Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Lode all’acciuga! Tra Piemonte e Liguria la copiosa storia di contrabbandieri e montanari occitani. Vie del sale. La canzone poesia di Fabrizio De André


L’acciuga è uno dei pesci più pescati al mondo, particolarmente nel Mediterraneo e in Liguria in modo ancora più specifico. E’ il principe del “pesce azzurro”, una volta cibo dei poveri, oggi apprezzato da tutti per la sua versatilità d’uso in cucina e per le sue doti organolettiche.

di Tiziano Franzi

La leggenda- All’origine dell’acciuga è collegata una leggenda che, come tale, mescola realtà e fantasia.

Molti anni fa splendeva nel firmamento una famiglia di stelle piccolissime e luminosissime: le Engranuline. Erano molto vanitose e ogni notte, specchiandosi nel mare, indispettivano le Pleiadi, la Via Lattea e i pianeti strepitando: «Guardate la nostra luce, sembra argento puro e i nostri riflessi come palpitano sulla superficie del mare, ammirateci!». Una notte, la luna piena si rifletteva sul mare facendolo apparire come una distesa di platino. Le stelline, rose dall’invidia cominciarono ad insultarla: «Siccome è più grande di noi si crede bella, ma non vedi che facciona larga che ha?». La luna quindi cominciò a piangere per tutte quelle malignità. Allora Dio perse la pazienza e disse: «Ho ascoltato per anni le vostre voci superbe, ora basta, vi toglierò la voce e vi manderò nel luogo che voi usate come specchio». Così le strappò dal cielo e le buttò in mare.”

Le caratteristiche- “L’acciuga (Engranulisencrasicholus) vive in banchi compatti che si muovono come un unico corpo e anche in fondo al mare le belle “engranuline” mantengono lo splendore argenteo che le contraddistingue. È una specie in grado di sopportare sbalzi di salinità (eurialina) nell’ acqua ed anche sbalzi di temperatura (euriterma). La riproduzione avviene in prossimità della costa e si prolunga nel periodo estivo fino all’autunno, con un picco tra giugno e luglio. Ogni femmina produce fino a 40.000 uova da cui nascono i famosi e tanto ricercati bianchetti, dall’intenso profumo di mare e dalla pesca vietata. Belle e buone oltre che nel sapore, anche nella qualità delle carni. “

“L’acciuga europea abita il Mar Mediterraneo, l’Atlantico orientale (dal Sudafrica alle coste norvegesi), il Mar Baltico, il Mar Nero e il Mar d’Azov. Alcuni esemplari sono stati catturati nel canale di Suez, si tratta quindi di una delle pochissime specie che hanno intrapreso una migrazione verso il Mar Rosso, in controtendenza rispetto ad altre specie che, a causa dell’innalzamento della temperatura, dal Mar Rosso entrano nel Mediterraneo, attraverso il canale di Suez e sono conosciuti come migranti (invasori) lessepsiani.”

Una storia antica- “Le acciughe si pescano sin dai tempi remoti, una prova in tal senso è la più famosa salsa dei Romani, a base di acciughe, cioè il “garum”, che deriva dal più antico “garon” greco, un condimento utilizzato dai popoli del Mediterraneo e dai popoli ellenizzati. Il garum fu introdotto a Roma durante le guerre puniche ed era il condimento per carne, pollo, agnello, verdura. Dal connubio sale-acciuga nasce la benemerita e preziosa acciuga sotto sale, un altro prodotto delizioso, spesso presente sulle nostre tavole.

Alcuni contrabbandieri di sale, montanari occitani, percorrendo le vie del sale, furono i primi importatori: le trasportavano in barili, sotto uno strato spesso di sale. Seguivano le mulattiere che scendevano dalla Costa Azzurra, alla Provenza e al Ponente ligure da Oneglia a Ventimiglia e arrivavano in Piemonte. Il nome “acciuga” deriva dal latino volgare “apiuva”, per i genovesi “anciua”. Pesce azzurro per eccellenza ricco, anzi ricchissimo, di ottime qualità nutritive. Cento grammi forniscono 131 calorie e 60 mg di colesterolo. Vi troviamo un elevato contenuto di calcio, 148 mg, ferro 2,8 mg, iodio 54 mcg. Zinco 4,20 mcg, proteine 16,8, vitamina A 32 mcg, Omega3- 790. La presenza degli Omega3 nelle acciughe le fa diventare un alimento capace di bloccare la cascata delle citochine (famosa dopo il Covid), quindi è tra i più importanti antinfiammatori presenti in natura, a basso costo.

All’acciuga è attribuito il merito di rendere limpida la voce, tanto da essere amata da famosi cantanti come Enrico Caruso che ne mangiava un paio prima di ogni esibizione. Anche Alberto Sordi nel film “Bravissimo” obbligava il piccolo allievo a cibarsene abbondantemente. Una base scientifica c’è: l’accoppiata sale e Omega3 che incide sulla limpidezza della voce.”

Acciuga o alice?-“Acciuga [come detto] deriva dal latino volgare apiua o apiuva, dal greco aphyè, nome di un piccolo pesce. La  sostituzione della ‘p’ con ‘cc’ deriva con buona probabilità da un uso dei dialetti liguri o mediterranei.

Il nome è importante. La normativa sulla commercializzazione dei prodotti ittici obbliga i rivenditori a usare il nome in italiano per tutelare i consumatori. Accade che i controllori delle Capitanerie di Porto, per eccesso di zero e poca conoscenza, applichino multe salate a chi utilizza il nome dialettale o credendo che alice e acciughe siano due specie diverse .Nel sentire comune le alici sono tali quando si tratta di pesce fresco, nel momento in cui vengono lavorate e trasformate, allora si chiamano acciughe, ma non sempre è vero e non in tutte le regioni italiane. Ho provato allora a consultare vari dizionari di dialetti per risalire al nome in vernacolo :

Campania: alice

Corsica: anchjuva

Emilia Romagna: aciùga, aliza,anciua,sardò

Friuli Venezia Giulia: sardòn

Liguria: anciòa, anciua

Lombardia: ancioda, anciua

Piemonte: anciua, anciué

Puglia: alice

Sardegna: anciova, atzua

Sicilia : anciova,masculina

Sicilia: anciova, sardèia

Trentino Alto Adige: sardèia

Valle d’Aosta: antsuye

Veneto: papalina .”

Il garum- “La loro pesca è attiva fin dall’antichità, ma i primi scritti che le riguardano sono relativi al “Deipnosophistarum sive coema sapientum” un libro sugli alimenti scritto da un certo Ateneo nel II° secolo dopo Cristo che richiamava i cibi maggiormente diffusi nella antica Grecia. Le acciughe si mangiavano con piselli e con ortica di mare….e se ne curava anche l’impiattamento……

Ma è grazie ad una salsa che esistono prove dirette della lavorazione delle alici in Grecia il garon, poi chiamato garum a Roma.

Il garum fu in epoca storica un condimento usato nella cucina greca, e in generale nella cucina dei popoli mediterranei ellenizzati. Le prime testimonianze del suo impiego lo troviamo nelle fonti letterarie greche. Ve ne è una fugace menzione nelle opere frammentarie a noi giunte dei poeti comici Cratino e Ferecrate, vissuti nel V secolo a.C. Tra i tragici, Eschilo ci informa che questo si otteneva dai pesci, mentre Sofocle nei frammenti del Trittolemo sembra aggiungere notizie a quanto aveva detto Eschilo, definendo il garum ταριχηρός, ovvero salato. E ancora Platone qualifica ulteriormente questa salsa con l’aggettivo σαπρός, ovvero putrido.

L’uso del garum fu introdotto a Roma durante le guerre puniche quale condimento di pietanze a base di carne, pollo, agnello, verdura. Si produceva diffusamente nei centri nordafricani da Cartagine alla Numidia, l’attuale Algeria. A partire dal II secolo a. C. questa salsa a Roma ha un successo sempre crescente. La qualità del garum nell’antichità veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Le migliori salse erano denominate garum excellens (ottenuta con alici e ventresche di tonno); garum flosfloris (sgombro, alici, tonno); garum flosmurae(murene); infine c’era una qualità ottenuta dalle ostriche, salsa per nababbi o esibizionisti, usata in banchetti particolari.

La rappresentazione del garum in un antico mosaico romano

Il miglior garum veniva prodotto da una cooperativa di Cartagine, il cosiddetto Garum Sociorum, e veniva prevalentemente utilizzato lo sgombro; ottimi, anche se più economici, erano i tipi prodotti a Pompei, Antibes (Costa Azzurra) e in altri centri del Mediterraneo. L’immediata associazione del garum alla cucina romana la dobbiamo soprattutto ad Apicio, noto personaggio citato dagli autori latini come grande amante dei banchetti e di manicaretti ricercati, e sotto il cui nome ci è giunta una preziosa compilazione di ricette in dieci libri. Infatti Apicio nel suo ampio ricettario propone l’uso del garum o liquamen, come lui stesso lo chiama, come insaporitore in almeno venti diverse ricette, dalla carne al pesce, dalla verdura alla frutta. Il nostro palato inorridisce all’idea, ma sono stati proprio i Romani a dire ‘de gustibus non est disputandum’ in fondo. Tuttavia, per avere notizie più certe e dettagliate, bisogna rifarci a quanto ci dice Plinio il Vecchio.

Apprendiamo così che questo liquamen era appunto un liquor, un liquido, che sebbene fatto con le parti di scarto del pesce, quali intestini, branchie e sangue macerati nel sale; era assai pregiato. Non è del tutto corretto da parte di Plinio parlare di putrefazione, ma si tratta piuttosto di un’auto-digestione del pesce operata dagli enzimi proteolitici presenti nelle interiora stesse, ma questo il buon Plinio non poteva saperlo. Altra importante notizia che ci viene fornita in questo passo è che i Greci furono i primi a produrre il garum, così chiamato perché prodotto con un piccolo pesce detto garos, che però già Plinio non sa identificare. Se un tempo era usato quel misterioso pesce chiamato garos, ai tempi di Plinio, ovvero nel I secolo a.C., si usavano gli sgombri, che, da come ci viene riferito, non avevano altri usi oltre la produzione della salsa di pesce di prima qualità.

Plinio nel capitolo 95 seguita così: ‘Oggi il garum più pregiato si ottiene dallo sgombro negli allevamenti di Cartagine Spartaria: è chiamato garum dei Soci, con mille sesterzi se ne comprano quasi due congi. Nessun liquido, ad eccezione dei profumi, inizia ad avere prezzo maggiore, anche tra i popoli di un certo rango. Anche la Mauretania e la Carteia della Betica catturano gli sgombri che provengono dall’Oceano, e che non sono utili ad altro. Sono celebri per il garum anche Clazomene, Pompei e Leptis: così come per la salamoia (muria) Antipoli e Turi, e in verità anche la Dalmazia’

Una interpretazione moderna del garum

La notizia di questa intensa pesca, produzione e commercio di garum ci è confermata anche dal geografo greco Strabone, il quale riferisce: ‘Vi è poi l’isola di Ercole appena dietro Cartagine, che è detta Sgombraria per la cattura degli sgombri, dai quali si ricava il garum migliore…’

Questa industria costituiva una ricca fonte di guadagni specialmente per quelle città che si trovavano nei pressi dello stretto di Gibilterra, che intercettavano gli sgombri che entravano nel Mediterraneo dall’Atlantico: sulle coste della penisola iberica e del Marocco ancora sono visibili resti di fabbriche di garum, e specialmente dei grandi recipienti seminterrati in terracotta, detti dolia, in cui avveniva la macerazione del pesce.

Mosaico romano: Garum, villa Aulus Umbricius Scaurus, Pompeii; G(ari) F(los) SCAM(bri) SCAURI

In età augustea la produzione qualitativamente e quantitativamente maggiore sembra arrivare dalla Spagna; questo dato viene confermato sia da Apicio che apprezza particolarmente il garum iberico, sia dalla politica dello stesso Augusto a favore di quegli stessi impianti.

A causa della globalizzazione, alcune fabbriche di salsa site sul territorio italico furono ridotte sul lastrico come affermato da un team internazionale di scienziati che, coordinato da Steven Ellis, archeologo e professore di Archeologia dell’università di Cincinnati, nell’Ohio, grazie agli studi condotti anche a Pompei, ha evidenziato questa delocalizzazione “ante litteram”.

Da Pompei arrivano altri dati molto interessanti e in particolare dall’analisi dei resti ritrovati nelle anfore della Casa – Officina del garum degli Umbricii.

Il tragico evento del 79 d.C con l’eruzione del Vesuvio ha rappresentato per l’archeologia un unicum per la ricostruzione di diversi aspetti della vita quotidiana del periodo imperiale; l’archeologia ha ripagato restituendo, scherzo del destino, immortalità a un sito che la natura aveva “azzerato”.

Come anticipato, all’interno del sito di Pompei è stata ritrovata una struttura di vendita del garum, forse uno dei centri maggiori finora ritrovati, la cosiddetta Officina del Garum, situata ad ovest dell’anfiteatro pompeiano. Al momento, però, non è stato rinvenuto nessun centro di produzione della salsa sulle coste campane, di cui si ha notizia ma nessuna evidenza.

Il garum veniva realizzato normalmente nelle stesse strutture adibite alla “logistica” della pesca e all’allevamento ittico: la lavorazione avveniva in apposite vasche di fermentazione rivestite di opus signinum o cocciopesto, cioè un materiale edile che si usava per rivestire pareti e pavimenti in quanto impermeabilizzante (Vitruvio ne racconta uso e realizzazione: frammenti di laterizi mischiata con malta fine). Mentre nelle piscinae ovivaria erano allevati i pesci, nelle cetariae venivano realizzate le salse e le conserve di pesce.

Si commerciavano anche una specie di garum senza condimenti, il garumflos, e una specie fatta di pesce a scaglie, il garum castimoniale. Il garum sociorum essendo essenzialmente una salamoia satura in cloruro di sodio in presenza di enzimi proteolitici, oltre a essere un buon digestivo, presentava qualità disinfettanti, paragonabili alla tintura di iodio e a blandi antinfiammatori. Dunque veniva usato come medicinale contro la scabbia degli ovini, le ustioni recenti, i morsi dei cani e del coccodrillo, per guarire le ulcere, la dissenteria e i malanni delle orecchie.

Conferma quanto dice Plinio Isidoro di Siviglia, nella sua opera in venti libri di carattere enciclopedico, le Etymologiae: ‘Il garum è un liquido salato di pesce, che un tempo era fatto con un pesce che i Greci chiamavano garon, e per quanto ora venga prodotto con molti altri tipi di pesce, tuttavia conserva l’antico nome dal quale prese inizio. Il succo è chiamato così perché dei pesciolini, sciolti nella salamoia, colano il proprio umore.’

E’ da rilevare però che quanto scritto nelle Etymologiae circa l’origine del nome della nostra salsa con ogni probabilità deriva direttamente da quanto afferma Plinio, autore che Isidoro in alcuni passi della sua opera segue alla lettera.

Ma ancora nelle Geoponiche, di autore ed epoca ignoti, è scritto (XX, 46, 1 sgg.): “gettare in un recipiente interiora di pesce e piccoli pesci con sale e lasciare al sole e mescolando frequentemente. Filtrare grossolanamente la salamoia in una cesta, dove rimane l’allec, la parte solida. Alcuni aggiungono anche due misure di vino vecchio per ogni misura di pesce. Se si ha bisogno di usare subito il garum senza tenerlo tanto al sole, si cuoce rapidamente mettendo il pesce in acqua di mare concentrata in modo che un uovo vi galleggi, fino a quando non sia ridotto abbastanza di volume, quindi si cola. Ma il fiore del garum si ottiene con le interiora, il sangue ed il siero dei tonni sopra cui si sparge sale e si fa macerare per due mesi.”

Petronio descrivendo la cena offerta da Trimalchione nel Satyricon (36, 3) descrive con dovizia di particolari uno smisurato vassoio al centro del quale prevale una lepre ad imitazione di Pegaso, e agli angoli quattro statuine di Marsia, dai cui otricelli scorre salsa di garum e pepe su pesci posti in un canaletto appoggiati in modo tale da sembrare vivi e nuotare nel mare.

Se voleste provare a produrlo secondo le regole dell’antica Roma vi forniamo la ricetta di Marziale: “Si usino pesci grassi come sardine e sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di 1/3, interiora di pesci vari. Bisogna avere a disposizione una vasca ben impeciata, della capacità di una trentina di litri. Sul fondo della stessa vasca fare un alto strato di erbe aromatiche disseccate e dal sapore forte come aneto, coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano. Su questo fondo disporre le interiora e i pesci piccoli interi, mentre quelli più grossi vanno tagliati a pezzetti. Sopra si stende uno strato di sale alto due dita. Ripetere gli strati fino all’orlo del recipiente. Lasciare riposare al sole per sette giorni. Per altri venti giorni mescolare sovente. Alla fine si ottiene un liquido piuttosto denso che è appunto il garum. Esso si conserverà a lungo”.

Acciughe del Cantabrico e liguri- Particolarmente famose e apprezzate sono le acciughe pescate nel mar Cantabrico (Spagna), non soltanto per il consumo locale, ma anche per la ricca esportazione nei mercati esteri. Ciò è dovuto alla specificità del Cantabrico, che è un mare molto freddo e allo stesso tempo ricco di plancton. In questo modo le acciughe si nutrono meglio, la selezione naturale, poi, ha fatto il resto, prediligendo quelle di dimensioni superiori.

“In realtà, però, questo prodotto è più legato all’Italia di quel che si pensa: la storia delle acciughe del Cantabrico, infatti, si intreccia con quella dei pescatori siciliani emigrati in Cantabria, in Spagna, dimostrandoci per l’ennesima volta il forte legame tra cibo e migrazioni.

Negli ultimi anni le acciughe del Cantabrico, l’oceano di fronte a Bilbao, si sono diffuse moltissimo, soprattutto grazie a vari ristoratori che hanno iniziato a utilizzarle nei loro piatti e a inserirle nei loro menù.

La storia delle acciughe del Cantabrico affonda le sue radici tra la fine del 1800 e l’inizio 1900 quando i primi pescatori siciliani arrivarono in Cantabria, sulle coste spagnole, e si accorsero che lì avevano e lavoravano il filetto di acciughe più grande che avessero mai visto. In particolare, fu un siciliano di nome Giovanni Vella Scatagliota, giunto da Trapani a Santoña, inviato da una compagnia genovese alla ricerca di pesci confezionati che, arrivato in quel porto, si trovò di fronte a uno spettacolo incredibile, destinato a cambiare per sempre la sua storia (e quelle delle alici): la costa basca piena di acciughe. Da lì, incontrò Dolores, la donna che lo fece restare definitivamente in Spagna, senza più far ritorno in Sicilia.

Così Giovanni, insieme ad altri emigrati siciliani, iniziarono a dedicarsi alla pesca delle acciughe e alla loro lavorazione, insegnando le tecniche italiane agli spagnoli. Furono loro, infatti, ad accorgersi che le acciughe di quei mari avevano una carne e un sapore straordinari che, se ben lavorati, avrebbero reso maggiormente. Nel tempo la tradizione di trattare “all’italiana” le alici si è diffusa sempre di più, con la nascita di numerose aziende; oggi c’è persino una Confraternita delle Acciughe del Cantabrico, che si occupa di tutelare e valorizzare questo prodotto, a livello sia nazionale che non.

Come detto in precedenza, non si tratta di dover scegliere tra le due, poiché sono prodotti molto diversi, con destinazioni differenti in cucina, che non devono per forza entrare in competizione, anzi.

  • Innanzitutto, le acciughe del Cantabrico sono molto più carnose, cioè caratterizzate da una carne molto spessa, a causa della freddezza delle acque, che le porta a muoversi di continuo senza poter stare ferme. Ricordiamo, infatti, che i mari del Cantabrico sono noti per essere gelidi.
  • Inoltre, dopo il loro periodo di pesca da aprile a luglio circa, vengono lavorate una a una solo ed esclusivamente da personale femminile, non per questioni di genere, ma perché le donne hanno mani tendenzialmente più piccole, e quindi più precise. Proprio la minuziosità e la precisione con cui vengono preparate, tutte perfettamente uguali della stessa dimensione, sono tra le caratteristiche delle acciughe del Cantabrico.
  • Infine, la loro tracciabilità è totale: all’interno di ogni confezione c’è un foglio che indica orario, luogo e nome della signora che si è occupata della singola lavorazione. Questa peculiarità si traduce in cucina in un prodotto che, a differenza di quello italiano, non si sfalda e non si disintegra in cottura, infatti non è indicato per i sughi. Il modo migliore per gustare pienamente il sapore delle acciughe del Cantabrico è mangiarle da sole, come tapas, su una fetta di pane con un po’ di burro, oppure con un formaggio morbido.
  • Per il prezioso e raro lavoro manuale che c’è dietro, sono alici molto care rispetto a quelle italiane, con un costo di circa 25 euro per 140 grammi. Si possono trovare sotto sale, dove stanno sempre per almeno 10/14 mesi, sott’olio o sotto burro, come vuole la ricetta originale.”

Tra Piemonte e Liguria- La storia che lega le acciughe al Basso Piemonte ci ha rapiti e per questo abbiamo voluto saperne di più. Per scoprire le ragioni della presenza delle acciughe in questo angolo all’estremo Nord-Ovest della nostra Penisola si può leggere “Il salto dell’acciuga” di Nico Orengo, che racconta storie e leggende, verità storiche e miti popolari capaci di richiamare una bellezza perduta, o almeno dimenticata, sugli “acciugai” (ancióaire in lingua piemontese), commercianti ambulanti che, con il tipico carro trainato da cavalli o buoi, portavano le acciughe in barili e botticelle di legno casa per casa. La domanda, dunque, sorge spontanea: ma perché proprio in Piemonte, una regione priva di sbocco sul mare, si diffuse il commercio dell’acciuga come ingrediente della cucina popolare?

Si narra che il merito dei rifornimenti di pesce azzurro fosse dei contrabbandieri di sale; un racconto affascinante che, tuttavia, rimane privo di fondamenta. Anticamente, infatti, i piemontesi si rifornivano di sale presso le saline della Provenza e delle foci del Rodano, attraverso una serie di rotte commerciali sui passi delle Alpi Marittime, note come “vie del sale”.

La leggenda vuole che, per evitare di pagare dazi elevati, i contrabbandieri coprissero le superfici dei barili di sale con le acciughe, ma in realtà in tutto il Piemonte d’antico regime la gabella del sale era una tassa obbligatoria non legata al consumo, oltre al fatto che l’acciuga era per l’epoca un alimento costoso e altolocato. In un’indagine semiseria, che mescola notizie storiche, racconti privati, storie di paese, ricordi e chiacchiere, la spiegazione sulla diffusione dell’acciuga in Piemonte è il risultato di un intreccio tra il mondo dei pescatori e quello dei contadini.

È grazie agli acciugai, impagabili venditori occitani della Val Maira, che l’acciuga a poco a poco divenne ingrediente insostituibile della cucina di montagna e di valle; sotto la maestria commerciale dei discendenti dei Saraceni conquista Lombardia ed Emilia-Romagna, acquista valore e dignità, entra nella cultura e nel paesaggio di montagna.

I carretti blu degli acciugai di Dronero si impossessarono lentamente di tutto il Nord Italia, tirati da lavoratori instancabili, che si assentavano per mesi da casa, percorrendo anche quaranta chilometri a piedi al giorno, con il fine di vendere il “singolare” pesce conservato sotto sale.

È impossibile, approfondendo la storia del commercio dell’acciuga, non cogliere con malinconia i segnali di un mondo che è cambiato completamente e che non è più possibile riconoscere e ritrovare. Una civiltà contadina fatta di radicamento, di sussistenza, di povertà dignitosa e solidale, che ha contribuito a cambiare la nostra società e ci ha portati a diventare ciò che oggi siamo.

La bagna cauda- Ecco, dunque, che la preparazione della Bagna cauda diventa occasione per riscoprire e rivivere i ritmi lenti di una società passata, quando ci si sedeva intorno alle braci del camino per affogare nella pentola con la Bagna cauda le verdure tagliate a pezzetti e la grissia, tipico pane piemontese dalle origini Cinquecentesche.

Chi va in cerca di cultura gastronomica può ancora gustarla nelle locande, servita in scodelle di terracotta, chiamate in dialetto piemontese fuìot, e mantenute calde da un lumino. Le prime ricette prevedevano un largo consumo di aglio e acciughe; è raro osservare gli stessi quantitativi nella cucina contemporanea, ma c’è ancora chi la prepara coraggiosamente con una testa intera e un etto di pesce a persona. C’è chi cuoce gli spicchi di aglio nel latte per attenuare l’afrore, chi li trita finemente e chi li aggiunge a fette. Alcuni, poi, per ingentilirne il sapore, aggiungono del burro o un po’ di panna. Ma il vero segreto per l’ottima riuscita è la cottura, lentissima, che permette ad aglio e acciughe di sciogliersi, senza mai arrivare al bollore.


Chi la cucina ancora in casa, rimanendo fedele alla tradizione, la cuoce a bagnomaria, con la pentola di terracotta posta sopra ad un altro tegame in cui bolle l’acqua, ma chi la preferisce con pezzi di aglio e acciughe più grossolani può adagiarla direttamente sul fuoco, a fiamma bassa, o su una piastra. Le verdure da intingere nella Bagna cauda sono sempre state reperibili nella storia di questo piatto; anche l’aglio non è mai mancato anzi, i bandi campestri dell’epoca lo inscrivevano addirittura tra le colture obbligatorie per i proprietari terrieri.

Quelle che vengono ancora proposte con l’intingolo sono principalmente quelle invernali, raccolte quando il freddo intenso e le prime gelate le hanno rese croccanti e ottime da consumare crude: topinambur, verze, peperoni, sedano, finocchi, rape, porri. Alcuni aggiungono anche ortaggi cotti, come barbabietole, cipolle e peperoni al forno o messi sotto le vinacce, patate e carote bollite. Prima di chiudere il pasto, si può strapazzare un uovo nella terrina, unendolo alla salsa rimasta e i più raffinati possono concedersi una grattata di tartufo sul tutto, per rendere la Bagna cauda un piatto da gourmet e non da poveri, come lo era nel Dopoguerra. Usuale anche che compaia tra le salse di accompagnamento del celebre Bollito misto piemontese, un altro piatto della tradizione che, da solo, vale il viaggio.”

Polenta e acciughe: ricordi del passato- “Non so se è capitato anche a voi, ma tra i banchi della mia scuola elementare succedeva che qualche nonno passasse in classe e ci raccontasse della sua vita di bambino. Racconti di campagna, a volte racconti di guerra, racconti di vita vissuta, spesso racconti di povertà condivisa. Così, quasi come una leggenda, è nato dentro la mia testa di bambina il mito dell’acciuga.

Mentre il nonno di turno raccontava, disegnavo con la mente una grande tavolata, un ambiente caldo e rustico, dove la famiglia si riuniva dopo le fatiche quotidiane, pronti a consumare l’ennesima cena frugale; infatti in tavola, come spesso accadeva, arrivava un bel paiolo di polenta fumante. Polenta oggi, polenta domani, tutti i giorni polenta e io mi immaginavo la tristezza e la noia di mangiare sempre la stessa cosa. In fondo al tunnel della monotonia gastronomica però, ogni tanto, arrivava l’acciuga. Io non so se succedeva davvero così o se la mia immaginazione di bambina ha lavorato un po’ troppo, ma mi ricordo che i racconti (di estrema povertà) prevedevano ad un certo punto l’entrata in scena dell’acciuga, un vero e proprio coup de théâtre: un’acciuga veniva appesa al soffitto e fatta penzolare beata sulla tavola dei commensali, e allora tutti giù a sfregare la fetta di polenta all’acciuga per cercare di dare un sapore nuovo e una nota di colore al solito piatto.”

Gli acciugai- “Come la storia ci insegna anche le grandi vicende umane a volte iniziano in modo fortuito, ed anche in questo caso, strato dopo strato, le acciughe hanno incominciato ad avere successo e, complice l’abbassamento dei prezzi del sale, sono piano piano diventate le vere e proprie protagoniste.

La via del sale si snodava dalle coste francesi passando per Sanremo, Oneglia per poi salire a nord fino a superare il col di Nava. Come ci raccontava Nico Orengo, è qui che l’acciuga faceva il suo salto. Scendeva poi verso Limone Piemonte e si dirigeva verso Ceva, Montezemolo e ancora verso Cuneo fino ad arrivare a Dronero, all’imbocco della Val Maira.

E qui sia apre un altro capitolo di straordinario interesse, di come Dronero sia diventata la capitale e la patria degli acciugai (anchoiers in occitano, anciuè in dialetto piemontese).

Nel lungo periodo freddo, di riposo dal lavoro dei campi, il capofamiglia partiva, andava in Liguria e comperava le acciughe, gli altri componenti della famiglia lo raggiungevano a trattative concluse, con i caruss, caratteristici carretti costruiti in valle, molto leggeri ma robusti e quasi sempre dipinti d’azzurro. Caricavano i barili di acciughe e giravano poi in tutta la regione cercando acquirenti. Sovente si spingevano fino in Lombardia, e in Emilia.

Era un lavoro duro: ogni acciugaio poteva percorrere anche più di trenta chilometri al giorno, spesso il pranzo e la cena erano un paio di acciughe, scrollate dal sale e infilate dentro un tozzo di pane. Molte volte l’attività non portava grandi guadagni, ma consentiva, a chi la praticava, di non pesare sulla famiglia: per qualche mese c’era una bocca in meno da sfamare.

Per alcuni, fu invece l’inizio della propria fortuna. I più bravi, ma anche scaltri e abili, fondarono dei veri imperi economici e industrie dedite alla conservazione del pesce. Negli anni ’60 la maggior parte degli acciugai ha abbandonato le montagne e si è trasferita in pianura, continuando il commercio con mezzi a motore. Ancora oggi è possibile trovare, nei mercati rionali o di paese, venditori di acciughe provenienti dalla Val Maira.

Mi piace pensare che chi saliva per quei sentieri che dal mare, passando per le montagne, portavano nelle nostre terre, cercando di non pagare gabelle, lo facesse per sopravvivere in tempi non facili.

Mi piace pensare che quegli uomini che passavano per sentieri pericolosi e insicuri, esposti a terrificanti orridi e neppure tracciati ma ricordati a memoria da viaggiatori più esperti, diventati  nel tempo vere e proprie guide delle carovane, che con carretti, a dorso di mulo oppure in spalla a seconda della transitabilità affrontavano quelle pericolose, fossero in qualche misura i progenitori di quegli acciugai che per procurarsi un tozzo di pane per sè e per le famiglie hanno percorso chilometri al freddo e con fatiche inenarrabili.

Mi piace pensare a tutto questo quando assaggiamo la bagna caoda. Mi piace pensare che questo piatto ormai così caratterizzante la cucina delle nostre terre, abbia alle spalle storie, romanzate o vere che siano, che raccontano di una lotta per sopravvivere delle generazioni che hanno preceduto, in una terra dura ma che con la loro tanta fatica è diventata generosa come la conosciamo noi oggi.

Per questo ho detto in tante occasioni che pensare alla bagna caoda è pensare e ripercorrere pezzi di storia che abbiamo alle spalle e che ci aiutano a capire anche il presente.”

Sull’origine del commercio delle acciughe in Val Maira ci sono leggende e realtà storiche. La leggenda dice che nei secoli passati esisteva un fiorente commercio con Genova, di capelli per fare parrucche e che un uomo aveva barattato il suo prodotto con dei barili di acciughe che aveva poi rivenduto durante il tragitto di ritorno realizzando un ottimo profitto cosa che gli suggerì di continuare con questa attività.

La realtà storica dice che sì esisteva questo commercio dei capelli con Genova, ma anche un grosso contrabbando di sale che allora pagava forti dazi doganali e pertanto era un bene di grande valore soprattutto nelle valli montane dove mancava totalmente.

    

Il sale veniva nascosto sotto strati di pesce salato (acciughe o sarde) e successivamente venduto alle famiglie più ricche mentre il pesce veniva acquistato dai meno abbienti ed utilizzato come condimento per la necessità di sale dando vita a pietanze estremamente povere come la Bagna Cauda, ma decisamente con gusti piuttosto forti, anzi vedendo le ricette tradizionali, oggi potremmo quasi definirle immangiabili.

Negli anni successivi alle due guerre mondiali con le conseguenti crisi economiche e il notevole dissanguamento di giovani vite, tributo pagato a caro prezzo dalle nostre genti, assistiamo ad una sempre più crescente emigrazione verso la pianura.

Questa emigrazione avviene però gradualmente e a macchia d’olio iniziando agli inizi del secolo in città come Cuneo, Asti, Torino ed altri importanti centri del Piemonte per proseguire con Milano, Bergamo, Como ed altre località del nord Italia fino a città come Bologna, Faenza, Fidenza e Parma.

Questa emigrazione dà vita ad una nuova figura nel panorama commerciale italiano, cioè l’acciugaio.

Patria riconosciuta degli acciugai è il paese di Dronero (Cuneo), dove ogni anno, in estate, si tiene la Fiera degli acciugai.

La colatura di alici- La colatura di alici di Cetara è un prodotto agroalimentare tradizionale campano, prodotto nel piccolo borgo marinaro di Cetara, in Costiera amalfitana. La fonte scritta più sicura del modo di preparare la colatura di alici si trova nella Disciplinare della Regione Campania intitolata “Disciplinare di Produzione della colatura di alici di Cetara DOP”.

La colatura di alici è una salsa liquida trasparente dal colore ambrato che viene prodotta da un tradizionale procedimento di maturazione delle alici in una soluzione satura di acqua e sale. Le alici impiegate sono pescate nei pressi della costiera amalfitana nel periodo che va dal 25 marzo, che corrisponde alla festa dell’Annunciazione, fino al 22 luglio, giorno di Santa Maria Maddalena.

Le origini di questo prodotto gastronomico risalgono ai Romani, che producevano una salsa molto simile alla colatura odierna, chiamata garum. La ricetta venne poi in qualche modo recuperata nel Medioevo da parte dei gruppi monastici
presenti in Costiera, i quali ad agosto erano soliti conservare sotto sale le alici in barili di legno con le doghe scollate e poste in mezzo a due travi, dette mbuosti; sotto l’azione del sale, le alici perdevano liquidi che fuoriuscivano tra le fessure delle botti. Il procedimento si diffuse successivamente tra la popolazione della costa, che la perfezionò con l’utilizzo di cappucci di lana per filtrare la salamoia.

Riempiti i barili, si poggiavano sui loro coperchi pesi per alcune decine di ore e si aveva cura di levare il liquido scaturito detto zucco o colatura. Dopo il primo giorno, la colatura si poteva usare quale condimento, unendo a piacere origano, fette di limone e olio.

La colatura d’alici viene soprattutto utilizzata come condimento di spaghetti, ma anche per insaporire piatti a base di pesce o verdure, come ad esempio la cipolla per la pizza di scarola ; inoltre con verdure saltate in padella con olio, aglio e peperoncino, quali bietolespinaci, ecc. Da alcuni è apprezzata anche come condimento per pomodoriolive, persino per panini farciti e uova cotte in vari modi.

Le acciughe fanno il pallone: una canzone che è poesia- Fabrizio De André nella sua profonda genovesità non poteva non dedicare una delle sue affascinanti canzoni proprio all’acciuga: una poesia, oltre che una canzone (come sempre per i testi di Faber). Eccone il testo:

Le acciughe fanno il pallone
Che sotto c’è l’alalunga
Se non butti la rete
Non te ne lascia una

E alla riva sbarcherò
Alla riva verrà la gente
Questi pesci sorpresi
Li venderò per niente
Se sbarcherò alla foce
E alla foce non c’è nessuno
La faccia mi laverò
Nell’acqua del torrente

Ogni tre ami
C’è una stella marina
Amo per amo
C’è una stella che trema
Ogni tre lacrime
Batte la campana

Passano le villeggianti
Con gli occhi di vetro scuro
Passan sotto le reti
Che asciugano sul muro
E in mare c’è una fortuna
Che viene dall’oriente
Che tutti l’hanno vista
E nessuno la prende

Ogni tre ami
C’è una stella marina
Ogni tre stelle
C’è un aereo che vola
Ogni tre notti
Un sogno che mi consola

Bottiglia legata stretta
Come un’esca da trascinare
Sorso di vena dolce
Che liberi dal male
Se prendo il pesce d’oro
Ve la farò vedere
Se prendo il pesce d’oro
Mi sposerò all’altare

Ogni tre ami
C’è una stella marina
Ogni tre stelle
C’è un aereo che vola
Ogni balcone
Una bocca che m’innamora

Ogni tre ami
C’è una stella marina
Ogni tre stelle
C’è un aereo che vola
Ogni balcone
Una bocca che m’innamora

Le acciughe fanno il pallone
Che sotto c’è l’alalunga
Se non butti la rete
Non te ne resta una
Non te ne lascia una
Non te ne lascia

Per ascoltare l’interpretazione di Faber durante un suo concerto: https://www.youtube.com/watch?v=C_hgji7rFqA

Tiziano Franzi


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T.Franzi

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