Un po’ di storia. Con il nome di “Ottomani” per molti secoli si identificarono i Turchi.
di Tiziano Franzi
Originari dell’Asia centrale (Turkmenistan) i Turchi si convertirono all’Islam nel X secolo; penetrarono poi in Persia (Iran) e in Mesopotamia (Iraq) nell’XI secolo. Sotto il loro capo Othman (da dove il termine “ottomano”) i Turchi fecero dell’Asia minore la loro base di partenza per espandersi verso ovest e l’Europa, che si sentì minacciata dalla loro avanzata.
Nacquero così dapprima conflitti locali, poi vere e proprie guerre.
Le guerre ottomane in Europa furono una serie di conflitti militari tra l’Impero ottomano e vari stati europei che ebbero luogo dal tardo medioevo fino all’inizio del XX secolo. I primi conflitti iniziarono durante le guerre bizantino-ottomane, condotte in Anatolia alla fine del XIII secolo prima di subentrare in Europa a metà del XIV secolo con le guerre bulgaro-ottomane. A metà del XV secolo, le guerre serbo-ottomane e le guerre turco-albanesi furono condotte rispettivamente dalla Serbia e dall’Albania contro i turchi ottomani. Gran parte del periodo fu caratterizzato dall’espansione ottomana nei Balcani. L’Impero ottomano fece ulteriori incursioni nell’Europa centrale nel XV e XVI secolo, che segnarono il picco delle rivendicazioni territoriali ottomane in Europa.
Alla fine del XVII secolo, le potenze europee iniziarono a consolidarsi contro gli ottomani e formarono la Lega Santa, ribaltando una serie di conquiste territoriali ottomane durante la Grande guerra turca del 1683-1699. Tuttavia, gli eserciti ottomani riuscirono a tenere testa ai loro rivali europei fino alla seconda metà del XVIII secolo.
Nel XIX secolo gli ottomani dovettero affrontare l’insurrezione dei loro sudditi serbi (1804-1817) e greci (1821-1832). Ciò avvenne in contemporanea con le guerre russo-turche, che destabilizzarono ulteriormente l’impero. La ritirata finale del dominio ottomano avvenne con la prima guerra balcanica (1912-1913), seguita dalla firma del trattato di Sèvres alla fine della prima guerra mondiale.
Per quanto riguarda il Ponente Ligure, i momenti critici del rapporto con l’Islam sono essenzialmente due: il primo va dalla fine dell’VII secolo alla fine del X e corrisponde alla presenza dei Saraceni a Frassineto , mentre il secondo, legato ai nomi di Kair ed Din, conosciuto anche come Ariadeno Barbarossa, Dragut e Ulugh Alì, in parte nel contesto della guerra tra Francesco I e Carlo V d’Asburgo, inizia nel 1543 con l’arrivo della flotta turca, alleata del sovrano francese, nei porti di Tolone e Marsiglia e si protrae, anche se le incursioni vanno via via diradandosi, ben oltre la data della battaglia di Lepanto. In essa Il 7 ottobre del 1571 si ebbe la più grande battaglia navale della storia moderna: oltre 400 galere e 200mila uomini si affrontarono in una battaglia più “terrestre” che navale, in cui l’artiglieria europea ebbe la meglio sulla marina ottomana. Furono momenti drammatici, segnati da profonda ostilità, vissuti col terrore del nemico che viene dal mare, tanto che nell’immaginario e nella sensibilità popolare scompare la profondità storica ed i due periodi sovrapponendosi si saldano tra di loro sino a far sì che i termini saraceno e turco vengano usati come sinonimi. Tutto ciò sarebbe alla base di quelle narrazioni ‘realistiche’ che trattano di combattimenti, rapimenti, riscatti e miracolose fughe o di quelle altre in cui i Mori sono assimilati a stregoni malvagi quando non direttamente ai demoni.
Tra storia e folclore- Un tempo i Turchi erano considerati guerrieri forti e coraggiosi, ma anche ferocissimi. Gli assalti che i Turchi (e altre popolazioni arabe identificate genericamente con il nome di Saraceni) hanno compiuto per secoli sulle coste della penisola italiana hanno lasciato molte tracce nel folclore, nei detti e nei canti popolari.
Il detto risale ai tempi in cui i Saraceni terrorizzavano le coste del Mediterraneo ed erano considerati nemici sanguinari e invincibili. Riuscire a immobilizzarne uno, afferrandolo inoltre per i baffi di cui questi andavano molto orgogliosi, era considerata un’impresa così difficile da potersi giustificare solo con un incredibile colpo di fortuna
Per alcuni l’espressione “Mamma li turchi!” risale al 1480, quando i Turchi assediano la città di Otranto e in due settimane uccisero oltre 12.000 persone. Secondo altri è il grido che nel 1799 i bambini palermitani lanciano per segnalare lo sbarco dei nemici alle madri, che dai balconi e dalle finestre lanciano sugli invasori ogni oggetto possibile. In particolare, secondo la tradizione popolare, un gruppo di Ottomani arrivo’ in Sicilia e, durante un pranzo a Palazzo Comitini, un ammiraglio Turco fu visto picchiare una ragazzina, quindi tutti indignati, iniziarono una vera e propria “caccia al Turco” e i bimbi correndo per le strade urlavano “Mamma li turchi!” come per dire “Mamma ho trovato un Turco!”
Questa espressione riflette di sicuro la paura e il rancore nei confronti di un popolo, ma oggi è usata solo in senso ironico e scherzoso.
I Turchi in Liguria: leggende e suggestioni- Le incursioni dei pirati saraceni hanno interessato gran parte della penisola italiana, dalla Sicilia alla Liguria. I famigerati “turchi” – così venivano chiamati indistintamente i popoli arabi – erano protagonisti di spietate e sanguinarie scorrerie nelle città costiere, razzie che spesso hanno dato origine ad affascinanti leggende, nate dall’eroica resistenza dei nostri antenati ma anche dalla ricchezza della fantasia popolare, con il racconto di violenti agguati e schermaglie, ma anche amori e tradimenti, fantasmi e animali mitologici, e talvolta l’origine di feste, tradizioni e ricorrenze che sopravvivono ancora oggi.
Per quanto riguarda la Liguria Occidentale troviamo diverse narrazioni apparentemente molto disomogenee ma accomunate da un elemento estremamente importante: la paura verso “l’altro” e la volontà di reazione, ma anche un approccio disincantato e quasi di canzonatura nei suoi confronti.
Ghindo il monello- Una fiaba sanremese racconta di Ghindo, un monello che con un gruppo di amici decide di preparare le caldarroste approfittando del fuoco acceso sulla torre di vedetta. I Turchi, che nel frattempo erano sbarcati e si preparavano all’attacco, udendo lo scoppiettio delle castagne e scambiandolo per una reazione armata da parte dei sanremaschi si danno alla fuga.
I contadini di Finale contro Ras Piagents- Nell’899 alcuni contadini di Finale suonando i loro corni danno l’allarme e salvano il paese dai Saraceni del Ras Piagents; nel frattempo cinque di questi avevano tentato di rapire, presso il forno, una donna che teneva un braciere nelle mani ma erano rimasti accecati da un getto di brace e, di conseguenza, tutti si dettero alla fuga.
Succede a Taggia- Gli abitanti di Taggia sono salvati dai mori da fiamme ardenti che si levano miracolosamente intorno alle mura e da un’altrettanto misteriosa esplosione di rumori, il tutto unito ad un’apparizione di San Benedetto Revelli armato di una spada lucente; l’evento è ancor oggi celebrato con la festa dei “furgari”.
Il castello saraceno- Nella leggenda del Castello del Saraceno si narra del Rais Achmed che prende prigioniera una bella fanciulla locale, Eloisa, il cui padre era partito per la crociata. Innamoratosi di lei la tiene rinchiusa in un castello che sorge su di un promontorio tra Noli e Spotorno. Col passare del tempo anche la ragazza si innamora di Achmed e ogni volta che lui parte per un’impresa piratesca lei resta in trepida attesa. Un giorno, andando incontro al saraceno che torna da una sua razzia con un ricco bottino e molti prigionieri, la giovane riconosce tra questi suo padre. Achemed prova vergogna per quella che è stata la sua vita e, pentito per i suoi misfatti, ritorna alla sua terra. La ragazza muore di dolore in poco tempo. Passati molti anni, quando ormai del castello si possono vedere solo le rovine, il Rais torna e trova rifugio presso i monaci di Bergeggi dove, dopo essersi convertito al cristianesimo, morirà di dolore.
Di questa vicenda esiste un’altra versione rivelatrice di come la conversione del giovane saraceno ed il suo pentimento siano imputabili ad un tentativo di razionalizzare un racconto che presentava aspetti di per sè incomprensibili e estranei ad una cultura abituata a vedere nel moro il nemico per antonomasia. In quest’ultima manca totalmente il motivo della conversione di Achmet e la sua partenza improvvisa è legata ad un elemento magico: molti anni prima una fata aveva regalato alla madre del saraceno un talismano e le aveva profetizzato che quando questo avrebbe perso lucentezza i giorni del fanciullo avrebbero iniziato ad oscurarsi. Achmet, che portava sempre al collo il dono della fata, avendo notato la perdita di lucentezza e sentendo quindi vicino il momento in cui l’infausta profezia si sarebbe avverata, decise di fare ritorno alla sua terra, forse anche per fare in modo che Eloisa non assistesse alla sua triste fine.
Il morto riconoscente- Il figlio di un ricco mercante, preso dalla compassione, utilizza l’utile di un viaggio d’affari per riscattare dai mori una giovane che diventerà sua moglie e quindi torna a casa senza mercanzia e senza soldi. Dato che non è la prima volta in quanto nel viaggio precedente aveva speso tutto per pagare i debiti di un morto e permettere così, secondo le usanze del luogo, che questi ottenesse degna sepoltura, il padre, infuriato per il mancato guadagno, scaccerà i due ragazzi. In seguito tornata l’armonia in famiglia durante un altro viaggio per mare la donna convince il marito a non seguire la rotta indicata dal padre. La nuova destinazione è la terra d’origine della bella fanciulla che scopriamo esserne anche la figlia del re. Qui, grazie all’aiuto di quell’uomo morto del quale aveva pagato i debiti, riesce a sconfiggere l’antagonista e la vicenda procede verso l’immancabile lieto fine. Della giovane la fiaba dice solo che era una bellissima ragazza bianca rapita da dei mori mercanti di schiavi e non fornisce alcuna indicazione riguardo al regno da cui proveniva.
Nella versione istriana la bella principessa non è una bellissima ragazza bianca ma è una musulmana, addirittura la figlia del Sultano di Turchia. Sembra che i narratori liguri abbiano trovato insostenibile un lieto fine che prevede il matrimonio tra un cristiano ed una turca, seppur convertita, e si siano quindi affrettati a schiarire il colore della sua pelle e a far sparire ogni traccia circa la sua terra d’origine.
Tale processo comunque non è stato sempre operante, ricordiamo in proposito che la versione ligure di una delle più belle fiabe italiane, Fantaghirò, è forse l’unica in cui la vicenda si svolge in un ambiente marittimo e prevede quale protagonista maschile destinato a sposare l’eroina un principe turco.
Scrive Francesco Sarchi dell’Università di Genova: «La paura dello straniero, dell’Altro prende le forme della fiaba perchè questo genere narrativo ci parla del rapporto ambiguo con l’altro mondo e con i suoi abitanti, vale a dire con l’alterità assoluta. La paura del Diverso quindi genera ed è superiore alla paura di qualsiasi forma di incarnazione storica della diversità. Ogni epoca si è creata i suoi diversi32: inferiorizzazione, marginalizzazione, demonizzazione e persecuzione sono vari aspetti, quantitativi e qualitativi di un unico processo che ha avuto come bersaglio, a seconda dei tempi e dei contesti, primi cristiani, eretici, lebbrosi, ebrei, donne, streghe, omosessuali, folli, selvaggi e via dicendo. Individuare e mettere a nudo questi meccanismi può essere un contributo perché in futuro non si senta più parlare di pulizie etniche o di guerre sante. Oggi, mentre il Mediterraneo azzurro rischia di essere soffocato dalle convergenti maree nere della xenofobia e del fanatismo religioso, provenienti l’una dalla riva settentrionale e l’altra da quella meridionale, ricordiamo il messaggio che attraverso i secoli ci giunge dalla bella e coraggiosa Fantaghirò ligure e del prode principe dei mori. Quel lieto fine dato non dal matrimonio e neppure dall’innamoramento ma da quello che la fiaba non dice esplicitamente e che ha reso possibile tutto il resto: il fatto che i due giovani si siano riconosciuti reciprocamente membri della stessa razza. Quella razza a cui, con orgoglio, di fronte alle perplessità dell’addetto all’immigrazione americana, rivendicava l’appartenenza Albert Einstein. Razza umana e nulla più.»
Tiziano Franzi