Una sostanziale legge di riforma dei partiti italiani? Speranze e illusioni intorno ad un tema istituzionale di non facile soluzione.
di Antonio Rossello, con immagine di Igor Belansky.
I continui scandali che riguardano i partiti e la classe politica sono percepiti ormai come endemici alla democrazia italiana, talora ipotizzata quale determinante soluzione a tali atavici mali, la riforma dei partiti è stata ampiamente dibattuta, senza veramente considerare tutti gli aspetti che costituiscono il problema, senza mai giungere ad una conclusione sostanziale.
Giunti a questo punto, alla richiesta di individuare la causa principale dei mali atavici della politica italiana, molti non avrebbero il benché minimo dubbio, additando un Parlamento che si divide in partiti e partitini che, a loro volta, si dividono in correnti e correntine, per ragioni ancor meno nobili del paradigma che, per circa mezzo secolo, caratterizzò la Prima Repubblica: le ideologie erano il motore dell’azione politica dei partiti. Ognuno degli schieramenti faceva riferimento ad un preciso pensiero, e attorno a queste posizioni ruotavano i dibattiti.
Poi, nel ’92 venne Tangentopoli, la quale segnò la fine del sistema elettorale proporzionale, la morte dei vecchi partiti e l’inizio di un modo di far politica completamente diverso. Si è così generata una sorta di eccentricità del pluralismo politico, con la fatica di definirlo ancora tale, in cui nuovi partiti possono trovare altri canali per espandere la propria istanza nella società, oltre il naturale confine parlamentare, e si temono forme di tracimazione (Sylos Labini, et al., 2006). Certo le nuove forme di partito si sono svuotate di iscritti, hanno perso gran parte della propria progettualità politica, ma non hanno perso in senso lato potere, anzi negli ultimi anni sono aumentati i soldi che girano intorno ad esse, restando imbrigliate nelle forme denunciate con forza e rigore dalle parole che già Ernesto Rossi1 scrisse sui partiti negli anni Cinquanta dalle colonne de «il Mondo» (Rossi, 2012). Partiti privi di uno statuto ideologico, preda dei leader, perché le ideologie sono zombies. Che si nutrono di finanziamenti ipertrofici e fuori controllo, anche biada per i cavalli morti, e dissipano fiducia a milioni di euro. Finanziamento delle campagne elettorali, donazioni ai partiti politici, controllo dei media: da decenni la vita democratica è prigioniera degli interessi privati. E coltivano faide tra gruppi, l’accaparramento delle tessere, la racimolatura di maggioranze implausibili, fondate sul nulla delle relazioni personali. Sono anime morte, foriere di idee pericolose perché portano in sé l’insofferenza per le istituzioni, per la complessità, per la dialettica, per il dissenso (Veltri, et al., 2012).
Ulteriormente, grandi politologi, come Giovanni Sartori2, prima, e Piero Ignazi3, dopo, hanno individuato attraverso quali meccanismi il potere economico dei partiti sia paradossalmente aumentato dopo che è diminuito il loro peso politico. Il fatto è tanto più grave se si considera che, con il tempo, i partiti sono usciti dal perimetro di loro pertinenza ed hanno occupato ogni spazio pubblico: gestiscono candidature e nomine alle principali cariche istituzionali; scelgono i Cda delle aziende pubbliche, grandi e piccole; decidono le politiche del Paese; partecipano ad una cospicua distribuzione di denaro pubblico, sotto forma di finanziamento pubblico prima, e di rimborso elettorale adesso (Sartori, 2009). Di sicuro, da soli i soldi non bastano però a recuperare un’influenza sulla società. L’autunno del nostro scontento continua ad essere abitato dagli scandali di una politica, che ci somiglia sempre meno e che si susseguono come in una battaglia navale, senza esclusione di colpi (Sartori, 2006).
In tal senso, speriamo che a nessuno venga in mente di fondare un nuovo partito sulla base tanto nostalgie quando di futuribili idee bislacche, oppure di ipotizzare strambe riforme dei partiti tout court, evocando ibridi tra logica organicistica e meccanicistica, architetture istituzioni scricchiolanti a meno di astrazioni. Infatti, stando all’esperienza recente, ogni nuova formazione politica risulta puntualmente l’ennesima delusione, soltanto un capovolgimento di premesse, più che una recisione di legami e i vincoli, cioè una frattura, come ogni vera rinascita esigerebbe. Il rapporto tra partiti, società e Stato si è definitivamente incrinato. Partiti autoreferenziali, disconnessi dalla società, incapaci di interpretare i bisogni dei cittadini (Ignazi, 2002). Eppure, avevamo creduto davvero che -almeno alcuni nuovi partiti -fossero diversi, che non fossero mossi dal «particulare» di guicciardiniana memoria, ma da un vivo e reale interesse per il bene della collettività. Credevamo fossero politici, invece erano illusionisti. Tutti siamo stati ingannati, ognuno a suo modo. I ripetuti scandali attribuibili a partiti e classe politica vengono percepiti ormai come un male endemico alla democrazia italiana, al punto di averne minato la credibilità. E se la politica si riduce a questo, soprattutto in una fase in cui l’antipolitica gode di grande popolarità, si scava la fossa da sola. Anche soltanto perché l’antipolitica è, in realtà, essa stessa politica: una politica semplicistica, e potenzialmente autoritaria, sbrigativa, decisionistica e tecnocratica. Della impasse politica che comporta esperienze di tecnici al governo e sulle relative problematiche si è a lungo riflettuto (Volpi, 2017). Queste derive non sono la conseguenza di un complotto abilmente orchestrato ma della nostra mancanza di coinvolgimento collettivo (Ignazi, et al., 2013).
Da qui, nutrendo delle speranze, da sempre ventilate, ma mai realizzate, le considerazioni che una riforma della politica possibile consista nella fine dei partiti come modello del Principe machiavelliano, come stormi di arpie che succhiano i loro guadagni da ogni nuova spesa forzosa e da ogni scostamento del credito pubblico, da istituzioni che si afflosciano perché nessuno crede che servano. Da qui varie ipotesi di soluzione, per lo più in bilico tra barocchismi e mancanza di reale voglia di cambiamento, come abbiamo visto, ad esempio, passando attraverso una legge di riforma dei partiti. Aldilà di parti fantasiosi della fervida immaginazione dell’uomo comune, della chiacchiera da bar, in questo caso la questione, se seriamente posta, si complica, in quanto non è ammissibile che non compaia, nemmeno su un piano meramente retorico, il termine Costituzione.
La ragione è scontata, in quanto da essa discendono le diverse dimensioni della democrazia, da quella formale, relativa al potere legittimante della volontà popolare, necessaria ma non sufficiente, a quella sostanziale, relativa ai limiti e ai vincoli imposti al potere del popolo dai principi costituzionali. Approvare una disciplina dei partiti politici italiani che «attui» l’articolo 49 della Costituzione è un tema sempre molto discusso in Italia, non solo dalla dottrina costituzionalistica (Coduti, 2019). Ebbene, la Legge fondamentale dello Stato, all’art. 49, sancisce: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». In assenza di particolari vincoli, i partiti pertanto sono associazioni di cittadini, libere e democratiche.
Non aggiungono molto altri due articoli collegati al precedente: l’art. 18, sul diritto di associazione, e l’art. 98, sulle limitazioni per l’iscrizione ai partiti. La palese volontà costituzionale di non intromettersi nella regolamentazione interna dei partiti, assumendo come priorità la libertà degli stessi, discende dall’esigenza precipua, nell’immediato momento postbellico, di impedire che si verificassero nuovamente condizioni imposte in epoca fascista, fino all’estremo dello scioglimento di tutti i partiti, associazioni e organizzazioni che esplicassero azione contraria al regime.
Nondimeno, una disciplina organica del fenomeno partitico non è mai stata approvata, anche a causa del ruolo che i partiti italiani hanno ricoperto nelle istituzioni e nella società dalla caduta del fascismo e per gran parte dell’esperienza repubblicana. Ma di fronte ad una storia repubblicana di quasi ottant’anni – dal referendum della vittoria sulla monarchia agli stravolgimenti politici e sociali sul finire del ventesimo secolo, fino alle nuove sfide del millennio appena iniziato -, il quadro è completamente mutato e talora si è pensato che una disciplina dei partiti non fosse più rimandabile.
A maggior ragione, visto che la scomparsa dei partiti che hanno tenuto a battesimo la Repubblica e l’avvento di formazioni partitiche nuove, poco orientate dal punto di vista ideologico, caratterizzate dalla personalizzazione della politica e che dichiarano di voler coinvolgere in maniera più o meno ampia iscritti, simpatizzanti ed elettori, hanno ulteriormente messo in risalto scarsa adeguatezza e trasparenza in termini di democrazia interna e di gestione finanziaria (Scuto, 2018). Volendo, in effetti, possiamo rintracciare i due oggetti cruciali, ma quasi contrapposti, del contendere dei successivi e travagliati dibattiti tra fautori e oppositori di ogni ipotesi di riforma in tal senso: se da un lato non è semplice stabilire il limite oltre il quale l’intervento del legislatore sull’organizzazione interna dei partiti rischia di limitarne l’autonomia, con possibili conseguenze indirette anche sulla identità ideologica degli stessi, dall’altro vi è parimenti la necessità di tutelare il diritto dei cittadini di pretendere che i denari pubblici vengano assegnati soltanto a quelle associazioni di persone che, rispondendo ai requisiti stabiliti per legge, possano oggettivamente essere definite partiti.
Di conseguenza, l’unico atto legislativo concreto, al fine di compendiare l’articolo 49 della Costituzione sulla democraticità dei partiti, è risultato il decreto-legge n.149 del 28 dicembre 2013, convertito nella legge n.13 del 21 febbraio 2014, inerente: «Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore». Tuttavia, nonostante il pregio di stabilire alcuni paletti del metodo democratico nella stesura degli statuti dei partiti, l’introdotta di tale normativa non è stata risolutiva, perché sostanzialmente interviene soltanto sul fronte dell’accesso e del godimento dei finanziamenti e non tratta compiutamente gli aspetti strutturali e funzionali del metodo democratico (Ciancio, 2020).
Troppi, poi, i luoghi comuni sul tema: non è vero, ad esempio, che i finanziamenti pubblici ai partiti costituiscano un’anomalia italiana, essendo previsti in tutte le democrazie europee, ad eccezione del Regno Unito, e attestandosi su importi cospicui e percentualmente rilevanti sulle entrate totali dei partiti (Caporossi, 2013). Non c’è inoltre stata sufficiente considerazione del fenomeno del lobbying che, sebbene sia tradizionalmente inteso in un’accezione negativa e comunque parziale, oggi, in un contesto di crescente disintermediazione, rappresenta una modalità sempre più diffusa di influenza politica, che in ambito europeo trae vantaggio dallo sviluppo di un assetto istituzionale di multilevel governance 4 (Di Gregorio, et al., 2015). Su questa stregua, sebbene senza successo, essendo un concetto indigesto nel contesto italiano attuale, si sono registrate addirittura alcune ipotesi di partito manageriale (Comite, 2017), fortemente improntato allo spirito pragmatico e con selezione delle candidature in base a requisiti professionali, le politiche di finanziamento, le strategie, le logiche gestionali, le politiche di bilancio, il tipo di relazioni con i diversi stakeholder, mettendo in luce il «grado di aziendalità» del partito politico, il vero preludio ad una tecnocrazia elitaria. Dovendoci quindi interrogare sul fatto o meno che si ravvisi ancora la persistenza di un vulnus legislativo, dobbiamo fare un passo indietro. Nella tradizione giuridica, il rapporto tra diritto pubblico e diritto privato si basa su termini dicotomici, alla stregua di una suddivisione in due sfere di influenza congiuntamente esaustive e reciprocamente esclusive, tali per cui l’oggetto di indagine studiato dal diritto pubblico non potrebbe essere contemporaneamente studiato anche dal diritto privato e viceversa. Giusto perché le due discipline in questione sarebbero suscettibili di ricomprendere perfettamente al proprio interno tutti gli aspetti di propria competenza, i giuristi euro-continentali hanno storicamente stabilito quella netta distinzione tra i due ambiti che, a sua volta, senza mutamenti sostanziali, è stata da lunghissimo tempo recepita nel pensiero politico occidentale.
Eppure, di fronte alla disciplina costituzionale dei partiti, questa inveterata dicotomia sembra destinata – almeno in parte – a vacillare: la nostra Carta fondamentale ha di fatto affidato a soggetti sostanzialmente privati l’esercizio di fondamentali funzioni di rilevanza pubblicistica, collocando i movimenti politici al centro dell’assetto democratico e trasformandoli in una sorta di catalizzatore, imprescindibile per l’esercizio delle libertà individuali e collettive garantite dalla stessa Costituzione (Iorio, et al., 2021). Resta, però, la questione che vi sono soggetti di diritto privato, tra cui le fondazioni, pur esse di notevole impatto sulla sfera pubblica e da questa spesso sovvenzionate, le quali, per acquisire la personalità giuridica necessaria ad operare, devono presentare apposita domanda, quindi sottostare a un complesso iter burocratico, prima di poter, eventualmente, accedere al Registro delle persone giuridiche istituito presso le Prefetture. Non si comprende, dunque, perché una simile procedura non debba riguardare anche i partiti, che identicamente, da un lato, assolvono un primario compito pubblico, e, dall’altro, attingono considerevoli quote di finanziamento statale.
Comunque sia, traguardando uno dei più antichi e fondamentali problemi della filosofia politica, cioè il rapporto tra l’agire politico e l’agire morale – già contemplato da Aristotele, il quale, nel suo trattato «Politica»5, oltre a definire le funzioni dello Stato e le sue forme di governo, formula ipotesi per realizzare il buon governo della città (Berti, 2000) -, sarebbe un’ingenuità immaginare che una legge attuativa dell’art. 49 possa sopperire ad ogni degenerazione del sistema partitico. Ovviamente, statuti e regolamenti non possono, di per sé, delineare partiti migliori o moralmente più integri. Va, inoltre, preso definitivamente atto che due soltanto restano le linee di intervento agibili a disposizione del legislatore italiano per migliorare le norme vigenti: la prima, vigilare sulla democraticità dei partiti, con ciò favorendo quella partecipazione politica dei cittadini esortata dalla Costituzione; la seconda, contribuire ad incrementare la trasparenza nella gestione dei partiti, vincolando l’ottenimento di rimborsi elettorali e di qualsiasi altra forma di finanziamento pubblico al rispetto dei vincoli legislativi.
Vi è poi una terza consistente questione, questa volta extralegale, che non dovrebbe essere mai sottovalutata: la cronica riottosità da parte dei partiti a cedere quote di autonomia. Ne viene che sarebbe pressoché illusorio concepire l’introduzione di particolari obblighi. Quindi, aldiquà di un oltre illusorio, sarebbe di già un grande successo se i partiti avessero facoltà di decidere se sottostare o meno a disposizioni del legislatore, aderenti ai due principi prima esposti (democrazia interna e finanziamento), consapevoli, però, che ciò inderogabilmente condizionerebbe il diritto di continuare ad usufruire di risorse pubbliche (Fondazione Etica, 2022).
Antonio Rossello
Riferimenti- Berti Enrico L’attualità di Aristotele [Libro].– Roma-: Armando, 2000. Ciancio Adriana Ripensare o “rinnovare” le formazioni sociali? [Libro].– Torino-: Giappichelli, 2020.– E-book.– Atti dell’omonimo Convegno presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ca. Coduti Daniele Regolare i partiti politici contemporanei [Libro].– Torino-: Giappichelli, 2019. Di Gregorio Angela e Musselli Angela Democrazia, lobbying e processo decisionale [Libro].– Milano-: Franco Angeli Edizioni, 2015. Fondazione Etica Riforma dei partiti [Online]-// Fondazione Etica.– 2022.– https://www.fondazionetica.it/riforma-partiti. Iorio Giovanni e Zicchittu Paolo Lo statuto dei partiti politici tra diritto pubblico e diritto privato [Libro].– Torino-: Giappichelli, 2021.– Collana del Dipartimento Giurisprudenza dell’Università di Milano-Bicocca. Scuto Filippo La democrazia interna dei partiti: profili costituzionali di una transizione [Libro].– torino-: Giappichelli, 2018. Note- 1Ernesto Rossi-(Caserta,-25 agosto–1897-–-Roma,-9 febbraio–1967) è stato un-politico,-giornalista,-antifascista-ed-economista–italiano. Operò nell’ambito del-Partito d’Azione-e del successivo-Partito Radicale. Attraverso i suoi scritti sulla rivista «Il Mondo» è possibile offrire uno spaccato della prima repubblica compreso in un arco di tempo che si estende dal 1949 al 1966.
Giovanni Sartori-(Firenze,-13 maggio–1924-–-Roma,-4 aprile–2017) è stato un-politologo,-sociologo-e-accademico–italiano. È considerato uno dei massimi esperti di-scienze politiche-a livello internazionale
-e il più importante scienziato politico italiano].
Piero Ignazi-(Faenza,-15 febbraio–1951) è un-politologo-e-accademico–italiano, esperto in-politica comparata.4
Per multilevel governance si intende un’azione coordinata dell’Unione, degli-Stati membri dell’Unione europea-e degli enti regionali e locali fondata sui principi di sussidiarietà e di proporzionalità e sul partenariato e volta a-definire–e attuare-le politiche dell’Unione europea. La-Politica-(in greco Τά πολιτικά) è un’opera di-Aristotele-dedicata all’amministrazione della-polis. È suddivisa in otto libri, nei quali il-filosofo-analizza le realtà politiche a partire dall’organizzazione della famiglia, intesa come nucleo base della società, per passare ai diversi tipi di-costituzione.