Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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La farinata tra storia e leggenda


Insieme al pesto la farinata è l’elemento della cucineria che meglio rappresenta la tradizione ligure, genovese in particolare e savonese di derivazione. La nascita della farinata è legata a un racconto, mai verificato nei testi scritti (e quindi una leggenda) che ci riporta i tempi delle Repubbliche marinare e delle battaglie tra queste per il controllo di un braccio di mare o di un porto.

di Tiziano Franzi 

La storia – Siamo nel XIII secolo e, mentre Venezia dominava incontrastata le rotte che dall’Adriatico portavano in oriente, sul versante tirrenico del Mediterraneo due Repubbliche marinare, molto (troppo) vicine territorialmente tra loro, Genova e Pisa, ebbero spesso motivo di contesa, se non di scontro aperto.

La più celebre battaglia fra le due Repubbliche fu quella presso l’isola della Meloria, al largo di Livorno, il 6 agosto 1284.

Le ostilità nel mar Mediterraneo cominciarono gradualmente e la responsabilità dei conflitti sembra essere principalmente dei Pisani ; le rivalità si concretizzarono principalmente in una “guerra di corsa” fra le due città, che consisteva in saccheggi rapidi e imprevedibili che avevano l’obiettivo di sabotare il commercio degli avversari. Gli scontri si intensificarono nel 1282 e cominciò una vera e propria guerra fra le due città marinare. Il primo antefatto fu un attacco da parte di due veloci navi pisane che sequestrarono, vicino a Napoli, una galea del genovese Guglielmo de Mari, prendendo il proprietario come ostaggio. Il secondo avvenimento fu l’elezione da parte dei Pisani di Sinuccello della Rocca come conte di Corsica, il quale iniziò subito a fare razzie, attaccando chiunque si avvicinasse alla Corsica e impedendo in tal modo alle navi genovesi di commerciare con quell’isola. Il Comune di Genova riceveva continue lamentele e quindi nel maggio 1282 inviò quattro galee da guerra per combattere Sinuccello della Rocca, che fu sconfitto e dovette rifugiarsi a Pisa, che lo considerava un alleato. Allora da Genova partirono trentacinque navi da guerra, comandate dal’ammiraglio Nicolino Spinola il 10 agosto 1282. Vicino alle Secche della Meloria i Genovesi trovarono trentadue galee pisane che in poche ore li costrinse al ritiro. Nel frattempo, alcune centinaia di soldati Pisani sbarcarono in Corsica insieme e conquistarono moltissimi castelli che erano occupati dai Genovesi. Poi andarono nell’isola di Palmaria, che apparteneva a Genova, e la devastarono. Più della metà della flotta pisana fu però distrutta per un naufragio, durante il rientro in patria. Altri scontri avvennero negli anni 1282 e 1283, principalmente a danno di grandi imbarcazioni commerciali, piene di uomini e di preziose merci.

A questo punto la guerra era inevitabile ed entrambe le città si armarono, cercando di potenziare le loro flotte. Dopo i grandi contrasti verificatisi nei decenni precedenti tra la Repubblica di Genova e la Repubblica marinara di Pisa, l’occasione per lo scontro definitivo avvenne nel 1284. Parte della flotta genovese era ormeggiata presso Porto Torres, in Sardegna, allora territorio conteso tra le due repubbliche. Il piano dei Pisani era di colpire in netta superiorità (settantadue galee) la flotta ligure per poi affrontare la rimanenza e chiudere per sempre il conto con i Genovesi. Benedetto Zaccaria, futuro doge di Genova, che comandava quella parte di flotta (venti galee), eluse lo scontro, fingendo una ritirata verso il Mar Ligure. La flotta pisana lo incalzò, ma fu raggiunta dalla restante parte della flotta genovese (68 galee), e ripiegò verso Porto Pisano, non senza lanciare una provocazione ai Genovesi, sotto forma di una pioggia di frecce d’argento. Quando una flotta si preparava per la battaglia, le navi spesso si affiancavano e si legavano con funi chiamate” sartì”e per evitare di disperdersi.
Pisa e Genova avevano dei soldati molto ben addestrati al combattimento con balestre. I combattenti delle navi erano molto violenti e spesso non rispettavano l’ideologia cavalleresca che considerava le armi da lancio disonoranti.
Spesso le battaglie navali cominciavano con una raffica di pietre e proiettili lanciati a distanza durante l’avvicinamento delle navi. Dopodiché cominciava l’abbordaggio e l’invasione delle navi avversarie.
Nella battaglia della Meloria furono usate armi particolari come polveri per accecare i nemici e saponi scivolosi per far cadere gli avversari, in particolar modo quelli che indossavano un’armatura pesante. Molte galee pisane avevano sulla prua una ruota con attaccate delle lunghe spade che giravano ad alta velocità. La loro utilità era quella di ostacolare l’abbordaggio dei nemici. Queste navi erano anche solidamente rinforzate sui fianchi da grandi scudi.

A guidare le rispettive flotte c’era, per Pisa, l’ammiraglio Albertino Morosini, molto esperto nell’ambito della navigazione e dei combattimenti con navi da guerra. Proveniva da Venezia ed era divenuto podestà di Pisa nel marzo del 1284. I Pisani lo elessero per la sua capacità militare e probabilmente anche perché speravano di coinvolgere il popolo veneziano nei frequenti contrasti fra Pisani e Genovesi. La flotta genovese era comandata dall’ammiraglio Oberto D’Oria, affiancato da Benedetto Zaccaria, un ammiraglio genovese molto esperto di battaglie marittime.

La flotta della Repubblica di Genova il giorno 6 agosto 1284, salpò verso Porto Pisano. L’ammiraglio genovese Oberto Doria, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia, guidava una prima linea di 63 galee da guerra composta da otto “Compagne” (antico raggruppamento dei quartieri di Genova). Benedetto Zaccaria comandava invece una squadra di trenta galee, lasciate volutamente in disparte per aggredire di sorpresa la flotta pisana. Dopo una prima esitazione, i Pisani decisero di attaccare la flotta genovese e si lanciarono sulla prima linea. Entrambe le flotte erano in formazione “a falcata”, ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta legni di Benedetto Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. Dell’intera flotta pisana, solo venti galee si salvarono. La gloria della marina della Repubblica Pisana s’inabissò in quel giorno nelle acque della Meloria perdendo tra colate a fondo o cadute in mano nemica oltre 49 galere.

La battaglia della Meloria in un antico documento

La leggenda- Alla storia della vittoria genovese contro Pisa è collegata la leggenda della nascita della farinata.

Nel corso di una tempesta, sulle galee genovesi si rovesciarono sacchi di ceci e barili d’olio, che si mescolarono all’acqua del mare incamerata dalla nave a causa del maltempo. Le provviste erano poche e i marinai furono costretti, per sfamarsi, a cibarsi con quel miscuglio di ceci, olio e acqua salata. Prima di farlo, però, lasciarono asciugare tutto al sole e poi passarono la sorta di “frittella” ottenuta in forno. Contro ogni aspettativa, il risultato non solo fu commestibile, ma addirittura gustoso. Il piatto si impose a tal punto che un decreto del 1447 ordinò di utilizzare soltanto olio di buona qualità per prepararlo.

“Testi” di farinata in forno a legna

“In passato la farinata, come la chiamano a Genova “fainâ de çeixi“, era tradizionalmente consumata il 1° Novembre, Festa di Tutti i Santi, e nel giorno di Capodanno, ed era cotta esclusivamente nei forni a legna, particolarmente diffusi nella zona portuale della città. Ancora oggi a Genova e Pisa – dove è chiamata cecìna – ma anche a Torino, la si trova nei forni, nelle pizzerie e pizzetterie ma principalmente nelle panetterie, che la vendono al taglio o nella caratteristica forma tonda. Come per tante specialità regionali in ogni città, paese o territorio assume una diversa denominazione. Così nel savonese è chiamata”turtellassu” mentre nello spezzino”Fainà” (“Fainè“nel sassarese, in Sardegna), nel livornese è nota come la”Torta di ceci”. Non è difficile trovarla anche in Padania, dove prende in nome di”bela cauda”. Oggi la farinata non si trova più solo in alcune regioni italiane ma in quasi tutti i Paesi costieri mediterranei, portata dai romani o “esportata” dai navigatori e commercianti liguri e toscani. In Costa Azzurra è chiamata”socca“, mentre a Gibilterra, dov’è diffusissima, è nota col nome di”calentita”. Anche in Uruguay e Argentina, dove fu portata dagli immigrati genovesi, si trova ovunque. In Marocco è la”caliente”.

La ricetta- Quella leggenda, ovviamente, è un apprezzatissimo falso storico. Le origini della farinata sono con ogni probabilitàancora più antiche. Originariamente detta”scribi lita“o”scripilita”, com’è citata nell”opera “De re rustica” di Catone.

Se dobbiamo trovare prove e notizie certe, come già detto, un documento genovese del 1447 proibiva l’uso di olio di cattiva qualità nella preparazione della “scribilita“. Preparazione che veniva cucinata e venduta dai “pancogoli” e dai “fornarij“. Una tradizione poi ripresa dai produttori di farinata. Ancora oggi il segreto della riuscita di questo piatto sta, ascoltando gli esperti, in pochi segreti . Parliamo della qualità dell’olio e nell’esperienza del cuoco. Le osterie genovesi si chiamavano “Sciamadde” (fiammate) in ossequio ai forni a legna. Qui bruciava il faggio, rigorosamente della Val d’Aveto. C’era, poi, il bancone in marmo. Infine la clientela, a volte anche signorile, che si sporcava le dita d’olio per assaporare non solo farinata ma anche torte di verdure.”

Uno dei più antichi e caratteristici negozio-forno di farinata a Savona, via Pia.

Come per ogni ricetta tradizionale, anche per questa esistono diverse versioni. Secondo la ricetta originale sono indispensabili una farina di ceci di comprovata qualità, un ottimo olio d’oliva , una collaudata manualità per l’impasto , una teglia e un forno a legna già sperimentati. Una volta realizzato l’impasto in 2 minuti, basta aspettare il riposo affinché la farina di ceci si sciolga i grumi. Il segreto per un risultato perfetto è cuocere ad altissima temperatura, a contatto con la base del forno in una teglia di rame opportunamente stagnato.

Ingredienti

  • 600 ml Acqua
  • 200 g Farina di ceci
  • 2 pizzichi Sale
  • 8 cucchiai Olio extravergine d’oliva

    PROCEDIMENTO

    Prima di tutto, mescolare la farina in una ciotola con una fusta a mano, fate un buco al centro, versate l’acqua a poco a poco e girate. versate tutta l’acqua con questo sistema. Girate ed eliminate la schiuma in superficie con una schiumarola; questo per evitare che in cottura si scurisca!

    Poi lasciate riposare il composto coperto con un coperchio per almeno 3 ore; girando di tanto in tanto con la frusta a mano ed eliminando la schiuma. Questo passaggio è fondamentale per sciogliere la farina di ceci e creare un composto omogeneo, privo di grumi!

    Al termine del tempo trascorso, unite olio e sale:

    Infine girate molto bene per amalgamare il composto. Versate in una teglia di rame leggermente unta di olio.

    Infine cuocete la farinata nel forno a legna ben caldo finchè non diventa bella dorata sulla superficie.

    Aspettate che si raffreddi qualche minuto prima di gustarla, il tempo che si possano tagliare – secondo tradizione, a spicchi, o, meglio, a piccole mezzelune.

    “Testi” di farinata in forno a legna

    Per concludere, non si può dimenticare l’importanza della teglia nella quale è cotto in forno a legna l’impasto della farinata.

    l “testo”, come viene chiamato in Liguria, è la tradizionale teglia tonda per farinata d’eccellenza. Una speciale lavorazione chiamata stagnatura, viene attuata affinché si riesca ad ottenere la massima prestazione del rame. Per avere ottimi risultati è bene non utilizzare altri materiali eccetto il rame. Esso, a differenza
    dell’alluminio e del ferro, è l’unico che riesce a mantenere stabili le alte temperature, indispensabili per la riuscita di una deliziosa farinata. Diversamente l’impasto di ceci sarà granuloso e si frantumerà.

    Di solito una teglia tonda per farinata ha dimensioni e un diametro ampio. La grandezza dipende dalla tipologia scelta: la più piccola ha una dimensione di 22 centimetri fino a raggiungere i 60/70 centimetri con la più grande. Ognuno acquista quella più adatta in base ai componenti della famiglia.

    Un altro aspetto da considerare sono le dimensioni del proprio forno. Il bordo ha un ruolo importante che non va sottovalutato. La farinata è una torta fine per cui deve cucinare in una teglia con bordi che non superino i 3 centimetri. In questa maniera l’impasto crescerà in modo contenuto, preservando un sapore unico e la sua sottigliezza faciliterà il taglio.

    Infine i maestri de a’ faina ricordano che più un testo è vecchio – ma ben tenuto- più è garanzia di una buona cottura e di un eccellente risultato finale.

    Tiziano Franzi


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T.Franzi

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