Dopo tante sentenze contradittorie, tra assoluzionI e condanne, pronunce della stessa Suprema Corte, è arrivato l’ultimo responso, per ora, definitivo. L’offesa su Facebook è «a mezzo stampa». Il mezzo può raggiungere una pluralità di persone (25 milioni gli utenti). Rischio carcere fino a 3 anni. La diffamazione via post su Facebook è aggravata e punita come un articolo di giornale, una notizia letta in tivù, o pronunciata via radio. Tempi duri, dunque, per quanti utilizzano blog (senza direttore responsabile) e post di facebook alla stregua di un cesso dove si può ‘vomitare’ di tutto, spesso senza regole da società civile e soprattutto senza rispetto della verità dei fatti. La menzogna senza riscontro probatorio. Una palestra usata da tantissimi giovani e non.
ECCO L’ARTICOLO di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore-9.6.2015
MILANO. Offendere una persona scrivendo un “post” sulla sua bacheca di Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, esattamente come se l’offesa venisse portata dalle colonne di un giornale. Con una decisione in realtà attivata su un caso di conflitto negativo di competenza, la Prima penale della Cassazione (sentenza 24431/15, depositata ieri) torna sul tema caldissimo della natura “penalistica” dei social network. La controversia nasceva dalla denuncia/querela di un privato che aveva trovato un intervento poco cortese sul proprio profilo di Facebook, ovviamente tracciato con il nome, il cognome e la foto del denigratore. Il giudice di pace di Roma, nel luglio di due anni fa, si era però dichiarato incompetente ipotizzando pur se ancora non contestata in atti-la fattispecie aggravata della diffamazione (articolo 595 terzo comma del Codice penale). Poco dopo però anche il Tribunale capitolino aveva escluso la propria competenza a giudicare, contestando l’applicabilità dell’aggravante “giornalistica” sulla base, in sostanza, del mancato comportamento difensivo della parte offesa nella gestione dei meccanismi di privacy sul proprio profilo di Facebook. Da qui l’intervento della Corte suprema che, nel restituire il fascicolo al tribunale monocratico, accredita di fatto la similitudine tra l’offesa via internet 2.0 e la vecchia diffamazione su colonna piombata. Dopo aver dato atto della «lezione di legittimità secondo cui i reati di ingiurie e diffamazione possono essere commessi via internet» (tra le più celebri decisioni: 35511/10 e 44126/11), la Prima spiega perché è lecita l’estensione “giornalistica” alla responsabilità da social network, circostanza peraltro esclusa dalle sentenze citate in materia di responsabilità del direttore di siti di informazione. A giudizio dell’estensore, il fondamento dell’aggravante è «nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone (…) con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa». E se lo «strumento principe della fattispecie in esame» (diffamazione) è la stampa quotidiana e periodica, è anche vero che la norma prevede «qualsiasi altro mezzo di pubblicità» per poter applicare l’aggravante che porta la pena fino a 3 anni di carcere. Il meccanismo delle amicizie “a catena” di Facebook, in sostanza, «ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone e, pertanto, di amplificare l’offesa in ambiti sociali allargati e concentrici. Paradossalmente, mentre il Parlamento sta faticosamente cercando di eliminare il carcere per la diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione equipara 25milioni di blogger e socialmedia follower a…giornalisti.