Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Ma quello ferroviario è ancora un servizio essenziale?


Mezzo secolo fa, agli inizi del 1973, pochi credevano nell’avvenire delle ferrovie. I più consideravano il treno un mezzo di trasporto superato e, quindi, destinato ad un lento ma ineluttabile declino.

di Massimo Ferrari*

Ingegnere esperto e storico dei Trasporti. É stato assessore ai Tsporti e Viabilità nella città di Monza negli anni 1993 e 1994,

Anche coloro che difendevano le ragioni del trasporto su ferro – per esempio, l’ottimo giornalista Mario Righetti sulle pagine del Corriere della Sera – raccomandavano di puntare sullo sviluppo delle grandi direttrici nazionali ed internazionali, sfoltendo le linee locali additate tra le principali cause dell’ormai cronico disavanzo. Insomma, si puntava a salvare il salvabile.

Perciò da ragazzo leggevo con attenzione gli avvisi di gara che ogni tanto venivano pubblicati sulla stampa: se si riteneva di investire su questo o quell’impianto, voleva dire che almeno per un po’ ci sarebbe stato un futuro per certi servizi. Eppure il treno, forse più per tradizione che per convinzione, veniva ancora percepito come un servizio essenziale irrinunciabile. Quando nell’autunno di quello stesso 1973, a seguito della guerra dello Yom Kippur, il prezzo della benzina schizzò alle stelle e vennero IUdecretate le “domeniche a piedi”, mio padre, allora funzionario dell’Enel, mi tranquillizzò assicurandomi che, anche se la situazione si fosse aggravata, l’ultima forma di locomozione ad essere colpita sarebbe stata proprio la circolazione ferroviaria.

E, infatti, a seguito di quella epocale crisi energetica, la funzione del treno cominciò ad essere rivalutata da molti opinionisti. Si prese a parlare della necessità di un riequilibrio modale, per non essere totalmente dipendenti dal trasporto su gomma. Fiumi di parole, cui, con molta fatica e parecchie contraddizioni, sono poi seguiti anche fatti tangibili. Lentamente, però. Se erano stati sufficienti appena quindici anni per rivoluzionare il mondo dei trasporti e le abitudini di spostamento – la motorizzazione di massa, le autostrade, il boom dell’aviazione commerciale – non è bastato mezzo secolo per conseguire pienamente il riequilibrio modale auspicato.

Certo, tante cose sono cambiate.  L’Alta Velocità ha fatto irruzione in molte nazioni europee ed asiatiche; i tram moderni sono ricomparsi nelle città francesi, spagnole e americane (talvolta, più timidamente, anche in qualche città italiana); persino la potatura delle linee secondarie ha segnato il passo e, in certi rari casi, si è assistito a qualche insperata riapertura. Il turismo su rotaia, che allora era appannaggio delle classi sociali più umili, non ancora motorizzate, adesso si sta ritagliando una fetta di mercato affluente. In giro per il Mondo circolano crociere su rotaia proposte a decine di migliaia di euro ed anche la nostra Fondazione Fs punta a ritagliarsi una nicchia nel settore.

Del resto, ingenti investimenti sono stati annunciati a livello europeo (per non parlare dell’Estremo Oriente, dove in genere si preferisce annunciare i lavori già conclusi). Persino in Brasile si torna a parlare di una linea ad Alta Velocità tra Rio e San Paolo, mentre in Africa si pensa di realizzare  nuove ferrovie suburbano per alleviare la congestione permanente a Lagos e Kinshasa.. E naturalmente anche da noi è lecito attendersi che le ingenti risorse finanziarie stanziate dal PNRR, con procedure velocizzate dalla nomina di commissari ad acta, possano dare (a breve?) buoni frutti.

Ultimamente, però, la notizia di un cantiere di prossima apertura o la lettura di un avviso di gara mi provocano una sottile inquietudine. Anziché gioire per un’ulteriore conferma della vitalità ferroviaria, comincio a temerne gli effetti collaterali. Già da una decina d’anni, puntualmente in estate, dopo la chiusura delle scuole, molte linee locali vengono sospese per lavori. Inizialmente giusto nelle settimane centrali d’agosto, poi, sempre più spesso, da giugno a settembre. Evidentemente ci si è preso gusto ad investire su queste tratte che un tempo sembravano destinate all’abbandono. Anche se di operai al lavoro capita assai raramente di incontrarne.

Adesso questo modus operandi si estende persino alle linee importanti. Nella prossima estate la (ex) Direttissima Bologna – Prato – vanto dell’ingegneria italiana alla fine degli anni Trenta – chiuderà per tre mesi. Certo, oggi Frecciarossa ed Italo, per collegare Milano a Roma, utilizzano la nuova linea AV. Ma i residui intercity non si capisce bene che fine facciano. Forse deviati via Genova e Livorno, con consistente aggravio di tempo. Mentre l’EC notturno Vienna – Roma verrà attestato ad Ancona. Se un turista mitteleuropeo intendeva visitare gli Uffizi o il Colosseo, gli si proporranno in alternativa le spiagge della Romagna. Vuoi mettere l’abbronzatura a Rimini?

Stessa sorte (tre mesi di interruzione) toccherà nell’estate del 2024 alla linea internazionale del Sempione, già interessata da improrogabili lavori nel 2020 (ma allora c’era la pandemia): tutti in bus tra Domodossola e Milano, anche se gravati da bagagli. I vacanzieri qualche sacrificio possono pure accollarselo. Lo hanno subito (di buon grado?) persino i pendolari del capoluogo lombardo che, nella scorsa estate, hanno visto il transito dei treni nel Passante interrotto per diverse settimane a fronte di un anomalo consumo dei binari in curva, per cause comunque mai del tutto chiarite.

Chiarissimo, invece, il motivo dei lavori sulla Palermo – Catania, il cui tracciato deve essere raddoppiato per rendere finalmente il treno competitivo tra le due grandi città siciliane (intervento contemplato nel PNRR, come prova eloquente degli investimenti nel Mezzogiorno). E allora si comincia con chiudere per due anni la linea tra Bicocca e Dittaino, ossia nella parte sostanzialmente pianeggiante e poco popolata, dove in teoria dovrebbe essere più facile intervenire.

Tutte queste cose – manutenzioni straordinarie e lavori di potenziamento infrastrutturali – un tempo, spesso con tecnologie meno sofisticate, venivano effettuate in pendenza di esercizio, ricorrendo, se necessario, al lavoro notturno. Ancora venti anni fa, a Milano, un intervento delicatissimo quale il quadruplicamento tra Boviva e Cadorna, in trincea a pochi metri dagli stabili signorili del quartiere Sempione, venne realizzato senza sospendere quasi mai la circolazione dei treni. Adesso si sostituiscono i treni con autobus nei fine settimana e nella stagione estiva tra Sondrio e Tirano per  (impercettibili) migliorie in vista delle Olimpiadi invernali 2026, anche se la parallela strada statale dello Stelvio vede il continuo incolonnamento di auto dirette alle località di villeggiatura alpina.

Certo è più comodo lavorare senza dover fare i conti col passaggio dei treni. Si evitano turni di notte e conseguenti grane sindacali. Forse si risparmia qualcosa (ma sul punto occorrerebbe fare chiarezza: quanto costa tenere aperti cantieri per un’intera stagione? Sempre che si lavori per davvero, è ovvio). Sicuramente si riducono i rischi, soddisfacendo i desiderata dell’Ansfisa, secondo cui una ferrovia davvero sicura è una ferrovia chiusa. Ma se si adottassero gli stessi criteri per la rete viaria ed autostradale si paralizzerebbe il Paese e l’economia crollerebbe.

La verità – così almeno sembra di potersi dedurre dai fatti, perché nessuno ha avuto il coraggio di esplicitarla chiaramente – con ogni probabilità è un’altra. Il trasporto ferroviario (come pure il trasporto urbano, anche nelle maggiori città, Roma docet) è ormai considerato marginale, a dispetto delle roboanti dichiarazioni di intenti volte a potenziarlo. Se si eccettua la rete ad Alta Velocità (almeno quella!), le metropolitane nelle città (ma a Genova manco quella!) e le tratte più frequentate dai pendolari (dove un’interruzione prolungata provocherebbe problemi di ordine pubblico), tutto il resto si può impunemente sospendere per settimane o mesi, lasciando che la clientela scelga altre modalità di trasporto (cui poi finisce con l’abituarsi) e gli utenti irriducibili si arrangino con gli autobus sostitutivi (sulla cui affidabilità sarebbe meglio stendere un pietoso velo).

Se cinquant’anni fa il trasporto ferroviario, seppur al tramonto, era comunque considerato un servizio essenziale, oggi lo stesso – che sembra avviato a rivestire un ruolo di primaria importanza nella mobilità del futuro – è il primo ad essere sospeso per le più svariate ragioni: quando c’è da aprire un cantiere, quando ci sono problemi di ordine pubblico in una stazione, quando si avvertono anche solo lievi scosse di terremoto o principi di incendio a chilometri di distanza e via enumerando. Finendo così per rendere aleatorio ed inaffidabile il servizio stesso.

Massimo Ferrari   – Presidente UTP/Assoutenti

Ringrazio tutti coloro che hanno ritenuto di apportare preziosi contributi al mio intervento su un tema che sta producendo un condizionamento crescente sull’affidabilita’ del servizio ferroviario.

Che la (pessima) prassi delle chiusure per lavori si stia diffondendo anche oltre frontiera non è certo motivo di consolazione, semmai di ulteriore allarme. Occorre, tuttavia, ricordare agli amici svizzeri che la situazione in Italia appare molto più  preoccupante, perché, in un contesto di diffusa disattenzione al servizio ferroviario – al di fuori dei principali assi di traffico – si tende ad abusare delle chiusure, per favorire i primo luogo le imprese appaltatrici, ridurre i problemi gestionali e tacitare i lavoratori, nella assoluta indifferenza verso gli utenti (sempre trattati come ultima “ruota del carro”).

Inoltre, ben diversa è  l’organizzazione dei servizi sostitutivi. Ne ho fatto esperienza assieme a Pino Colombi nel 2021, lungo la linea CFF del Vallese: chiusura a senso unico alternato; batterie di bus sostitutivi; presenza numerosa di personale di assistenza ai viaggiatori. Da noi si gioca al risparmio e non si controlla neppure se i servizi sostitutivi vengano regolarmente erogati. Ciò che scrive Roberto Renzi è significativo in proposito.
Quello della sicurezza dei lavoratori impegnati nei cantieri è certamente un problema, ma spesso viene usato come un pretesto. Se la stessa attenzione venisse spesa nei cantieri stradali vedremmo autostrade chiuse per settimane e questo, chiaramente, nessun politico se lo sente di autorizzare.
Il che non toglie, come ci ricorda Enrico Cantoni,  che anche i cantieri stradali spesso si protraggono a tempo indeterminato (vedi il caso dell’autostrada dei Fiori nel Ponente Ligure), ma qui almeno si sceglie di lavorare “in pendenza d’esercizio”, ossia a senso unico alternato o con restringimenti vari. Gli automobilisti si inferociscono (specie quando non vedono nessuno al lavoro), ma comunque la circolazione, in qualche modo, è garantita.
Per la verità adesso si comincia ad ipotizzare la chiusura del traforo del Monte Bianco (che ha 60 anni: l’anagrafe presenta il conto non solo agli esseri umani) ogni autunno per decenni a venire. Ma la prospettiva è  talmente terrificante – per i valdostani, per gli autotrasportatori ecc. – che c’è chi preferirebbe una chiusura totale per quattro anni, mentre non manca chi suggerisce addirittura di accettare temporaneamente il rischio (di incendi, come quello luttuoso di oltre vent’anni fa, e di crolli!), costruendo nel frattempo un tunnel parallelo.
Solitamente condivido le analisi sociologiche di Maurizio Alfisi il quale ci ricorda, spesso con toni molto forti, lo strapotere della “cultura dell’automobile” che permea la nostra società condizionandola. Stavolta, però, temo che il suo commento pecchi semmai di un certo ottimismo.
Non è per nulla scontato che i nostri figli assisteranno ad un rilancio alla grande del trasporto pubblico e ferroviario in particolare per ineluttabili ragioni climatiche e ambientali. Ad ostacolare questa prospettiva non sono tanto i “poteri forti” (che pure ci sono), quanto le cattive abitudini sedimentatesi a tutti i livelli.
Dai dirigenti del Gruppo Fs che pensano soprattutto a semplificarsi la (loro) vita, dai responsabili di Ansfisa che pensano intensamente a come complicare la (nostra) vita, fino ai sindacati che continuano ad abusare del loro ruolo per tenere in ostaggio gli utenti con scioperi inutili e manifestazioni pretestuose Ieri sono sfuggito per un pelo alla occupazione della stazione Museo di Napoli, con conseguente blocco della metropolitana per due ore da parte dei disoccupati di Scampia e dintorni. Come recita il vecchio adagio: “dagli amici mi guardi Iddio, che ai nemici ci penso io”.
Un saluto:  Massimo Ferrari 

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