Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Io turista e scrittore al Colle dei Cappuccini. Fra le mani un prezioso libro di Giuseppe Cava (Beppin da Cà) che descrive la ‘Vecchia Savona’


Un libro raro, da gustare pagina dopo pagina, nonostante sia una raccolta di articoli comparsi su “Il Lavoro” di Genova.

di Ezio Marinoni

Il monumento in ricordo di Giuseppe Cava (Beppin da Cà)

Non si avverte il taglio giornalistico, ci si immerge nella lettura con gradevole amenità, si segue l’accuratezza delle descrizioni trasmesso al lettore con animo commosso ed innamorato, e queste immagini suscitano empatia verso una città che non esiste più.

Nel primo brano del libro, “Beppin da Cà” ci guida alla salita verso il colle ed il Convento dei Cappuccini di Savona. «Dopo tanti anni sono risalito ai Cappuccini, 76 metri circa sul livello del mare non sono l’Imalaia; pure una fatica dura e improba per i miei mezzi di locomozione.

M’ha agevolato l’autobus di servizio alla Villetta. Ne ho avuto un compenso immenso di bellezza e di commozione. Un rapimento estatico, che di sullo stretto sacrato della chiesetta del convento, mi ha penetrato l’animo con l’incanto dello sconfinato spazio di cielo, di mare e di monti di cui i miei occhi si beavano avidamente insazi.

Altre volte quassù ho invidiato ai modesti figli di San Francesco quest’eremo felice. In cospetto della circostante bellezza, della quale si ha l’impressione di essere il centro, la rinuncia al secolo e la povertà a cui volontariamente si costringono, non mi sono sembrate tanto dure. Dominano, spaziano s’elevano verso quel cielo invocato nelle loro preghiere clemente ai mortali che vivon giù ai loro piedi, schiavi dei muri e privati della infinita allegrezza della natura sparsa sul mondo, e dagli spettacoli immensi di luce e di colore ch’essa inscena e cangia di continuo capricciosamente e superbamente incantatrice.»

Dopo aver raccontato la sua salita a quest’erto colle, arriva lo scatto di orgoglio di fronte ad un panorama impagabile, in una città che, ancora oggi, pochi considerano una meta turistica, figuriamoci ai tempi di Giuseppe Cava!

«Vista di là la città, di cui andiamo orgogliosi, sembra un grigio agglomerato di tetti accavallati, simili a un’ondata di lava rappresa e ancor fumigante dai mille comignoli ai piedi del colle. Una delusione, un formicaio in perpetua peregrinazione da una tana all’altra. Ho sempre avuto una particolare simpatia per questi frati, sempre poveri in canna e solleciti a spartire col povero il pane dell’elemosina di cui vivono. Nessuno bussa invano alla porta del convento e nell’ora di mezzogiorno, mentre dai campanili della città si spande festoso e riconoscente lo scampanio di ringraziamento per il pane quotidiano rivolto al Signore, i derelitti arrancano fin quassù, dove vecchi e giovani, donne e bambini trovano una minestra calda, un pane e una parola fraterna. La carità fiorita, che non umilia e diviene un’opera di fraternità, perché fatta con fraterno cuore.»

Il nostro scrittore e guida turistica compie uno scarto e si addentra nel passato, nella memoria dei luoghi cari, quando tutto era diverso e il progresso sembrava non sarebbe mai arrivato, a lenire la fatica umana e la lentezza dei giorni. Un attimo di nostalgia per gli orti e i giardini che hanno ceduto il passo alle case…

«Un tempo per raggiungere la cima del colle, dopo l’erta faticosa della Tagliata (ora con appropriato pensiero denominata Via Monte Grappa) si procedeva per strade incassate fra i muri di cinta dei giardini e degli orti. Oggi le case si sono arrampicate sino ai piedi della Croce, di dove comincia la breve salita alberata, che conduce al convento. Ancora qualche decennio, eppoi il convento si troverà dentro una cerchia di costruzioni. L’eremo diverrà prigioniero dell’abitato. L’assalto di Satana alla serafica vita contemplativa dei fratelli. Il bel colle soffuso di poesia e misticismo verrà sommerso, e il superbo panorama che vi si offre allo sguardo e che ha limiti soltanto nella potenza visiva, diverrà ostacolato dai tetti e dai muri delle case. Salendo quassù non avremo più il conforto di poter evadere per qualche ora dalla schiavitù dei muri che rendon l’uomo più piccino e più misero di quanto è nato. Non vi sarà differenza che nell’altimetria, come in certe città dell’Umbria e delle Marche fabbricate sui cocuzzoli delle colline. E allora tutto qui intorno diverrà piatto, grigio, convenzionale, artificioso. Come ai piedi del colle, nella fabbricata distesa di cui siamo orgogliosi.»

Per fortuna, la sua previsione non si è avverata, il convento non è stato travolto o assediato dal cemento, mantiene in parte il suo isolamento dalla città e dal mondo, a favorire la vita contemplativa dei frati che rimangono a vivere la loro vita, oggi non soltanto contemplativa.

Sono salito su questo colle in un piovoso giorno di settembre, che sembrava anticipare l’autunno.

Io sono entrato da turista nel Convento, accompagnato da un frate cappuccino paziente ed amante della storia e dell’arte, e ho ammirato un ambiente incontaminato, che merita di essere raccontato a parte, con la dedica di un giusto spazio di scrittura e di lettura.

Un doveroso omaggio, quindi, a Giuseppe Cava, che ha scritto questa bella pagina. Fra i savonesi, è il poeta in lingua ligure che ha conosciuto maggior fama e ottenuto i maggiori riconoscimenti dalla critica letteraria nazionale. Il prof. Hermann W. Haller, docente di Lingua e letteratura italiana al Queens College e direttore di Dipartimento al Graduate Center della City University di New York, ha inserito il nome di Giuseppe Cava nel suo saggio in lingua inglese sulla poesia dialettale italiana The Other Italy: The Literary Canon in Dialect (1999).

Giuseppe Cava nasce a Savona il 12 marzo 1870, figlio di Antonio ed Elisabetta Viola, in una casa posta sulla sinistra della Torre del Brandale. Frequenta le scuole elementari presso il collegio di via Riario retto dai Padri Scolopi, nel 1882 si iscrive alla Scuola Professionale di Arti e Mestieri diretta da Federico Baldi, che considererà sempre il suo maestro. Diplomato, inizia a lavorare come operaio presso la fabbrica savonese Tardy e Benech; qui, a diciotto anni, perde la gamba destra a causa di un incidente sul lavoro; costretto in casa, approfondisce gli studi, meditando le opere del positivismo, leggendo i classici della poesia e della letteratura, riflettendo sui problemi della classe operaia.

Nel 1890, dopo aver appreso il mestiere del tipografo, si accosta all’attività politica e aderisce al movimento anarchico, di cui è uno dei primi organizzatori a Savona, insieme ad Angelo Moneta e dà vita al primo Fascio Operaio nella città di Savona. Nel 1891 organizza la prima manifestazione della festa del Primo Maggio a Savona, distinguendosi come oratore polemico e spavaldo.

Si lega all’anarchico Luigi Galleani, nel maggio 1894 Cava e i principali esponenti della cellula anarchica di Savona sono processati per associazione a delinquere ai sensi dell’art. 248 del Codice di Procedura Penale. Il processo si inserisce nell’ambito della repressione svolta dal governo Crispi contro i fasci siciliani e per reprimere i moti in Lunigiana. Giudicato colpevole per apologia di reato e condannato a sei mesi di carcere, per evitare l’arresto fugge in Francia, poi in Germania e in Svizzera. Espulso da quest’ultimo Paese, consegnato al valico di Lugano dalle autorità svizzere ai Reali Carabinieri, viene condotto nel carcere di Genova dove sconta la pena per intero; viene poi inviato al confino alle Tremiti, a Ustica e a Lipari, dove rimane complessivamente un anno e mezzo. Da allora, sarà sempre sottoposto ai controlli della Questura di Savona, schedato come anarchico e sovversivo.

Tornato a Savona, riprende l’attività di tipografo e simpatizza per il Partito Radicale. Nel 1901 è eletto nel Comitato Esecutivo della prima Camera del Lavoro sorta in quell’anno a Savona. Entra in contatto con importanti personaggi del socialismo di allora, tra cui Luigi Campolonghi, Alceste de Ambris ed Ezio Bartalini.

Dal 20 settembre 1902, nella sua piccola tipografia “artistica” di via Montenotte, inizia a pubblicare “Il Marciapiede”, un periodico attento agli eventi della politica cittadina, che Cava prepara personalmente nei testi, nelle vignette e nelle poesie. Quell’esperienza dura fino al 1907, con alterne vicende, con la tipografia più volte perquisita dai Carabinieri.

In seguito ad avvenimenti tragici (la morte del primo figlio in tenera età, la rottura del legame con la sua compagna, la scomparsa dell’amato padre, infine la morte della figlia), Giuseppe Cava finisce per allontanarsi dall’attività politica attiva, dedicandosi alla sua tipografia; in quel periodo sviluppa la sua vena poetica. Nel 1923 pubblica la Strenna de Savonn-a, una raccolta delle sue poesie più riuscite.

Trasforma la tipografia in cartoleria, anche a causa dell’avvento del fascismo, che impone nuovi controlli e censure. In quegli anni si diletta nella fabbricazione di giocattoli che vende in negozio. Molte sue poesie, tra il 1923 ed il 1927, vengono pubblicate dal giornale savonese “Il Messaggero Ligure” e dai numeri unici dell’Associazione Savonese di Storia, Tradizioni e Cultura cittadine “A Campanassa”. Alcune sue composizioni saranno pubblicate da Filippo Noberasco sulla antologia La poesia dialettale a Savona nel 1928 e su O Cicciollà nel 1930. Grazie all’aiuto di Noberasco, nel 1934 Giuseppe Cava è assunto presso la Civica Biblioteca di Savona.

Nel 1930, dopo aver operato una profonda revisione delle sue poesie, pubblica In to remoin (nel vortice della vita), un’opera che riceve molte lodi e viene apprezzata, in particolare, da Camillo Sbarbaro e da Angelo Barile. Nel 1933 la citata associazione savonese “A Campanassa” gli assegna una medaglia d’oro quale vincitore del III Concorso Canzonettistico Dialettale.

A causa delle sue idee politiche, avendo manifestato pubblicamente opinioni antifasciste, nel 1938 è sottoposto ai vincoli dell’ammonizione da parte del regime. In questo periodo, grazie soprattutto all’aiuto del prof. Giuseppe Callandrone, Cava può scrivere numerosi articoli sulla pagina savonese del quotidiano “Il Lavoro”, riuscendo a trovare un minimo sostegno economico. Gran parte di quegli articoli sarebbero poi stati raccolti trent’anni dopo dall’editore Marco Sabatelli in due volumi. Giuseppe Cava si spegne a Savona il 30 marzo del 1940.

In memoria di Giuseppe Cava è stata intitolata una via savonese, ed è stato dedicato un busto marmoreo nei pressi della Torre del Brandale (Campanassa), nelle vicinanze del luogo in cui sorge l’abitazione dove era nato, nel 1870.

Ezio Marinoni


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