Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Finalpia, notte di guerra e coprifuoco. Storia inedita di rappresaglia mancata grazie al commissario prefettizio Leonardo Dino Chiesa, soldato valoroso e mutilato. Fu esponente M.S.I.


È già notte da un pezzo, a Finalpia. Notte di guerra, alla fine del 1944, in Via Umberto I, quella che ora è via Porro. Il vento sibila fra le botti che “U Tumisci” aveva accatastato a ridosso di casa sua. Botti, bigonce, “garosci”, in dialetto, così si chiamano da sempre gli abitanti di Finalpia, proprio perché abili a costruirle. C’è il coprifuoco, ma fra le botti ci sono tre partigiani, fra cui Claudio Sterpone, classe 1923, che qualche mese fa mi ha raccontato al telefono ogni dettaglio di questa storia.

di Luca Battaglieri con la collaborazione di Paolo Mussapp
Giorgio Almirante conversa con Dino Chiesa, presente il giovane Nicola Viassolo, anni ’80

La guerra civile infuria in ogni luogo, imprevedibile e feroce, con agguati, attentati, deportazioni, fucilazioni: è il tempo delle scelte e i partigiani sono lì per prendere, vivo o morto, il tenente repubblichino alloggiato nell’Albergo Boncardo. Con lui, la sua donna, un’orfana che, stufa di far vita grama, è entrata nei San Marco, s’è “messa coi fascisti”. Con tanto di divisa e pistola alla cinta, è una mina vagante, “sa” di ogni ribelle nascosto in montagna.

All’improvviso, sale un suono cupo di passi, sono stivali militari. Nella penombra si notano gli elmetti, è la pattuglia tedesca. Proprio in quel momento cade a terra il coperchio d’una botte, o un’arma, non si sa. “Wer ist da?” “Chi è là”, gridano i germanici. Parte un colpo, poi un altro, quindi tanti altri, tra vampe, grida gutturali, urla di dolore. Risuona tutto, nella via. Pochi secondi e finisce lì.
Nessun morto, è quasi un miracolo, c’è solo un ferito fra i tedeschi. Si contorce con dolore, a terra, mentre i partigiani gli portano via la pistola prima di sparire nel buio.
Sterpone, mancato alcune settimane fa, mi ha detto dell’angoscia patita nelle ore successive, della paura di aver ucciso quel tedesco, delle tragiche conseguenze per la popolazione civile.
Perché all’alba del giorno dopo i tedeschi, armi in pugno, rastrellano il rione, accanendosi soprattutto in Via Umberto.
È lì che arrestano Angelo Mearini, titolare della Trattoria Madamin, nell’atto di aprire la serranda. Sua figlia Luciana mi riferirà l’episodio con lucidità. Altrettanto fanno con “Tumisci”, con la Settimia Bongiorni e suo figlio Enrico, non vedente, che abitano lì vicino. Come anche Emanuele Battaglieri, diciassette anni, che, contro il volere dei genitori, ha obbedito all’ordine dei tedeschi, dato con altoparlante, di scendere in strada.
E, senza tanti complimenti, viene “invitato” Pietro Mussapp, detto “u tedescu”, originario di Zara, già prigioniero austroungarico della Grande Guerra, rimasto poi a Finalmarina. Con lui, il figlio Vincenzo, meno di vent’anni. Paolo, il nipote, ne custodisce il racconto. Fra grida, colpi sulle porte, minacce, terrore, i tedeschi prelevano ben presto una quindicina di persone e le spingono bruscamente fino al loro comando, all’Albergo Lido, in riva al mare. Intorno non c’è nessuno. Hanno tutti paura. La popolazione, mi dirà Giampiero, “Gipi”, nipote di “Manin”, che aveva un negozio nella via, s’è rintanata nelle case, in trepida attesa. È calato un silenzio di tomba. Qualche tedesco, messo il fucile a pied’arm, si mette a fumare fetenti sigarette militari. Gli italiani guardano, qualcuno trema, altri ostentano indifferenza.
Mi avevano già rastrellato, due mesi fa, l’ho scampata.” dice uno, “Mi sa che stavolta ci faranno la pelle” gli risponde un altro, rassegnato, “hanno il dente avvelenato”. “Silenzio!” grida il maresciallo, il Feldwebel, tanto per farsi sentire. In Germania fa la guardia campestre, laggiù è affabile con tutti, ma qui è diverso, deve fare il duro. Passa il tempo e la tensione si allenta, gli sguardi si incrociano. Un soldato offre a Mearini una sigaretta. Qualche giorno prima aveva bevuto un bicchiere di vino, proprio da Madamin.
Ecco il capitano tedesco, gli stivali lucidissimi e il cappello ben calato in testa. Lo accoglie un batter di tacchi e un saluto nazista. Il maresciallo gli parla a scatti, il capitano annuisce, grave. Non si sa nulla, come succede spesso in guerra, non si capisce nulla. Il capitano si rivolge agli italiani. Mussapp, che a volte fa da interprete, traduce, a sprazzi: “I banditi hanno attaccato il glorioso esercito tedesco”. Un attimo di silenzio. “La legge di guerra impone che per ogni soldato ucciso fucileremo dieci di voi”. Italiani e tedeschi restano immobili, ammutoliti. Fra poco scorrerà il sangue, fra poco qualcuno morirà. Il capitano tedesco osserva i suoi uomini. Sono quasi tutti richiamati, di classi anziane, non sarebbero capaci di resistere a un attacco in forze dei “ribelli”. Consci di questa debolezza, i superiori gli hanno suggerito di non farsi scrupoli nel “dare l’esempio” con la fucilazione di qualche italiano, senza andar troppo per il sottile. Pensa di essere nel giusto, il capitano, “La Germania è davvero vostra amica”, dicono i manifesti agli italiani, nonostante il famoso “tradimento” dell’otto settembre. Scruta gli ostaggi, uno per uno. Sono commercianti, operai, gente semplice, pacifica, lo capirebbe chiunque.
È anche lui un richiamato, il capitano, aveva già combattuto l’altra guerra e di morti ne aveva avuto abbastanza. Si rende conto, in cuor suo, che la rappresaglia è un crimine, lo ha letto anche sul “Decalogo del soldato tedesco” quando ha ripreso la divisa, tre anni prima.
Giunge sul posto un’auto. È alimentata a gas di carbonella, la benzina è rara. Il passeggero fatica a scendere. È un invalido, uno dei pantaloni è piegato su sé stesso, tenuto da una graffetta, oltre al piede non ha più neppure il braccio destro.
Giorgio Almirante e Dino Chiesa

È Leonardo ”Dino” Chiesa, un giovane soldato valoroso, mutilato da un mortaio in Albania. Lo hanno appena nominato commissario prefettizio del Comune, al posto del podestà: secondo le leggi dell’occupazione, è lui a rispondere di persona se le forze germaniche vengono attaccate dai ribelli. Si presenta all’ufficiale tedesco. Lo fissa negli occhi, non ha alcun timore, chiede come sta il soldato ferito. Non si sa, ma è grave, risponde asciutto il capitano. Ma l’affronto al glorioso esercito del Reich va punito con la morte, è la legge di guerra, eccetera.

Chiesa scuote gravemente il capo. Sono momenti drammatici, in un tempo sospeso.Il tedesco accetta di passare con lui in rassegna i civili allineati al muro. “Mearini lo conosco” la voce grave di Chiesa rompe il silenzio. “Sicuramente non è un partigiano”.
La brezza leggera si insinua tra i presenti, mentre Chiesa, con dignità, indica un altro ostaggio.
Mussapp, nell’altra guerra, è stato un soldato austriaco”. Il tedesco alza la testa. Ma è un momento. “Garantisco personalmente anche per il figlio”. Passa qualche secondo. A un cenno del capitano, i tre ostaggi sono liberi. C’è silenzio. Si avvicina un commerciante. Il tedesco lo riconosce, è lui a rifornire il reparto della Wehrmacht. Qualche parola sottovoce, poi indica un ostaggio. “È mio cognato”. Anche quello viene tolto dalla fila. Vanno via tenendo gli occhi bassi, sentendosi in colpa per non aver speso una parola per gli altri ostaggi, nonostante si conoscano tutti da anni.
Battaglieri è un ragazzino”, dice Chiesa, “non sa nulla di politica”. Ha salva la vita, come anche un parente del Maresciallo Enrico Caviglia.
In quel momento arriva un soldato tedesco. È un portaordini. Batte i tacchi. Saluta. Col capitano c’è un fitto scambio di parole. Mussapp riferì al nipote di aver inteso subito. Sbalorditivo. Il soldato ferito sta meglio e raccomanda di non fare rappresaglie, per l’amor di Dio.
Anche Chiesa ha capito. Ma non è uno scampato pericolo. Anzi. Sa bene che di fronte a un ferito tedesco è prevista la fucilazione di cinque ostaggi, è sempre la “legge di guerra”. Chiesa si ferma e si rivolge al capitano. “Garantisco io per tutti”, dice, autorevole. “Se qualcuno di loro vi farà del male, pagherò io, di persona”. Il capitano resta in silenzio, come in meditazione. Osserva gli ostaggi, poi i soldati schierati con i fucili a pied’arm. Nota il mare poco distante, aspira la brezza, scuote la testa. Poi, dà un ordine, secco. Un soldato spara in aria una lunga raffica di mitra. Gli ostaggi, la gente nelle case vicine, Chiesa, hanno i brividi. Forse è la fine per tutti.
“Raus!”, intima il maresciallo. Gli ostaggi si guardano, increduli. “Raus!”, fa di nuovo il maresciallo. È finita: Tumisci ricorderà commosso, fino alla morte avvenuta pochi anni fa, come quel soldato tedesco ferito avesse particolarmente insistito perché nessuno morisse per causa sua.
Questa è la storia, come mi è stata tramandata, una sintesi di testimonianze oculari, racconti diretti, qualche libro, un po’ di fantasia: la storia di una rappresaglia mancata.
Fu un’eccezione, perché nel 1943-45 la “legge di guerra” fu applicata con rigore dai tedeschi, ad Albenga, a Erli, a Savona, sul Turchino, a Cravasco, così come a Roma e in tutta l’Italia occupata, fucilando e massacrando cittadini inermi, in numero di “dieci per ogni nostro soldato”.
Rappresaglia. Una ritorsione. O una vendetta. Comunque, uno strumento feroce di dissuasione.
Non lo hanno inventato i Tedeschi, risale ai tempi dei Romani. Lo applicarono vincitori e vinti, senza distinzioni, i Russi, gli Americani, i Francesi, nella Germania occupata del 1945. Per non parlare degli Jugoslavi, dei Giapponesi, in Cina e nelle Filippine. E purtroppo anche gli Italiani, in Etiopia, in Libia e in Jugoslavia, dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo.
Tutto ciò fa pensare che l’uccidere in guerra dei cittadini inermi a seguito di attentati della resistenza, ovvero per ritorsione delle azioni delle truppe occupanti sia un principio legittimo, codificato da norma positive e, come tale, giusto.
Del resto, la sentenza della Corte di Norimberga contro i criminali nazisti nel 1946, ha giustificato “le misure di rappresaglia in guerra”… “anche se illegali, pur nelle condizioni particolari in cui esse si verificano”, qualora “l’avversario colpevole si sia a sua volta comportato in maniera illegale” e si intenda “impedire all’avversario di comportarsi illegalmente anche in futuro”.
L’ineluttabilità del principio ha indotto i sopravvissuti a farsi una ragione dei massacri, accettandoli con rassegnazione, oppure attribuendone la responsabilità alla Lotta di Liberazione, giungendo a contestarne la legittimità in una tardiva ottica revisionista. O, d’altro canto, a ritenere giustificati, se non a minimizzare, sempre in chiave ideologica, i “massacri delle “foibe” compiuti dai miliziani jugoslavi in danno della popolazione della Venezia Giulia.
La legittimità del principio è entrata nell’immaginario collettivo, tant’è vero che i rari episodi, come quello sopra descritto, in cui i tedeschi non eseguirono rappresaglie per mero calcolo politico-militare, vennero attribuiti alla clemenza di questo o quell’ufficiale.
Pure le autorità giudiziarie sembrarono prestare acquiescenza a quanto affermato, come dimostra il famoso “armadio della vergogna” della Procura Militare di Roma, dove per oltre quarant’anni rimasero a giacere senza esito le pratiche di migliaia di crimini di guerra dei nazi-fascisti.
Del resto le convenzioni internazionali in materia, quella dell’Aia del 1907 e quella di Ginevra del 1929, nonché la legge di guerra italiana vigenti all’epoca, lette nell’ottica di allora, sembravano consentire la fucilazione di ostaggi innocenti al fine di “mantenere l’ordine” nei territori occupati.
Tant’è vero che il colonnello delle SS Herbert Kappler, autore della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, venne condannato all’ergastolo dal Tribunale di Roma non per il fatto in sé, ma perché aveva ecceduto nel numero delle vittime rispetto alla proporzione di dieci a uno, tenuto conto del numero dei militi delle SS uccisi dai combattenti dei GAP nell’attentato di via Rasella. Quindi la rappresaglia che colpisce le vite umane è una “legge di guerra”, come tale “legittima”?
Che lo sia sembra aderire alla stessa logica dei “vincitori” che, come detto, non furono immuni da analoghe responsabilità. Invece la risposta, e ciò si può ora affermare con certezza, è senz’altro negativa.
Negli anni successivi al famoso Processo di Norimberga, quando la Giustizia militare ha ritenuto, superando le incertezze, la “ragion di stato” e anche l’ipocrisia, di processare mandanti ed esecutori delle stragi nazifasciste, si è affermato il principio per cui la vita umana è più importante delle considerazioni militari, delle ragioni di stato, delle presunte “proporzionalità”.
Merito di un accresciuto rispetto per i diritti delle genti, maturato nel dopoguerra, anche dopo la lettura pur controversa della Sentenza di Norimberga.
Su questo “rispetto” il diritto internazionale ha fatto in questi anni passi da gigante, arricchendosi degli statuti di quattro tribunali penali internazionali ad hoc e insediando all’Aja la Corte Penale Internazionale permanente. Ha affermato illeciti come il genocidio, i crimini di guerra e contro l’umanità e ha introdotto in ambito internazionale gli strumenti per la loro repressione, in forza dei quali sono stati condannati a severe pene detentive i criminali del conflitto dell’ex-Jugoslavia.
E ha contribuito che si desse impulso ai processi ai vari criminali nazisti Priebke, Hass, Engel, Saevecke, ormai ottuagenari, non tanto, ormai, per spirito punitivo, ma per affermare il principio.
Come anche ha riconosciuto il diritto dei combattenti a combattere un esercito occupante pur privi di divise o segni riconoscibili, e di qui la piena legittimità della nostra Resistenza, già affermata dalla Legge italiana. Non occorre quindi dimostrare come la violazione degli obblighi della legge di guerra da parte della popolazione di una nazione occupata possa consistere nell’uccidere persone inermi. Né è mai sussistita alcuna norma che a questa regola facesse eccezione. Perché il diritto è fondato sui principi e questi non vengono meno a causa della guerra, per quanto orrenda o “totale” che sia.
Nel concludere, evidenzio qui, e faccio proprie, le parole limpide dell’Avvocato Gianfranco Maris, finalese d’adozione, Deportato di Guerra e difensore di parte civile nel processo Saevecke (autore della feroce rappresaglia di Piazzale Loreto a Milano), per cui “la giurisprudenza ha fissato una linea di condotta etica, che gli uomini devono avere in qualsiasi situazione di vita, in guerra come in pace, nel proprio Paese come in qualsiasi altro Paese”. Perché “la rappresaglia non esiste, non è un diritto, perché uno Stato che ne occupa un altro, non ha diritto di uccidere i cittadini per incutere il terrore diffuso che induce all’obbedienza servile”.
Alla luce di tali principi, ogni contrapposizione sul punto non ha più alcun fondamento.
A noi, delle generazioni successive, incombe il dovere di interpretare con obiettività quanto accaduto nel nefasto periodo della storia recente e di condividerne la memoria.
E di esserne custodi, armati solamente del diritto.
Luca Battaglieri con la collaborazione di Paolo Mussapp

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