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Liguria e Basso Piemonte

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Il vino ‘Ormeasco’ ha preso nome da Ormea? E perché. Ecco quali sono i filoni di pensiero


Il vino ‘ORMEASCO’. Da Ormea ? Divagazioni enoiche sul vino e sul suo nome. In Alta Valle Arroscia è notoriamente presente un vitigno, nell’accezione contemporanea generale l'”Ormeasco” (o Pornassio, o Ormeasco di Pornassio DOC), da cui si ottiene un vino prodotto in 13 comuni della Provincia di Imperia.

di Gianfranco Benzo

Sono uve di vitigno “Dolcetto” (minimo 95%) con eventuale piccola aggiunta di altre uve rosse non aromatiche. Ha un colore rosso rubino vivo; un profumo vinoso e persistente; un sapore asciutto, corposo, con vena amarognola e con gradazione alcolica minima di 11°. L’ “Ormeasco superiore” è sottoposto obbligatoriamente ad un anno di invecchiamento (che può perdurare fino a 3-4 anni), di cui almeno 4 mesi devono essere in botti di rovere o castagno e deve avere la gradazione alcolica minima di 12,5°. I ristoratori locali raccomandano di servirlo a 16-18° abbinato ad arrosti di carni bianche o rosse, a grigliate e a formaggi più o meno maturi.

Vengono prodotte anche le varianti Passito e Sciacchetrà (di colore rosato).

Per cercare di capire l’origine del nome, dell’etimo, mancando certezze sono avanzate alcune correnti di pensiero. Sono necessarie alcune preliminari riflessioni: riguardano il territorio e la coltivazione della vite nei luoghi che anticamente erano indicati col generico toponimo di Valle superiore del Tanaro, poi Ulmeta dalla quantità di olmi che vi avevano messo radice; nel Medio Evo il territorio prese il nome di Ulmea, di seguito Ormea (in dialetto Ulmèa).

È noto che la vite si diffuse nelle alte valli Arroscia e Tanaro dopo che i greci e gli etruschi la introdussero nei territori della Provenza.

Successivamente i conquistatori romani, per piegare le tribù dei Liguri Epanteri Montani abitanti l’entroterra, distrussero le loro coltivazioni di cereali e soprattutto le loro vigne. Secondo alcune fonti il vitigno Ormeasco dal Dolcetto, che ben si adattava al territorio ed alle condizioni climatiche con precoce maturazione, fu importato dai Saraceni che – guarda caso – avevano le loro basi logistiche proprio in Provenza, e si erano insediati nei territori di Ormea.

È da osservare che la vite è una liana, ha portamento rampicante, è inadatta a sostenersi da sé come fa la maggior parte delle piante da frutto. Se fosse lasciata a sé stessa crescerebbe verso l’alto “aggrappandosi” a qualsiasi supporto: pali, alberi, muri, cespugli. In mancanza striscerebbe sul terreno, aggrovigliandosi. La storia del paesaggio vegetale ci dice che dal tempo dei Romani, fino al recente passato, per poterla “allevare“, la vite veniva abbinata alla coltivazione di altre piante da fusto o alla posatura di pali di legno con la funzione di sostenere i rami della vite, il così detto alteno.

La parte frondosa della vite era sistemata in una sorta di copertura al di sopra di essa, per poterne coglierne i frutti al tempo della vendemmia. Erano forme della coltivazione e strumenti di sostegno per la vite ben diversi da quelli che vediamo organizzate oggi in un vigneto. Tra i sostegni vivi della vite, il più utilizzato era l’olmo campestre, molto diffuso perché – a differenza della maggior parte degli alberi – forma molto presto i frutti prima delle foglie con capacità di germinare già nella stessa primavera, garantendo la sopravvivenza per la nuova pianta.
Inoltre, i rami più giovani venivano spesso potati e le foglie utilizzate quali integratori per l’alimentazione del bestiame, risultando stimolanti per la produzione del latte. Evidente che un grande numero degli olmi di Ulmea era rappresentato da quelli per il sostegno della vite, tanto che la si dicesse “maritata” all’albero.

È intorno al 1300 che in Toscana ed in Emilia si diffuse la consociazione della vite sostenuta da alberi da frutto: anche le comunità di Pornassio e di Cosio d’Arroscia (dal 1303) organizzarono estese piantate, regolamentate dagli Statuti; ma associarono prevalentemente la vite al fico: pianta esigente, ma che non fa eccessivamente ombra agevolando la maturazione dell’uva e le ancora più basse coltivazioni cerealicole. Peraltro, i fichi si vendevano bene alle comunità alpine, tanto che nel linguaggio di Ormea il termine “figun” (figone, da fico) indica i liguri confinanti con gli Ormeaschi, a loro volta chiamati “Savujardi“.

Una grande pandemia, la grafiosi dell’olmo, provocata da un fungo ascomicete, ha raggiunto l’Europa agli inizi del 1900 ed ha portato alla scomparsa di gran parte del patrimonio di olmi nel nostro Paese, obbligando agli attuali sistemi (pali fili e filari) di “allevamento della vite” con utilizzo di tutori diversi dagli olmi.

Una prima corrente di pensiero, mancando altra documentazione ritiene pertanto che l’etimo ormeasco significhi: la vite dell’olmo.

Una seconda corrente di pensiero, la maggioritaria, quella più diffusa nei testi, nota che le località o i nomi con suffisso -asco, nell’antica lingua ligure segnalavano luoghi con la presenza di un corso d’acqua. Ad Ormea scorre il fiume Tanaro ed il termine indicherebbe allora una semplice etimologia dell’ormeasco: la vite e il vino di Ormea.

Altro filone di pensiero ritiene che il vino riporti il nome di Ormea quale essenziale luogo di transito e di commercializzazione del prodotto, alla pari dei prodotti di ardesia che hanno preso il nome di Lavagna o delle giare in Francia che hanno derivato il nome da Antibes e Biot! Nel caso l’etimo ormeasco significherebbe ancora: la vite di Ormea.

La parola definitiva sul nome del vitigno e del vino pare messa scientificamente ed ufficialmente dal Registro Nazionale delle Varietà della Vite, laddove descrivendo il vitigno Dolcetto è scritto: “Di questo ben noto vitigno piemontese si possono citare alcuni sinonimi, più o meno ancora oggi in uso. A parte quelli che non sono che deformazioni del suo vero nome…, ricordiamo in particolare quello di Ormeasca tuttora usato in quella parte della Liguria che confina con la provincia di Cuneo (cioè col circondario di Ormea, donde il nome)”.

Gianfranco Benzo




Vite coltivata alla maniera Etrusca, cioè “maritata” al fico (foto B. Saccagno) e all’olmo.

 


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Gianfranco Benzo

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