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Dal genocidio al fenocidio


Molto fruttuoso e provvido di indicazioni per il futuro della umanita del Terzo Millennio la 29^ giornata annuale di celebrazione del genocidio del Rwanda, cui ho partecipato come relatore il 13 aprile alle Nazioni Unite di Copenhagen.

di Sergio Bevilacqua 

Molto fruttuoso e provvido di indicazioni per il futuro della umanita del Terzo Millennio la 29^ giornata annuale di celebrazione del genocidio del Rwanda, cui ho partecipato come relatore il 13 aprile alle Nazioni Unite di Copenhagen. La riflessione sulle condizioni di quell’evento sciagurato ha consentito il doveroso ricordo dei terribili modi con cui esso si svolse, presenti in quasi tutte le relazioni e testimonianze: i 100 giorni piu sanguinari della storia umana, in cui furono cessate a colpi di machete oltre un milione di vite di Tutsi, etnia molto particolare per qualita antropologiche, che aveva convissuto per secoli, senza particolari frizioni, con un’altra etnia, gli Hutu, riconducibile al ceppo bantu, di gran lunga più diffuso in Africa.

Non vi è dubbio che si sia trattato di un genocidio. Cosa significa davvero questa parola? Essa e costituita da due parti: geno-, che richiama una differenziazione di tipo biologico, razziale, di DNA, genetica cioe, e –cidio che, come in omi-cidio, richiama la soppressione fisica di un soggetto umano, la sua uccisione. La soppressione di esseri umani caratterizzati da uno specifico DNA, condizione razziale, mira alla eliminazione di determinati tratti dal genoma umano.

Il genocidio e quindi un vero, tecnico, crimine contro l’intera umanità, perchè mira a ridurne le caratteristiche di varietà genomica, sempre considerate importante patrimonio. Inoltre, il genocidio, come crimine, dev’essere inteso non come azione difensiva, cioè dovuta a una reazione a danni dello stesso tipo indotti da una popolazione umana, ma a una forma di aggressione motivata da avversione irrazionale ai tratti distintivi della popolazione aggredita. Per dirla semplicemente, la persecuzione fulminea dei Tutsi in Rwanda del 1994 trova una motivazione in una differenza antropologica rispetto agli Hutu, resa insopportabile e fomentata, nonostante i secoli di convivenza, da sovrapposizioni sociologiche impreviste (e abbastanza improvvise nel “tempo societario”) dovute a ovvi fattori esterni. Dunque mi sento di confermare la esigenza di un fattore di rinforzo delle differenze antropologiche per giungere a questo estremo e in fondo inconsapevole atto di violenza della specie umana contro se stessa, che chiamiamo appunto genocidio.

Le fonti storiche attuali attribuiscono questo fattore scatenante a pressioni dovute ad altre popolazioni (i “colonialisti”) le quali, anch’esse inconsapevoli e, va detto, incuranti, degli effetti dirompenti e gravissimi sugli equilibri secolari propri delle etnie del luogo, sono entrate come elefanti in quello che non appariva forse come un negozio di cristalli, ma era comunque un habitat umano che aveva preziosi equilibri socio-culturali e societari. Questo inattesa infrazione dello stato stazionario in cui operava la societa ruandese prima dell’avvento coloniale ha comportato la reazione parossistica genocida che continuermo a celebrare affinchè non avvenga mai più.

D’altra parte, anche il mondo sta cambiando, e in modo vertiginoso: è in corso un’era diluviana, una quadrivoluzione. La Globalizzazione crea canali operativi sull’intero globo, ed e normale vedere operare persone di tutte le razze in tutti i luoghi, dirette da strategie mondiali di colossi economici presenti in tutti i settori e con cui le aziende di tutti i settori devono fare i conti, con la coscienza di essere sulla stessa barca.

L’Antropocene, qui inteso come semplice moltiplicazione velocissima (nel “tempo sociale” umano) degli individui della specie umana, crea pressioni per migrazioni alla ricerca di migliori condizioni di vita. La Mediatizzazione estrema dovuta alla fusione del web con la telefonia cellulare ha creato le condizioni per una comunicazione di tutti verso tutti, superando anche, con i traduttori automatici ben guidati da forme già evolute di intelligenza artificiale, le barriere linguistiche, e facilitando cosi comprensioni e incontri da sud a nord e da est a ovest del nostro pianeta. Anche la emersione della donna nella società umana (ginecoforia, secondo i termini della Sociatria Organalitica), cioè in tutte le società umane, è fattore di riduzione delle specificità, perché il soggetto femminile prima di tutto si riconosce in questo tratto comune a tutte le etnie e civilta, prima che in una o nell’altra di queste.

Quale è il senso della quadrivoluzione sopra verso le violenze di massa chiamate genocidi e verso la organizzazione dell’ostilità umana? Non posso né voglio qui dilungarmi in spiegazioni molto tecniche e specialistiche; desidero invece sottolineare un elemento che è alla portata di ogni tipo di lettore, date le premesse sopra. La umanità, per la prima volta nella storia, è una e interconnessa, dialogante in modo pseudo-esperantino e reciproco. Tutto ciò porta intuitivamente alla miscela di razze, dunque di genotipi, che fino a pochi lustri fa conducevano vita e civiltà specifica e autonoma. Il genoma umano non perde varietà, ma la varietà genetica umana perde geografia fisica e culturale. Il melting pot diviene la moda. Il tratto genetico non è più un marker di differenza.

Si passa dal genotipo, dalla natura biologica, al fenotipo, a ciòhe si mostra, cioè alla natura empirica, quella dovuta all’esperienza, dal momento che tutti i gruppi genetici si mescolano ovunque nel mondo. Con il presidio di tutta la varietà disponibile del genoma, le nuove società si strutturano non sulle condizioni di varietà indotte dalla biologia, ormai genotipicamente mescolata, ma sulle scelte di vita, di cultura, miti, riti, consuetudini, leggi, totem e tabù, avversioni e predilezioni, stili e consumi, segni distintivi.

Credo che solo la cattiva gestione degli strumenti di conoscenza sull’umanità disponibili oggi possa consentire altre eccezioni simili a quelle gravissime del recente passato, come il terribile e vero genocidio contro i Tutsi nel Rwanda. Abbiamo, credo, elevato tutte le barriere contro tale belluina forma di ostilità insita nella umanità: dobbiamo ringraziare per questa consapevolezza i sacrifici di popoli come gli ebrei, i tutsi, gli armeni, ma anche di altri come le popolazioni precolombiane, gli indiani d’America, i neri d’America, se i genocidi non avverranno forse più.

I rischi più gravi della civiltà e della vita sono oggi i fenocidi, il colpire classi innocue di manifestazioni (feno-, radice da un verbo greco che significa manifestare, mostrare) umane acquisite e identitarie, senza che si appoggino a genotipi, come ad esempio quelle di tutte le minoranze culturali, politiche, religiose e di costume. Lo spirito societario, il societarismo, serve a non confondere le manifestazioni delle minoranze con pericolosi fenomeni rivoluzionari, ma, anche per le minoranze che le interpretano, a donare la consapevolezza del proprio potenziale distruttivo, oltre che di quello costruttivo. Lo spirito societario, il societarismo è la via per ottenere dalla varietà fenotipica il suo valore proattivo e ad estrarla dalla pericolosa spirale di persecuzione e sacrificio che è già violenza e che porta ad altra violenza parossistica.

Ma, questa volta, non aspettiamo di vedere i fenocidi per elevare le stesse barriere poste ai genocidi.

Sergio Bervilacqua


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Sergio Bevilacqua

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