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Genova, cronaca di una chiesa provinciale a ‘forfait’. ‘Ho partecipato al Te Deum e alla Messa di Capodanno. Voglio imparare ciò che non devo fare quando sto all’altare”


Genova 02-01-2024 – Ho partecipato al «Te Deum» nella chiesa del Gesù di Piazza Matteotti e alla Messa di Capodanno nella Cattedrale, tutte e due presiedute dal vescovo di Genova, Marco Tasca. Ero tra i fedeli perché offre una prospettiva «speciale»: aiuta il prete a vedere «dall’altra parte»: lo faccio spesso per imparare quello che non devo fare quando sto all’altare.

di Paolo Farinella, prete

Il vicario generale Marco Doldi

Consiglio tutti i preti di fare la stessa esperienza ogni tanto, ne avranno giovamento spirituale. La sensazione che ho avuto nei due
momenti «topici» della Chiesa universale (Te Deum e 57a Giornata della Pace) è stata devastante, o, peggio, una esperienza di vuoto assoluto. Vado per gradi.
Nella chiesa del Gesù, il 31 dicembre 2023 alle ore 18:00, non vi era folla, ma la chiesa era piena, segno che ci si aspettava una parola non dico «nuova» né «risolutiva», ma «significativa» dal vescovo che chiudeva un anno e ne apriva un altro nella prospettiva di fede. Dal punto di vista esteriore, vi erano il vescovo e una quindicina di preti, tutti in abito corale con cotta bianca.
Splendeva in mezzo, solo la macchia nera del vicario generale, Marco Doldi, che, per tutto il tempo è rimasto stretto nel suo nero cappotto, accanto al vescovo, come se avesse freddo o fosse influenzato: assente, asettico, inesistente. Vi era pure la Schola Lauretana della Cattedrale. I canti tutti in latino, la quasi totalità dei presenti muti e senza capire una parola di quello che i preti cantavano, ma
forse non capivano nemmeno loro. Hanno anche riesumato il vecchissimo «T’adoriam, Ostia divina» che avrà almeno un secolo di deviazione dottrinale di stampo giansenista, cui si è aggiunto il rituale vecchio e stantio dell’andirivieni dei preti, guidati dal cerimoniere, verso un passato che non vogliamo fare finire perché se ci allontaniamo da esso, non sappiamo dove andare.
Il senso trasmesso dell’Eucaristia è stata «l’ostia da adorare», davanti alla quale stava un vescovo vestito come un satrapo persiano del secolo VI a.C. con un cappello a forma di missile «leva e metti, metti e leva», segno evidente di un vuoto a perdere di cui non ci si rende nemmeno conto. Però si canta in latino, nell’indifferenza della chiesa presente, divisa in setta clericale all’altare e folla anonima
in aula. La chiesa sinodale è un miraggio, inesistente, volta al passato, assente al presente e cieca senza futuro.

Dopo 59 anni dalla chiusura del concilio Vaticano II, siamo ancora al concetto dell’eucaristia come «ostia adorabile» e non come «Mensa della Parola che si fa Pane e Vino» per nutrire tutte le genti. L’Assemblea dei credenti era inesistente e tutto lo sproloquio sulla «sinodalità» con la quale vescovo e vicari di complemento fanno i gargarismi, senza nemmeno l’acqua benedetta come collutorio.
Mi sono trovato scaraventato nella preistoria paleolitica di una chiesa senza senso. Se questa è la chiesa di Gesù, il figlio di Maria e del falegname di Nàzaret, è meglio essere atei senza pretese e, infatti, viviamo in una struttura che compie azioni, pratica un poco, quanto basta, ma poi tutto finisce lì, illudendosi di essere chiesa orante, amante, missionaria, testimone, credente.
Dopo il saluto di galateo, ma affettuoso del Responsabile della Comunità dei Padri Gesuiti, è intervenuto il vescovo che ha parlato per circa 20 minuti. Ha fatto tre affermazioni. La prima, con accoramento, ripetuta tre volte: «papa Francesco è il papa che il Signore ci ha donato». Grazie della notizia improvvisa. Se l’avessimo saputo prima! La triplice ripetizione era forse il segnale che anche il
vescovo di Genova ha colto l’avversione che c’è nella sua chiesa, specialmente tra i preti, verso un papa che «pretende di essere fedele al vangelo e al concilio», massima autorità nella Chiesa? Il vescovo Tasca mi sembrava preoccupato. Poi ha detto che «bisogna parlare bene», qualunque cosa significasse, perché non l’ha spiegato, ma anche questa perla di saggezza l’ha ripetuta due o tre volte:
come diceva Totò «abundandum ad abundantium». Non ha specificato chi «deve parlare bene» e chi eventualmente «parla male»: che parlasse a suocera perché nuora intendesse? È arduo però individuare la suocera e la nuora, se almeno ci avesse dato un indizio!
Alla fine, è venuto il pezzo forte, anzi il «botto» che ha lasciato brasati i presenti: la chiesa di Genova non ha problemi di preti perché a confronto con il mondo è messa bene. Si vedeva che dalle sue orecchie sprigionava solenne e festoso l’Alleluia di Haendel. Per tutto il terzo millennio, Genova può dormire sugli allori: i preti ci sono e sono tanti. Se vi sono preti che hanno 10, 7, 5, 4 parrocchie peggio per loro: se le sono cercate e sono loro che hanno costretto il vescovo con violenza fisica e verbale di essere caricati di parrocchie per scontare i peccati episcopali. Se vi sono preti abbastanza sufficienti, non c’è posto per i laici, i quali continueranno a fare i chierichetti mal cresciuti, ma sempre immaturi, i tappabuchi alle inefficienze dei preti «sine fine dicentes», che ancora sono distanti dal concilio o, forse,
non l’hanno mai incontrato. Stiamo tranquilli perché il Sinodo, per altro ancora in corso, è solo un gioco, uno scherzo che finirà presto in soffitta: stiamo lavorando a questo!

Il 1° gennaio in Cattedrale la scena è più avvincente e scenografica. Una teoria di vesti bianche, volti seriosi, e candelabri dritti come fusi col Cristo crocifisso che fa da battistrada (se lo avesse saputo, ancora da piccolo, sarebbe andato lui stesso incontro ad Erode per chiedere asilo politico).
Anche qui quattordici tra canonici e vicari, più una manciata di seminaristi, tutti compresi nel loro ruolo, a dominare spazio e scena. Si comincia, si prosegue e si conclude con un coordinatore della liturgia che pare l’unico responsabile del cappello e della coppoletta viola del vescovo: un continuo «leva e metti» vorticoso, con il bastone che va e viene e poi il messale, il microfono, tutto mobile per oscurare
l’immobilismo che si sta portando in scena. I diaconi, che vengono dalla vita di famiglia, del lavoro e della vita feriale, assumono la compunzione tipica dei preti «impiegati del sacro» e lo sono più di loro: «Addio, monti, sporgenti dall’acque…». Tutto è clericalizzato, anche la Schola e il suo «latinorum»: tra quello che avviene oltre la balaustra e quello che non accade sotto la balaustra c’è una muraglia
cinese: due mondi, due universi inconciliabili.
Anche le letture sono appannaggio dei futuri preti, mentre ai laici è riservata solo la cosiddetta (finta) preghiere dei fedeli, preconfezionata da qualche monsignoretto sculettante del secolo scorso, residente in Roma e addio all’attualità e alla ecclesialità e sinodalità. I segni sono potenti! I laici non possono improvvisare nemmeno una intenzione di preghiera perché tutto deve esser controllato dal clero.
W la Chiesa e la partecipazione dei fedeli! Largo ai laici e (un po’, molto meno) alle laiche! Omelia di cinque minuti di orologio per dire che c’è la Madre di Dio e la 75a giornata della pace che ci ha regalato il papa col tema «Intelligenza Artificiale e la Pace». Poi ha avuto due intuizioni forti: alcune raffigurazioni (non ha detto che è tutta l’arte bizantina dal IV secolo in poi) rappresentano la mangiatoia a forma di sepolcro, che per il Vescovo Marco, esprime l’incarnazione; la seconda intuizione è che Gesù si è manifestato «ai pastori» e anche questo per il vescovo di Genova è segno «dell’incarnazione». Peccato! Aveva due prospettive e le ha bruciate senza nemmeno un fiammifero.
L’arte bizantina che raffigura Gesù nella culla a forma di sepolcro è la chiave ermeneutica di Betlèmme e l’antidoto al preventivo «presepe» che istintivamente si trasforma in favoletta e ninne nanne, edulcorate e becere come Tu scendi dalle stelle nella stalla al freddo e al gelo che in Palestina non si trova nemmeno col binocolo al contrario. Quel bambino è il Crocifisso e preannuncia la tragedia
di una morte violenta, come sintesi della violenza nel mondo, compresa quella clericale: Gerusalemme, ancora oggi, né è una prova! I Pastori non sono segno dell’incarnazione, ma commento alle Beatitudini perché vivevano a km 10 da Gerusalèmme in quanto considerati «impuri» e dovevano stare lontano dal tempio. Erano esclusi. Il Crocifisso ha fatto una scelta di vita: i reprobi, gli impuri, non le cattedrali o gli episcòpi, o i palazzi del potere o i cappelli persiani o faraonici che mettono al centro della celebrazione il vescovo e non l’umile «servo di Yhwh condotto al macello».
In tutte e due i momenti, carichi di attese da parte del popolo, presente in maniera anche consistente (cattedrale), nemmeno una parola sul mondo e sulla Chiesa: le guerre, la povertà, le paure, i massacri, una cinquantina di guerre che sommano una «guerra mondiale a pezzi», una società dilaniata da politiche demenziali e, in Italia 4 milioni di poveri. Nulla. Nulla di nulla. Non basta la testimonianza
di una missionaria con contorno di Haitiani a fare da contrappeso. La maggior parte è uscita dalla cattedrale come è entrata, più amareggiata e quelli che ho incontrato, uscendo, mi hanno guardato e a chi accennava a parlare ho messo le dita sulle labbra dicendo: «ha da passà ‘a nutatta», questo passa il convento dei frati minimi e non possiamo attenderci il massimo.
Cosa possiamo aspettarci da chi celebra impunemente, dopo avere manipolato le votazioni del Capitolo dei Canonici, compiendo e inducendo a compiere uno spergiuro grave in odore di scomunica come anche ha manipolato le votazioni per le elezioni del Direttore della Facoltà di teologia, sezione di Genova con lo scopo di fare eleggere il «desiderato» del vescovo e del vicario giulivo? Un altro anno è passato e, Dio voglia, non invano. Tiremm inanz! Se siamo capaci di muoverci in una «chiesa genovese liquida», senza capo né coda, ma abbondante di preti e codazzo di assistenti preti, rovinati prima ancora di esserlo.

Paolo Farinella, prete

ARTICOLI PUBBLICATI DAL SECOLO XIX IN CRONACA NAZIONALE DEL 23 DICEMBRE 2023


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P. Farinella

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