Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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La Costituzione Repubblicana violata
Storia Savonese, di fabbriche, di fascismo
Scioperi del marzo 1944, arresti, 67 deportati


Queste note sono state elaborate mentre si sta di nuovo cercando di violare la Costituzione Repubblicana attraverso il taglio nella possibilità di rappresentanza democratica rappresentato dai due rami del Parlamento. Proprio per riaffermare il valore della Costituzione è ancora il caso di ricordare una delle pagine più gloriose della storia che hanno costruito la nostra democrazia repubblicana. La storia scritta dagli operai delle grandi fabbriche il 1° marzo del 1944.

di Franco Astengo

L’Unità del 15 Marzo 1944, sotto l’occhiello : “La classe operaia all’avanguardia della lotta di liberazione nazionale” titolava :” Lo sciopero generale dell’Italia Settentrionale e Centrale è una grande battaglia vinta contro gli oppressori della Patria”.

Era quello, in estrema sintesi, il giudizio che forniva l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano all’esito dello sciopero delle grandi fabbriche, svoltosi il 1 Marzo di quell’anno: un vero e proprio punto di svolta nella Resistenza al Centro-Nord. Oggi è più che mai necessario ricordare questo passaggio per ragioni che si situano ben oltre il semplice dovere di cronaca o per ricordare quanti, in quell’occasione, furono prelevati dalle fabbriche e portati nei campi di sterminio( i savonesi in particolare a Mauthuasen.)

L’intervento della Resistenza a sostegno dell’offensiva alleata del primo trimestre 1944 non si manifestò, infatti, soltanto con l’intensificarsi della guerra partigiana sulle montagne e nelle città. L’importanza e l’efficacia del contributo dato dalla classe operaia delle grandi concentrazioni industriali deve essere ricordato e collegato direttamente con le azioni di lotta armata.

Solo in quel modo, infatti, con la saldatura tra la lotta di montagna, quella di città e la presenza nelle grandi fabbriche il movimento di Resistenza avrebbe assunto un ruolo decisivo in quella fase cruciale della guerra, alla vigilia dello sbarco in Normandia e mentre sul fronte est le truppe sovietiche stavano compiendo la cosiddetta “Marcia del fango” già in territorio ucraino.

Ben consapevole di questa necessità di intreccio tra i diversi livelli della lotta, fin dal Gennaio 1944, la direzione per l’Alta Italia del PCI (Longo, Secchia, Li Causi, Massola, Roasio) tenne una riunione, alla quale intervennero anche i rappresentanti dei comitati d’agitazione che avevano diretto gli scioperi nel novembre – dicembre 1943 (Colombi per il Piemonte, Grassi per la Lombardia, Scappini per la Liguria) e decise di avviare immediatamente la preparazione di uno sciopero di vaste proporzioni, costituendo a questo fine un comitato di agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria.

L’iniziativa venne poi discussa ampiamente con gli altri partiti del CLNAI, e in particolare con il partito socialista e il partito d’azione che s’impegnarono anch’essi nel lavoro preparatorio. Seguirono settimane d’intensa attività politica e organizzativa per mobilitare al massimo le forze operaie e per coordinare l’intervento dei GAP, non solo nelle regioni del triangolo industriale, ma anche nel Veneto, in Toscana e in Emilia; questa estensione del movimento impose alcuni rinvii della data d’inizio, che infine venne fissata per il 1 Marzo 1944.

In campo fascista (ovviamente la preparazione di una iniziativa di così grande portata non poté essere condotta in totale clandestinità) era considerata con rabbiosa inquietudine anche perché avrebbe significato di fatto il fallimento di una grossolana manovra propagandistica: la cosiddetta socializzazione della gestione delle imprese, che proprio in quei giorni (il decreto legislativo nel meritò portò la data del 12 Febbraio) il governo di Salò aveva lanciato proprio nell’intento di placare l’ostilità delle masse operaie.

Quelle masse operaie che accolsero con assoluta indifferenza il progetto di socializzazione, attorno al quale tuttavia i fascisti continuarono a orchestrare una rumorosa campagna propagandistica, sperando di riuscire così a richiamare prima o poi su di esso l’interesse dei lavoratori. Una speranza che crollò miseramente di fronte alla prospettiva dello sciopero. Considerata l’impossibilità di bloccare il movimento, le autorità fasciste tentarono di ridurne gli effetti diramando attraverso la stampa l’annuncio che alcune fabbriche piemontesi sarebbe rimaste chiuse per 7 giorni, a cominciare dal 1 Marzo, per mancanza di energia elettrica. L’espediente, subito denunciato da un manifesto del comitato interregionale, non impedì che proprio a Torino e in Piemonte si registrasse una elevata partecipazione allo sciopero: 60 mila lavoratori in città e 150.000 in Regione si astennero dal lavoro.

Sin dal primo giorno lo scioperò si rivelò imponente e vide complessivamente la partecipazione di circa un milione di lavoratori. A Milano scioperarono anche le maestranze della tipografia del Corriere della Sera e per tre giorni l’organo della grande borghesia lombarda non poté uscire. La repressione tedesca fu dovunque feroce. L’ambasciatore Rahn ricevette personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti. E anche se il mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per “difficoltà tecniche inerenti ai trasporti” e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica (come spiegò lo stesso Rahn) alcune migliaia di operai furono deportati nei campi di sterminio.

I fascisti s’assunsero il ruolo servile di esprimere la volontà dei tedeschi, rivolgendo minacciose intimazioni agli operai che continuavano ad astenersi dal lavoro.

A Genova, il capo della provincia Basile (lo stesso personaggio che, 16 anni dopo, sarebbe stato al centro dei moti genovesi contro il governo Tambroni, per via della decisione del MSI di fargli presiedere il previsto congresso nazionale di quel Partito proprio a Genova: congresso che proprio quelle mobilitazioni di piazza impedirono che si svolgesse aprendo la strada anche alla caduta del governo che gli stessi missini stavano sostenendo) lanciò un “ultimo avviso”, minacciando – appunto – la deportazione nei campi di sterminio (si trattava, secondo lui, di mandare gli operai a “meditare sul danno arrecato alla causa della vittoria”).

In realtà lo sciopero fu una dimostrazione imponente di forza e di volontà combattiva, fu un movimento di massa che non trova riscontro nella storia della resistenza europea. Ai fini bellici la sua importanza non fu minore, se si pensa che per otto giorni la produzione di guerra venne completamente paralizzata in tutta l’Italia invasa.

Il che equivalse per i tedeschi a una grossa sconfitta riportata sul campo di battaglia.

A Savona lo sciopero assunse una particolare dimensione. A dimostrazione dell’importanza che il Partito Comunista attribuiva a Savona (all’epoca uno dei principali centri del triangolo industriale) il 28 febbraio giunse a Savona Giancarlo Pajetta che, assieme a Andrea Gilardi, segretario della Federazione, da una abitazione sita in via Poggi, svolse il lavoro di organizzazione e coordinamento. Le indicazioni del partito agli operai erano precise: organizzare la lotta, sabotare la produzione, bloccare le ferrovie, disarticolare la rete di controllo tedesca delle industrie italiane. Preparato con estrema attenzione, lo sciopero riuscì compattamente anche a Savona.

Scrisse in allora il dirigente del PCI: “ Riuscita totalitaria come si prevedeva. All’Ilva sono entrati i tedeschi, ma lo sciopero è continuato. Anche a Vado sciopero, 40 arresti a Vado e 100 a Savona, secondo le prime notizie.”

In effetti il prezzo pagato fu alto. Incapaci di impedire lo svolgersi dell’agitazione, tedeschi e fascisti risposero con la repressione più brutale. Alla Brown Boveri di Vado Ligure alcuni operai, considerati promotori dell’agitazione, furono arrestati. Eguale sorte per altri 27 operai dello stabilimento SAMR, ad essi si aggiunsero poi trenta lavoratori catturati alla Piaggio di Finale Ligure, mentre oltre un centinaio furono i rastrellati all’ILVA di Savona.

Gli arrestati furono prima trasferiti alla Colonia “Merello” di Spotorno, adibita a campo di concentramento e poi, dopo una sosta a Genova, deportati in Germania. 67 lavoratori, considerati inadatti al rigido regime dei campi di lavoro germanici, furono direttamente avviati al tristemente noto campo di sterminio di Mauthausen da cui, a guerra finita, solo in otto faranno ritorno a Savona.

Complessivamente è possibile riassumere il senso di quelle giornate (gli scioperi si conclusero come previsto dal comitato di agitazione interregionale l’8 Marzo) rileggendo quanto scritto, all’epoca dalla “Nostra Lotta”: “ Lo sciopero generale politico rivendicativo del 1-8 Marzo assume un’importanza e un significato nazionali e internazionali di gran lunga superiori agli obiettivi immediati che esso si poneva; indica la strada da seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie, in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta: essa si iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di domani”.

Gli scioperi del 1-8 Marzo 1944 assunsero anche un significato generale di indirizzo politico della lotta di Resistenza: il proletariato aveva assunto, in quell’occasione, un senso di “responsabilità nazionale” che stava dentro alle indicazioni dei partiti che componevano il CLNAI (costituitosi il 7 febbraio 1944), facendo così convivere le istanze della liberazione della classe con quelle della vittoria sul nazifascismo e dell’avvento della democrazia. Fu quello il compito di sintesi assunto dai partiti della sinistra: far convivere, all’interno di un progetto politico che era appunto di un vero e proprio radicale rinnovamento della democrazia in Italia le motivazioni di classe con quelle antifasciste in senso strettamente politico.

Un lavoro di indirizzo e di sintesi non facile, realizzato anche in forme complesse, ma che alla fine ottenne un risultato fondamentale: ancor oggi possiamo, infatti, affermare che alla base della democrazia repubblicana stanno le lotte operaie e la Resistenza. Ricordare oggi quelle giornate del Marzo di settantasei anni fa significa anche riaffermare quell’origine e quelle radici in tempi davvero difficili per la democrazia italiana sottoposta ad attacchi molto duri e al manifestarsi di presenze revansciste di stampo razzista.

Il nesso tra Resistenza e classe operaia deve rimanere nella coscienza di tutti come una stella polare, un punto di riferimento per chiunque oggi intenda ancora affermare i valori della democrazia, della libertà, del riscatto sociale, dell’eguaglianza. I valori della democrazia sono ancora oggi riassumibili nel testo della Costituzione Repubblicana, nell’espressione dei principi che vi sono contenuti, nella linea dell’intreccio tra diritti e doveri che vi si è realizzata in una sintesi che rimane fondamentale per la nostra convivenza civile e politica.

Il nostro sistema politico, ormai incentrato su di una governabilità fondata esclusivamente sull’apparire e incapace di realizzare meccanismi solidi di aggregazione e formazione del consenso sta incontrando grandi difficoltà. Si presentano rischi molto seri di arretramento sul piano della capacità di tenuta democratica. Rischi che possono essere fronteggiati e superati soltanto attraverso un fermo richiamo a quei valori che, nel ferro e del fuoco di un tremendo conflitto, furono espressi per costruire la Repubblica.

Per questo motivo il ritorno ad un richiamo diretto alle origini della Repubblica e alla Costituzione, come quello rappresentato dal ricordo degli scioperi operai del Marzo 1944, appare fattore decisivo per quella necessaria riaffermazione di identità culturale e politica di cui l’Italia in questo momento ha estremo bisogno.

Franco Astengo


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