Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Alpi del Mare storia e tradizioni. Qui Carnino. L’eroica bugia di mamma Elisabetta. I bisnipoti sono imprenditori a Roccaforte di Mondovì e ogni anno portano un fiore sulla vetta


Correva l’anno 1883. Tra i monti delle Alpi Liguri, ad oltre 1300 metri d’altitudine, si trova il piccolo villaggio di Carnino. La storia commovente dell’eroica bugia di mamma Elisabetta. Una donna vera, madre esemplare. Oggi i bisnipoti sono imprenditori di una grande e importante segheria di Roccaforte Mondovì.  Nella Valle delle Saline una croce ricorda il luogo dove perse la vita una madre esemplare. I famigliari non l’hanno dimenticata. Dopo più di un secolo, si recano lassù a portare un fiore, porgere un saluto, recitare una mesta preghiera.

di Luciano Frassoni

“L’EROICA BUGIA DI MAMMA ELISABETTA”

Luciano Frassoni, 91 anni, autore dell’articolo, intervistato nella sua seconda ed amata dimora di Viozene da Luciano Corrado. Sul prossimo numero di trucioli.it l’intervista e il libro di Frassoni La Cappella delle Alpi alla quale da volontario ha collaborato nella ricostruzione. Frassoni, profondo conoscitore ed amante della Terra Brigasca, è tra i soci fondatori dell’Associazione Culturale A Vastera e tra i soci fondatori dell’Associazione Culturale Sant’Erim.

Agosto 1998.  Quassù pulsa il cuore di una Comunità dove i ritmi dell’esistenza quotidiana sono legati a quelli della natura. La borgata nasce su una dorsale della montagna ben riparata dalle valanghe che nei mesi invernali scendono puntuali dal vallone delle Saline.

Le case in pietra sono coperte in paglia di segala. All’interno le stanze hanno soffitti bassi e piccole finestre. Tutti accorgimenti atti a non disperdere il calore nelle stagioni fredde. Gli spazi, delimitati dai monti e dal cielo, danno un senso di libertà e creano meravigliose emozioni nell’animo dei valligiani anche se, in questa alta valle, la vita è caratterizzata da durezza e severità. I ruscelli, con le loro acque libere e lucenti, cantando e danzando scendono veloci, modellando anse e avvallamenti.

In primavera, quando si odono i soffi dei germogli che si schiudono, l’aria è intrisa d’odori e i prati sembrano pennellati di mille colori e i venti accarezzano le erbe più alte.  E’ tempo di semina. In montagna la primavera presto si fonde con la breve estate e nel primo autunno si raccolgono i frutti del duro lavoro i cui prodotti sono legati alla sopravvivenza degli alpigiani.

La corta estate impone ritmi di lavoro frenetici, senza riposi e svaghi. E’ tempo di fienagione e mietitura e prima dell’arrivo delle brine ottobrine si tolgono dalla terra le patate e dagli alberi si raccolgono le mele e le pere. Presto arriva l’autunno. Alcuni nuclei familiari, i più fortunati, posseggono piccoli boschi di castagno posti ad altitudini più basse, dove il clima è più mite. A novembre le ore di luce sono poche e le giornate cristalline e brevi.

La famigliola di Elisabetta e Bertun (Bartolomeo) ed i figli Enrico e Gianbattista, due ragazzotti sui 14 e 15 anni, formano un “branco” con radici forti e affetti puri. Gente onesta, dedita al lavoro. Mamma Elisabetta ed i due figli si accingono a recarsi nel loro bosco che si trova ad oltre cinque ore di cammino, al di là del Passo delle Saline, in Val Ellero, nelle vicinanze dei casali di Prea.

Tutta la famiglia, nelle settimane precedenti, aveva fatto un primo raccolto e portato a casa il prodotto ma, essendo un anno di forte produzione, occorreva ritornare nel bosco per completare la raccolta del frutto ancora giacente e ammucchiato nel seccatoio. A questo secondo viaggio papà Bertun, in accordo con Elisabetta, decide di non partecipare per rimanere in paese a governare le bestie e riparare il tetto in paglia di segala della casa che ne aveva proprio bisogno.

Giunta l’ora della temporanea separazione, le raccomandazioni reciproche e i forti abbracci rivelano grande emozione e sensazioni profonde che solo la vita comune in questi sperduti luoghi dell’alpe può infondere nell’essere umano. L’uomo segue con lo sguardo e la mente la sua famigliola che, passo passo, si allontana. Prima che scompaia dietro la collina, grida un ultimo avvertimento: “Cercate di sbrigarvi…! Se il tempo si mette al brutto lasciate tutto e affrettatevi a tornare!”

La voce giunge flebile ma chiara e di rimando Elisabetta risponde a tutta voce: “Stai tranquilloo…!” E tra se pensa: “Chissà che al nostro ritorno non sia nato il vitellino“. I ragazzi si arrampicano come camosci e il temporaneo cambiamento di vita li rende allegri e spensierati. Elisabetta invece nasconde nel suo cuore tutte le preoccupazioni di una madre: responsabilità e difficoltà che immancabilmente incontrerà sulla strada del ritorno quando i loro sacchi saranno pesanti.

Il sentiero è ripido e prima di arrivare al “Passo” (oltre 2000 metri), si alternano rocce e radure che, data l’avanzata stagione, hanno assunto colori rossicci con vaste macchie marroncine. Man mano che si sale, il paesaggio muta e si fa più violento e selvaggio. L’aria limpida e frizzante si mescola all’odore forte lasciato dagli armenti ormai scesi a valle.

Giunti al Colle delle Saline il panorama e la natura si presentano maestosi: il sole bacia le montagne e, sulla sinistra della valle, il “Massiccio delle Saline” appare di colori sfumati, rosa con riflessi d’oro. Le poche marmotte, dal tozzo corpo, che ancora pascolano nei prati, fanno capire che molto presto si ritireranno nelle loro tane per non farsi sorprendere dalla prima neve. Spesso compaiono gruppi di camosci che brucano, nei punti più riparati dai venti, le ultime erbette. All’apparire del gruppetto di persone fuggono come se avessero avvistato un branco di lupi che, anche se braccati dai cacciatori, non mancano su queste montagne.

La famigliola prende un momento di riposo, si unisce attorno ad un frugale pasto a base di pane e formaggio ammorbidito da qualche sorso d’acqua contenuta in una borraccia ricavata da una piccola zucca essiccata al sole. Scendendo di quota, il percorso si fa sempre più dolce così come il clima. Giunti in località “Ponte Murato” e oltrepassato “Pian del Sale” si avvicinano al piccolo villaggio di “Prea dove li attende un meritato riposo nel vecchio seccatoio. La vista dei primi castagni aiuta ad accelerare il passo. I ragazzi si divertono a trascinare i piedi tra le foglie secche, mescolate a ricci ormai aperti. L’aria trasmette un piacevole fruscio e riempie le narici di un fragrante odore di humus. Finalmente, dietro le foglie ormai ingiallite, spunta una piccola costruzione di pietra e tronchi d’albero con il tetto coperto da “lose“. E’ l’essiccatoio che diverrà la loro dimora per i giorni successivi.

Non appena arrivati, i ragazzi si buttano a corpo morto sui giacigli di fieno sparpagliato sul tavolato. La mamma sistema il focolare e prega i giovani d’andare a prendere un po’ di latte dal malgaro “Giusé” che ha la stalla a pochi minuti da lì. Portategli i miei saluti e quelli di vostro padre“, raccomanda loro. La luce del giorno ormai si affievolisce e dopo una frugale cena a base di latte e caldarroste la mamma chiede ai figli di assettare i giacigli. Resta solo il tempo per una preghiera ed un bacio sulla guancia e subito cala il silenzio della notte. Il mattino seguente, al piano terra, viene alimentato il fuoco per completare l’essiccazione delle castagne, precedentemente poste sopra la grata di listelli in legno locata nel sottotetto in modo da facilitarne la sbucciatura e renderle ben secche e quindi più leggere durante il trasporto.

Trascorrono due giorni tra tanto calore e tanto fumo ma con la soddisfazione di avere fatto una buona provvista. Il terzo giorno, nel pomeriggio, il tempo cambia: si leva un’aria fredda e grigie nuvole spuntano dalle creste dei monti circostanti. Mamma Elisabetta invita i ragazzi a riempire i sacchi perché il giorno seguente, alle prime ore del mattino sarebbero tornati a casa. La donna incomincia ad essere inquieta e continuamente scruta il cielo che non promette niente di buono. Prima di prendere sonno, mentre i figli sono già addormentati, la mamma si alza e volge un ultimo sguardo tutto intorno. I monti appaiono e scompaiano dietro nuvoloni scuri, l’aria è fredda, tremendamente fredda. Chiude allora la porta e si appisola accanto ai suoi figlioli. Il sonno stenta ad arrivare. La sua mente si perde in tanti pensieri e ricordi.

E’ ancora buio quando si sveglia; subito riattizza il fuoco per scaldare il latte. Apre la porta nella speranza di non trovare più quel cielo minaccioso, ma una lama d’aria gelida l’investe scompigliandole i neri capelli. Capisce che ormai l’inverno precoce ha divorato l’autunno. Come la sera precedente i monti appaiono – al suo sguardo preoccupato – incappucciati da nuvole grigie e basse. Immediatamente, ma con la dolcezza che contraddistingue una mamma, sveglia i figli ancora affondati nei loro giacigli ed insieme consumano un’affrettata colazione.  Prima di intraprendere la via del ritorno, Elisabetta controlla tutte le legature dei sacchi ricolmi di castagne. Si accerta che la patata posta sull’angolo in fondo ad essi abbia fatto ben presa così che la corda, da porre a tracolla, non si possa sfilare. Si parte, ma non passa un’ora che i primi radi fiocchi di neve incominciano a cadere.

I ragazzi salutano la neve con allegria, mentre nel cuore di mamma Elisabetta, già stanca per la notte trascorsa agitata, sale la preoccupazione.  Man mano che il sentiero s’inerpica la neve s’infittisce e i fiocchi, spinti dal vento, schiaffeggiano le gote dei giovani. Ormai le impronte dei loro passi spariscono non appena lasciate e i riflessi bianchi della neve falsano le distanze.

“Ragazzi, statemi accanto, ormai il Colle è vicino: vedrete che sull’altro versante, quando incomincia la discesa, tutto sarà più facile”. Ma, oltrepassato il colle, la neve continua a cadere ed un forte vento la trasforma in tormenta. Mamma Elisabetta è stanca e la neve fine e gelida soffoca il suo respiro, mentre il pesante sacco di castagne le sobbalza ad ogni passo sulla schiena.

Conscia del pericolo infonde, comunque, fiducia ai figli. I ragazzi, spauriti ma ben coperti dalla mantella e dalla sciarpa di lana legata al collo, sembrano sopportare meglio la fatica.

La discesa si fa sempre più difficile e pericolosa. Il sentiero è scomparso. Ogni passo affonda nella neve. La povera mamma cade, ma per un istinto di sopravvivenza, si rialza. I ragazzi, che la precedono, non si accorgono di nulla.

Giunti a poco meno di un’ora di cammino da casa, Elisabetta sicura che a quel punto i ragazzi avrebbero trovato la strada da soli, rivolge loro uno sguardo suadente e, con timbro di voce deciso, li invita a proseguire: “Andate avanti e dite a vostro padre di venirmi incontro; io intanto mi riposo un po’ e poi torno indietro a cercare la borraccia cadutami poco fa nella neve”. I ragazzi non vorrebbero lasciarla ma lei, risoluta e con tutte le poche forze rimaste, li invita a proseguire.

Visto il determinato ordine della madre, i giovani s’incamminano nella ormai breve strada verso casa. Intanto la tormenta non accenna a diminuire. Elisabetta si accascia nuovamente al suolo. Il suo pensiero è rivolto al proprio uomo e alla salvezza degli amati figli. Questa volta non ha più la forza di rialzarsi. La neve, pian piano, s’ammucchia sul suo corpo. Il silenzio bianco, rotto da rantoli di composta disperazione, si tramuta in un canto che giunge in cielo.

A Carnino suonano le campane; il paese si mobilita…Lassù Elisabetta sembra pregare, inginocchiata con la veste ripiegata sul capo… L’eroica bugia della borraccia smarrita forse salvò la vita di due innocenti ragazzi. Trascorse un triste e lungo inverno. Quella tragedia aveva ferito e cambiato gli umori delle genti di Carnino; ma la “natura” non mutò affatto. Le stagioni continuarono a succedersi nei loro normali ritmi: quella dei crochi, quella dei germogli e dei frutti, quella delle foglie secche e quella delle nevi.

Non era successo niente? Per lo sconsolato marito non era più così. Dalla casa, ormai nuda, quando si affacciava dalla finestra, quando apriva l’uscio di casa, quando si recava nella stalla, quando guardava i pascoli; sempre gli appariva la sua Elisabetta, quella “donna vera” che gli aveva lasciato qualcosa di suo: i figli, che la dura e grama vita troppo presto aveva fatto diventare uomini.

Papà Bartolomeo e i ragazzi, si trasferirono presto in Val Ellero dove si dedicarono al taglio dei boschi e poi misero su una piccola falegnameria. Ai giorni nostri i bisnipoti d’Elisabetta sono diventati imprenditori e gestiscono una grande e importante segheria nella periferia di Roccaforte Mondovì.

Nella Valle delle Saline una croce ricorda il luogo dove perse la vita questa madre esemplare. I nipoti non l’hanno dimenticata e ancora oggi, oltre un secolo dopo, si recano spesso lassù a portare un fiore e a porgerle un saluto e a sussurrare una mesta preghiera.

PS: Secondo “scritti sacri e descrizioni pittoriche”, l’anima delle persone buone lascia il corpo e “sale in cielo” uscendo dalla bocca mentre quella delle persone malvagie e cattive scende all’inferno uscendo dalle viscere.

Spesso, nelle mie innumerevoli gite nella Valle delle Saline per raggiungere il rifugio Mondovì in Val Ellero, mi sono soffermato davanti a quella croce. La scritta:“Pastorelli Elisabetta perita nella tormenta il 3-12–1883” ha sempre suscitato in me grandi emozioni e un forte desiderio di conoscere la storia di questa donna. Dalla memoria di anziani carninesi ed altri amici ho ricostruito questa tragedia subita, con tanta dignità, da una semplice e onesta famigliola di montagna.

Preziosi informatori sono stati: i coniugi Giuseppe e Maria Pastorelli, il compianto Felice Pastorelli e la moglie Genoveffa di Carnino, Anna Lanteri ved. Pastorelli di Upega, Margherita Lanteri di Upega e l’amico Edilio Boccaleri.

Luciano Frassoni

 

 

 

 

 


L.F.


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