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Maggio Fiorentino: presenta Alcina di Händel


È certo che il coraggio non manca al sovrintendente Pereira e a tutto lo staff artistico e tecnico del bellissimo, nuovo teatro del Maggio Musicale Fiorentino.

di Sergio Bevilacqua

Aleksander Pereira

Un teatro di livello planetario, composto da preziose funzioni architettoniche, tra il globale e il fiorentinissimo, e da profonde e ispirate condizioni istituzionali, con la Fondazione coraggiosa nel proporre allargamenti doverosi dell’offerta operistica, guardando al mondo con Alcina di Händel, com’è doveroso ma non scontato in questa strategia, e anche al contesto nazionale, con i primi, solidi passi per la rivalutazione di un grande toscano mezzo rimosso dalla politica culturale ideologica del dopoguerra, come Pietro Mascagni.

Ma restiamo su Händel, Alcina. Mai rappresentata a Firenze, la solida istituzione culturale gigliata schiera l’intero squadrone del cast per presentare il glorioso lavoro alla Stampa. In prima linea, dall’inizio alla fine, il responsabile e sensibile Aleksander Pereira che, col cuore in mano, spiega il grande sforzo e rischio impresariale, lasciando poi la parola al direttore musicale Gianluca Capuano, molto convincente, cui spetta la parte meno critica (ma non meno importante, ça va sans dire…) dell’operazione, e poi alle due vere star: Cecilia Bartoli, sempre restia a incontrare la volgarità e l’ignoranza (quanto ha ragione!) e al regista brillantissimo Damiano Michieletto. Capuano ha in realtà una missione delle meno ovvie anche se delle meno comprensibili al grande pubblico, non melomane o musicologo: innovare le sonorità barocche di Georg Friedrich Händel così come Bartoli e Michieletto nel loro specifico.

Cecilia Bartoli, diva per necessità e antidiva per natura, seduce e convince con la sua affabilità spontanea e le sue evidenti qualità artistiche: la voce alle prove è già ammaliante, l’esposizione scenica generosissima, la intesa col regista da vera, grandissima professionista della scena, l’impegno nel sostegno della messinscena da vera protagonista, cioè non soltanto artista ma anche coinvolta risorsa strategica. Lei è organismo nell’organismo sovraordinato, con coscienza funzionale e senza spocchia. Ecco la vera grandezza.

Damiano Michieletto è sicuro di sé e consapevole di essere l’ariete di questo assedio alla sprovincializzazione culturale e massificazione di programmazione che il Maggio porta avanti anche con il caso di Alcina. Padronanza da grande teatrante, ben presente, comme il faut, l’ascendente da regista di prosa, spiega di essersi trovato aspirato da almeno due lustri nelle regie operistiche, che all’origine del suo lavoro quasi non aveva considerato. Non voglio dilungarmi su quell’emblema delle regie contemporary che è divenuto il veneziano almeno a livello continentale, perché mi sento di citare l’ottimo lavoro che sta conducendo Filippo Arachi in “Connessi all’Opera” su questo problema/necessità del considerare sempre contemporaneo anche il crocevia del Parnaso che è l’Opera lirica. Ma una domandina facile facile l’ho posta, a tu per tu, a Michieletto: “Cosa ne pensi della figura del drammaturgo che sta emergendo in molti teatri d’oltralpe?” La sua risposta è stata ferma e consapevole, e quasi 50 anni di interviste non mi lasciano dubbi:

1. Non tutta oltralpe, ma solo i serissimi tedeschi incardinano nelle strutture teatrali questa interfaccia tra regista e direzione artistica dell’istituzione; 2. essa ha plurime valenze, dall’aspetto puramente editoriale al profondo valutare le scelte artistiche della regia onde evitare crisi di rigetto del pubblico che non si riconosce o abbruttimenti dell’intenzione di catarsi originaria; 3. Michieletto è sereno nel dire che ben venga un bravo drammaturgo che contribuisce e controlla, meno problemi con la direzione artistica del teatro e migliori opportunità di messinscena. Perfetto: sono certo che Michieletto, epigone di un asse storico colto, che in Italia va da Zeffirelli a Pizzi, ci darà grandi soddisfazioni anche nel futuro lontano.

Non resta che andare a vedere e a sentire. Tutti dovrebbero farlo, ha ragione Pereira: riempire con Traviata va bene (“Ci mancherebbe!” conferma Cecilia Bartoli), ma allargare gli orizzonti è dovere scomodo di chi fa davvero cultura. Portare il diverso, come il barocco anglotedesco Händel, o il rimosso, come il grande Mascagni, è sfida all’ignoranza e all’opportunismo becero. E merita il gran cuore di Cecilia, l’intelligenza di Michieletto, la sensibilità di Capuano e il nostro aiuto di comunicatori.

E allora: 20, 24, 26 ottobre alle ore 19, e 22 ottobre alle ore 18.

Sergio Bevilacqua

 


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