo straordinario lavoro che avrebbe reso la sua proprietà un luogo leggendario. Collaborò attivamente il fratello Daniel che fornì le basi scientifiche per l’impianto di climatizzazione. Le prime piante di rose provenivano dal giardino paterno a Clapham Common; contemporaneamente ne acquistarono da vivai di altre parti del mondo. Grazie ai loro rapporti con scienziati, direttori dei giardini botanici, commercianti internazionali riuscirono a collezionare specie sudafricane, australiane e americane. Oltre alla bellezza, al fascino esotico, i fratelli si preoccuparono anche dalla natura delle piante, e del loro possibile uso nella ricerca farmacologica. Furono necessari e con successo studiati e realizzati, importanti interventi di modellamento del terreno, difficile da coltivare, e soprattutto non adatto a specie botaniche come i rododendri, le camelie e le azalee. Dovettero anche predisporre sistemi di irrigazione che permettessero di fronteggiare le siccità estive. I due fratelli inglesi riuscirono a realizzare le condizioni più favorevoli alla crescita delle piante che desideravano coltivare. Così tra il mare e l’antica strada romana, oltre al vecchio oliveto, collocarono l’agrumeto, l’orto ed il roseto, riparati dalla salsedine da un muro di cinta provvidenziale. Sul pendio soprastante la strada romana collocarono la foresta australiana, mentre sotto la villa coltivarono ancora agrumi. Più in alto mantennero l’oliveto mentre ad ovest ed a est furono tenute ben vive le specie della macchia mediterranea.
Ma occorre ricordare un’ altra delizia di natura che ha abbellito la Riviera dei Fiori: una rosa bellissima, bianca con un sottile bordo rosa. Il gambo era lungo e carnoso, il bocciolo dalle sembianze di porcellana. Aveva raggiunto anche i banchi dei fiorai milanesi e abbelliva ogni tratto della sua terra. E’ stata creata da un floricoltore di San Remo e battezzata Vivaldi (nomen, omen). Un floricoltore di Perinaldo, delizioso paesino dell’entroterra, alle spalle di Ospedaletti, invece creò una rosa rossa che incarnava la passione di vivere. Fu denominata Dallas e si presentava con un bocciolo grosso, turgido di un rosso pieno ed acceso come quello dei papaveri. Era considerata l’esuberante e formosa cugina della Vivaldi. La rosa, fiore misterico dai molteplici significati, ha assunto diverse valenze sin dall’alba dei tempi come sinonimo di bellezza, amore, sensualità, ma anche di purezza e rinascita. E’ uno di quei fiori del quale si ha testimonianza fin dall’antichità come vero e proprio topos della poesia in analogia con la donna e con l’amore. Un primo accenno nella cultura occidentale si può trovare in un frammento della poetessa greca del VII secolo a. C. Saffo: “Molte corone di viole/ e di rose e di croco insieme/accanto a me cingesti/,e molte collane intrecciate/intorno al delicato collo/, fatte di incantevoli fiori/. (Fr.96 Diehl). Qui la rosa è vista come uno degli incantevoli fiori che le amiche intrecciavano insieme, per creare corone da mettersi al collo ma si carica di intense suggestioni, perché è guardata con struggente nostalgia nella prospettiva del ricordo ed evoca nel tempo, una stagione della vita, irrimediabilmente finita e rimpianta: è l’uso di quel verbo al passato(cingesti) che trasforma e rose e gli altri fiori in emblemi araldici di una raffinata e perduta intimità. Sei secoli dopo, a Roma, Orazio riprenderà Saffo e un suo conterraneo Alceo. Nelle sue odi troviamo una rosa “tardiva”. Il poeta della <simplicitas> nel primo libro delle Odi (v.38) scrive: “Ragazzo, non amo lo sfarzo dei Persiani/, le corone intrecciate di tiglio;/ smetti di cercare in quali luoghi attarda la rosa d’autunno./ Se in Orazio, la rosa diventa qualcosa di superfluo e pertanto da evitare, nelle Metamorfosi di Apuleio, autore africano ed intellettuale bilingue(greco-latino), le rose simboleggiano il primo grado di iniziazione ai misteri di Iside. Quando infatti, dopo mille peripezie, il protagonista Lucio, trasformato in asino per uno scambio di pozione magica, prega la dea Iside di restituirgli sembianze umane, ella gli appare, dicendo: “Eccomi sono qui, pietosa delle tue sventure, eccomi a te, soccorrevole e benigna. Cessa di piangere e i lamentarti, scaccia il dolore, grazie ai miei favori ormai già brilla per te il giorno della salvezza. Sta’ ben attento, invece, agli ordini che ti do. Il giorno che sta per nascere da questa notte, come vuole un’antica tradizione, è consacrato a me. In questo giorno cessano le tempeste dell’universo, si placano i procellosi flutti del mare; i miei sacerdoti, ora che la navigazione è propizia, mi dedicano una nave nuova e mi offrono le primizie del carico. Dunque, con animo puro e sgombro da timore, tu devi attendere questo giorno a me sacro. Infatti ci sarà un sacerdote, in testa alla processione, che per mio volere porterà, intrecciata al sistro, una corona di rose. Senza esitare tu fatti largo tra la folla e segui la processione, confidando in me, poi avvicinati a lui come per baciargli devotamente la mano e afferrargli le rose. Vedrai che in un attimo ti cadrà questa brutta pelle d’animale che anch’io già da tempo detesto”.
Così avvenne. Grazie alle rose della dea, Lucio riacquistò sembianze umane e si avviò sulla strada dell’iniziazione. Non possiamo non citare anche Catullo che nel Carme 62 allude alla rosa come simbolo della purezza della fanciulla. Quest’ultima, infatti, è paragonata al fiore simbolo della passione amorosa nel momento del suo pieno splendore, quando cioè, conservata la sua castità è bramata e desiderata da tutti. Ma il fascino ella purezza viene meno quando ormai il fatto che sia stata raccolta e oltreggiata da qualcuno ne determina lo sfiorire Quando nel Medioevo, all’inizio del sec. XII, nascono le nuove letterature nelle lingue romanze, la rosa ispira la poesia trobadorica delle corti provenzali in lingua d’oc e verso la metà del Duecento un poema allegorico in lingua d’oil, che porta la rosa già nel titolo: “La Roman de la rose”. L’opera è concepita come un’ars amandi e fornisce di codice o summa dell’amor cortese. Ebbe larghissima fortuna in tutta Europa e anche in Italia, dove fu tradotta e rielaborata nel Fiore di quel Ser Durante, che oggi è quasi unanimemente identificato con Dante. Il titolo è dovuto al fatto che la donna amata è rappresentata da una rosa in boccio,scoperta dall’io-narrante in un giardino, un mattino di primavera. Il poema narra le varie tappe del percorso pieno di ostacoli, che l’innamorato deve compiere per cogliere la rosa, ossia per conquistare la donna.
Nel Medioevo, la rosa è celebrata non solo dalla lirica profana ma anche dalla letteratura mistica; per il Cristianesimo,la rosa, potenziando all’infinito il suo valore simbolico, diventa il simbolo dei doni pentecostali dello Spirito Santo, di Cristo, della Madonna ed è associato a varie figure di santi. La rosa più illustre è quella a cui si riferisce Dante nel Paradiso (v v.1-24), dove contempla la Candida Rosa, composta dalle anime dei beati, che celebrano il loro trionfo nella visione beatifica di Dio. “In forma dunque di candida Rosa/mi mostrava la milizia santa/ che nel suo sangue Cristo fece sposa”. La metafora continua allusivamente nell’immagine degli Angeli che, come api, volano da Dio ai Santi per infondere la Carità. Ed è significativo che proprio dalla Rosa a cui è tornata, lasciando la guida a San Bernardo, Beatrice riservi a Dante l’ultimo sguardo e l’ultimo sorriso. “Così orai; e quella, sì lontana/ come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò a l’etterna fontana. (Paradiso, Canto XXXI,VV.91-93). D’altra parte proprio Bernardo di Chiaravalle, una delle figure più significative del Misticismo medievale e restauratore del culto di Maria dovette suggerire a Dante l’immagine della rosa chela teologia associa alla Madonna. Una rosa è soprattutto simbolo della bellezza e degli amori terreni. Anche in questo caso può essere pura, come nella ballata “Fresca rosa novella” di Cavalcanti dove la rosa è simbolo della bellezza di una donna
elevata al rango di angelicata creatura. “Fresca rosa novella/,piacente primavera,/per prata e per riviera/gaiamente cantando/vostro fin presio mando/a la verdure”.Analogamente ritroviamo l’immagine della rosa “candida“, nel sonetto .”L’aura che’ verde lauro e l’aureo crine di Petrarca in cui la donna è come una rosa <candida>, dunque, pura, protetta da <dure spine>, ossia dal senso dell’onestà: “Candida rosa nata un dure spine/quando fia chi sua pari al mondo trove,/gloria di nostra etate? O vivo Giove,/manda, prego, il mio in prima che, l suo fine./ Successivamente nel poemetto Corinto (vv.163-185) di Lorenzo de Medici, il tema è associato a quello della fugacità dell’amore e della bellezza. In un piccolo orto il pastore osserva belle rose “candide e vermiglie”, mentre alcune devono ancora sbocciare, altre sono già sfiorite a terra: “Eranvi rose candide e vermiglie:/alcuna a foglia a foglia al sol si spiega/;stretta prima, poi par s’apra e scompiglie: altra più giovinetta si disgela/ apena dalla boccia; eravi ancora/ chi le sue chiuse foglie all’aer niega:/altra cadendo, a piè il terreno infiora./ Così le vidi nascere e morire/e passar lor vaghezza in men d’un’ora./ Il pastore apprende la lezione. E così rivolge all’amata l’unica possibile preghiera: “Cogli la rosa, o ninfa, or che è il bel tempo”. Con il mutamento di prospettiva, segnato dalla civiltà umanistico-rinascimentale, con il passaggio dal teocentrismo all’antropocentrismo, si osserva la bellezza delle rose e il loro inesorabile sfiorire.
Alla corte di Lorenzo il Magnifico opera uno dei principali esponenti di quella fioritura artistico-letteraria: Angelo Poliziano. Poesia, filologia, cultura filosofica, musicale ed artistica in lui si intrecciano indissolubilmente e convergono in una visione tutta terrena e laica dell’uomo e della vita. L’uomo ha solo la sua <virtù> e la sua dignità come strumento per orientarsi nel mondo e l’arte, in particolare la letteratura, è il vertice della sua attività, la suprema manifestazione della sua nobiltà spirituale e della sua tensione civilizzatrice. In Poliziano, il tripudio della fioritura primaverile evoca, metaforicamente, la giovinezza: coglier la rosa per farne ghirlande, quando apre tutti i suoi petali,<quando è più bella, quando è più gradita>, significa godere delle gioie della giovinezza e della vita; la sfioritura della rosa -che a quel tempo non era rifiorente- allude al declino irreversibile della giovinezza, alla precarietà della vita (<prima che la sua bellezza sia fuggita>); il messaggio conclusivo, l’invito a cogliere <la bella rosa del giardino>,<mentre è più fiorita> è l’equivalente del carpe diem oraziano, è l’esortazione a godere il presente ed i suoi piaceri perché <ruit hora> e il senso dell’ inesorabile scorrere del tempo, della labilità, dell’effimero vela di sottile malinconia questo quadro di esuberante pienezza vitale. “I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino, di mezzo maggio in un verde giardino. Eran d’intorno violette e gigli, fra l’erba verde, e vaghi fior novelli, azzurri gialli candidi e vermigli; ond’io èprsi la mano a cor di quelli per adornar e’ mie’ biondi capelli e cinger di grillanda al vago crino. Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo vidi le rose e non pur d’un colore io colsi allor per empir tutto al grembo perch’era sì soave il loro odore…”.
Nel primo canto dell’Orlando Furioso (I 42-43), Sacripante, rude guerriero saraceno, come tanti, innamorato di Angelica, teme di averla perduta. Si abbandona alla triste constatazione che la verginella, come la rosa, si conserva “sicura” sulla nativa spina solo per poco tempo, fino a quando, rimossa dal suo stelo, perde ogni bellezza e attrattiva. Nonostante l’apparente struggimento con cui il motivo laurenziano evolve, fondendosi con il modello classico di Catullo (LXII), non manca come è tipico in Ariosto, l’ambiguità. Se da una parte si intreccia con il più sofferto sentimento della fugacità che richiama anche il motivo di Angelica bella e fuggente, dall’altra non si possono con cogliere i risvolti maliziosi: il tema della fugacità si trasforma in una allusione alla fragilità della verginità e della purezza. Alla fine, infatti, il Saraceno smessi gli abiti <cortesi> e cavallereschi, dimostra senso pratico, dimentico apparentemente della struggente verità cui poco innanzi si era abbandonato. “Corrò la fresca e matura rosa,/ che, tardando, stagion perder potria“. La voce “epicurea” del Rinascimento tende, al volgere del secolo, a mutare: il motivo si declina in modo ancora differente in Tasso. Nel giardino di Armida, un pappagallo pronuncia un Elogio della rosa: “Deh -mira-egli cantò-spuntar la rosa/ del verde suo modesta e verginella,/ che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,/ quanto si mostra men, tanto é più bella./…. Cogliam la rosa in sul mattino adorno/ di questo dì, che tosto il seren perde;/ cogliam d’amor la rosa:amiamo or quando esser si puote riamato, amando”. Nella Gerusalemme Liberata (XVI, 14-15) l’amore è insieme sublimato e sensuale. L’immagine della rosa, pur richiamando quasi testualmente i precedenti umanistici,esprime una visione più sofferta, una sensualità più viva. E afferma il senso della vanità della vita e della fuggevolezza del piacere. Alla rosa dedica un celeberrimo elogio nel suo capolavoro, il poema <enciclopedico> Adone (1623), l’autore barocco Giambattista Marino, spiegandoci il perché del suo rosso vivo.
Chi parla è la dea Venere che si era punta il piede con le spine di un cespuglio di rose bianche, era stata curata da Adone e se ne era felicemente innamorata. Il sangue della dea aveva, però, imporporato la rosa. “Rosa, riso d’Amor, del Ciel fattura, rosa del sangue mio fatta vermiglia, pregio del mondo e fregio di natura, della Terra e del Sol vergine figlia, d’ogni ninfa e pastor delizia e cura, odor dell’odorifera famiglia, tu tien d’ogni bontà le palme, prima sopra il vulgo de’ fior donna sublime”. Marino scrisse moltissimo, con uno stile virtuosistico, volto a spiazzare le normali attese del lettore a colpi di figure retoriche, metafore, iperboli davvero imprevedibili che gli procurarono uno strepitoso successo ai suoi tempi. Per il gusto attuale risulta forse un po’ lezioso, ma uno scrittore del ‘900 Jorge Louis Borges, lo ammira moltissimo e ne fa il protagonista di uno dei suoi racconti,<Una rosa gialla> (da L’artefice,1960 ). In Borges la rosa dà addirittura il titolo ad una raccolta di poesie del 1975,<La rosa profonda> ed è un tema ricorrente nella sua produzione come si può evincere dalla seguente poesia. “…. Prima di sprofondarmi nell’inferno/, i littori del dio mi permisero di guardare una rosa/ Quella rosa era il mio tormento/nell’oscuro regno/….. Se devo entrare nella solitudine/sono già solo/....” Nell’opera di Gozzano, novello Sacripante, echeggia la struggente consapevolezza che solo ciò che non è goduto è destinato a durare nei nostri desideri: “Il mio sogno è nutrito d’abbandono e di rimpianto. Non amo che le rose che non colsi/. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state” E l’invito a cogliere la rosa può dunque, essere totalmente capovolto. La potenza semantica dell’immagine della rosa non sfugge a Umberto Eco che a conclusione del suo romanzo, dal programmatico titolo: “Il nome della rosa“, riprende variandolo il verso di Bernardo Morliacense: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”.La rosa originaria esiste per il nome, noi abbiamo i nomi nudi, ossia l’essenza di ogni cosa che è nel suo nome. Noi conosciamo solo i nomi, non la realtà delle cose. La rosa, dunque, è motivo ricco di interpretazioni, sempre rinnovabili, mai finite. Lo stesso Eco ammette che la rosa è una figura così densa di significati da non averne quasi più nessuno. L’aspetto più appariscente e sorprendente è dunque la ricchezza espressiva di questa immagine la sua mutevolezza, la difficoltà di definirla in maniera esaustiva. La rosa, oltre a non essere un fiore come tutti gli altri, smette di essere solo un oggetto per diventare pura idea. E se Eco si chiede se l’essenza di una rosa, e quindi di ogni cosa, sia nel suo nome, a noi pare opportuno, in un certo qual modo, arrenderci al potere della Rosa con la parola di Giorgio Caproni in Concessione: “Buttate pure via/ ogni opera in versi o in prosa./ Nessuno è mai riuscito a dire/ cos’è, nella sua essenza, una rosa”/.
Non posso ignorare infine :”La canzone di Marinella” del <nostro Fabrizio de Andre> in cui la rosa è ancora una volta il simbolo di fuggevolezza, ma questa volta le è accostata l’idea della preziosità che proprio dalla brevità deriva.”Questa è la tua canzone Marinella/che sei volata in cielo su una stella/e come tutte le più belle cose/vivesti solo un giorno,come le rose/. Nella Canzone dell’amore perduto, le rose sono viste nella loro caducità e per questo vengono associate alla malinconia di un amore che finisce irrimediabilmente: “Vorrei dirti, ora, le stesse cose/ma come fan presto, amore, ad appassire le rose/così per noi”/
Ritornando alle rose, denominate Vivaldi e Dallas restano due prodigi di bellezza, germogliati da quella striscia di terra, baciata voluttuosamente dal mare che si estende da Cervo, a est fino al confine con la Francia e Ventimiglia, a ovest passando per Sanremo, Ospedaletti, battezzata non a caso<Riviera dei Fiori>. Ancora oggi è popolata da uomini che nello strettissimo entroterra lavorano molte ore al giorno per far nascere la creatura che tanto è amata dalle persona sensibile: il fiore, un incanto di perfezione, nato umilmente dalla terra, ma purtroppo, effimero, come il volo di una farfalla. Dai borghi medievali dell’entroterra, discendendo fino al mare si incontrano uliveti, vigne di Rossese e tappeti di fiori. Approdando a Ospedaletti è doverosa una visita alla Cappella dei Marinai, ufficialmente chiesa di Sant’Erasmo. Piccola e raccolta pare senza tempo come il sogno di un marinaio di Coleridge che cerchi riscatto e pace. E’ decorata di ex-voto, pittura popolare, ricordi di gente salvata dal mare. Costruita intorno al 1300 dall’Ordine che sarebbe diventato dei Cavalieri di Malta per accogliere i pellegrini che si recavano in Terra Santa, fu dedicata a San Giovanni Battista , e dopo secoli, nel 1855, a Sant’Erasmo, patrono dei marinai. Nasce nel nome di chi battezza, prosegue in quello di chi protegge gli uomini che si avventurano per mare, verso l’ignoto. Come spesso accade fu ridotta a deposito, sconsacrata e poi restaurata, riconsacrata e riaperta al culto. Toccante è la collezione di voti di persone salvate, povere immagini, dipinti naif cimeli di marinai, modellini di ancore, simboli di ringraziamento.
Se poi il viaggiatore si sposta verso Bordighera incontra la chiesa di Sant’Ampelio che pare aver ispirato il celebre verso di Vincenzo Cardarelli intitolata: “Liguria”- <O chiese di Liguria, come navi/disposte ad essere varate!> Se ci si accontenta di osservare il cielo senza parlargli si può approdare all’Osservatorio Astronomico Cassini di Perinaldo. Nato nel 1997, ha visto nel tempo aggregarsi astronomi, astrofisici e astrofili di Perinaldo, San Biagio della Cima, Arma di Taggia, Ventimiglia, Sanremo, Dolceacqua,Costarainera, Imperia. E’ un punto di osservazione del cielo che ogni notte ci narra quanto sta accadendo tra luna e stelle e che ha fatto di Perinaldo un paese unico nel suo genere, non solo in Liguria, ma anche in Italia.
Il mare, le piante provenienti da ogni parte del mondo, l’osservatorio del cielo. Basterebbe questo per fare della Liguria <scarsa lingua di terra che orla il mare> come l’ha definita Camillo Sbarbaro, un luogo d’incanto. Ma c’è di più! Superata Bordighera e Ventimiglia, al confine con la Francia ci appaiono le grotte dei Balzi Rossi, ai piedi di una parte rocciosa: la grotta di Florestano, la grotta del Caviglione, la grotta del Principe sono un monumento rappresentativo della storia dell’uomo. Ne scoprì l’importanza il sopraccitato sir Thomas Hanbury che nel 1898 finanziò la costruzione di un museo, dove venne esposta la <triplice sepoltura> paleolitica, datata a 25.000 anni a.C. Comprende gli scheletri di un Homo sapiens adulto e due giovani, sepolti contemporaneamente, con un corredo composto da lunghe lame di selce, conchiglie marine forate, vertebre di pesce, canini di cervo, pendagli in osso lavorato.
Le ricerche, avviate già nella prima metà dell’Ottocento, perdurano da due secoli, e le numerose sepolture ed i resti umani qui rinvenuti consentono di riconoscere le numerose migrazioni che portarono l’uomo fuori dall’Africa a partire da circa 200.000 anni fa. Le cavità ai giorni nostri si affacciano direttamente sul mare: dal buio dello splendore, da mistero a mistero. Tornando al cielo, all’osservatorio di Perinaldo, abbiamo nominato San Biagio della Cima, altro nome significativo di quella piccola nazione, La Riviera dei Fiori.
E’ il paese dove nacque e visse Francesco Biamonti uno scrittore originale e profondo del secondo Novecento, un uomo all’apparenza burbero e schivo, ma per come l’ho conosciuto, sensibile e generoso. Coltivava mimose e scriveva… Da l’Angelo di Avrigue in poi ha creato romanzi nutriti dell’entroterra ligure ed il baluginio di luce che si stende sul mare. Mitica è la figura del passeur da lui narrata. Si potrebbe definire un non dichiarato poeta in prosa, La sua prosa infatti vibra di poesia, intimo germoglio della Riviera dei Fiori che vide l’infanzia di Italo Calvino, mai dimentico della sua Sanremo anche se visse altrove. L’alta letteratura si incarna anche in Nico Orengo che visse a Torino, ma nacque alla Mortola, al confine con la Francia. E di Porto Maurizio Giuseppe Conte, uno dei maggiori poeti del Novecento, ma anche romanziere e saggista, scrittore completo, insomma. Ama profondamente la sua Riviera che ripropone nella sua opera come sensibile e seducente visione di vita, unitamente al suo mare<che continuamente muta e per questo è vivo>, ma non ha mai dimenticato di esplorare anche l’intero mondo.
Gianfranco Barcella