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Liguria e Basso Piemonte

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Il dibattito/ Conviene il federalismo al sistema dei trasporti?


Prosegue in Parlamento – senza, per la verità, destare grandi passioni nell’opinione pubblica – l’iter della legge di attuazione dell’Autonomia Differenziata.

di Massimo Ferrari

Si tratta, evidentemente, di un compromesso che Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, partito tradizionalmente centralista, offre alla Lega di Matteo Salvini, principale alleato nella coalizione di governo. Certo, sono lontani i tempi di Umberto Bossi che era arrivato a teorizzare la secessione delle Regioni del Nord (“via da Roma ladrona”), ma tanto basta per riaccendere il timore delle classi dirigenti meridionali di vedere sottratte risorse al Mezzogiorno, accentuando il divario tra le diverse parti del Paese. Orbene, non è certamente questo lo spazio per dilungarsi su un tema divisivo di cui si è discusso e si continuerà a discutere a lungo, spesso, invero, senza molto costrutto in ambito istituzionale. Trattando delle possibili ricadute sulla politica dei trasporti, basterà limitarsi ad una semplice domanda: può il regionalismo migliorare l’offerta dei servizi di mobilità nella Penisola?

Come è noto, l’Italia, divenuta un regno unitario nella seconda metà dell’Ottocento ed ha tratto forte ispirazione dal modello francese, fortemente centralista. Il ventennio fascista ha semmai ulteriormente accentuato questa tendenza, confermata sostanzialmente nel dopoguerra. Con la costituzione delle Regioni nel 1970 le cose in teoria avrebbero dovuto cambiare, ma il nostro Paese è prudente nell’assimilare le novità e la burocrazia ministeriale costituisce un potente freno.

Per quanto riguarda la maggiore impresa pubblica italiana, il Gruppo Ferrovie dello Stato, la situazione è rimasta pressoché invariata fino agli anni Novanta, quando, complice la trasformazione in Spa e l’apertura al mercato, gli effetti di un certo confuso regionalismo hanno cominciato a farsi sentire. L’Azienda ha trasformato i precedenti compartimenti in direzioni regionali, con l’intento di essere più vicina alle istanze delle clientela locale. Questo, però, è sostanzialmente avvenuto attorno alle maggiori aree metropolitane, dove i numeri giustificano importanti investimenti.

Intanto i collegamenti tra le grandi città del Paese sono stati demandati gradualmente alla rete ad Alta Velocità, con prezzi più alti ma anche con prestazioni nettamente migliori in fatto di velocità.

Poiché l’AV, per ora, non si spinge oltre Salerno, i tradizionali collegamenti a lunga distanza (con la Sicilia, la Calabria, la Puglia) hanno continuato ad essere erogati in regime di “servizio universale”, in attesa di ulteriori grandi opere che adesso dovrebbero coinvolgere anche il Mezzogiorno (la Napoli – Bari, la Salerno – Reggio Calabria, la Palermo – Messina e, forse, il Ponte sullo Stretto).

Tutto ciò che non rientra in questo perimetro, tuttavia, è stato gravemente trascurato se non addirittura cancellato. E qui entra in gioco il malinteso regionalismo. Tutto ciò che non riesce a stare sul mercato (Frecciarossa e Italo) o nell’ambito di un “servizio universale”, sempre più ristretto, chi deve pagarlo? Non si tratta solo di relazioni periferiche di scarsa importanza. Vi rientrano i treni della Jonica tra Bari e la Calabria, o quelli della Tirrenica tra Pisa e Roma, fortemente ridimensionati rispetto al passato.

Il caso delle città di Asti ed Alessandria, penalizzate da un malinteso regionalismo ferroviario che non tiene conto dei collegamenti trasversali, sul cui finanziamento nessuno vuole impegnarsi.

Facciamo un caso abbastanza eclatante: tra Torino e Bologna esiste una linea ferroviaria a doppio binario ed elettrificata, che passa per Asti, Alessandria, Voghera, Stradella, Piacenza, Parma. Consentirebbe buone prestazioni e l’importanza dei capoluoghi attraversati giustificherebbe un servizio adeguato. Ma l’itinerario passa attraverso il Piemonte, la Lombardia e l’Emilia. Chi deve farsi carico dei relativi costi nella sostanziale latitanza del governo centrale? Nessuno si pone il problema e, così, i treni diretti sono praticamente scomparsi. Certo, se vuoi andare da Torino a Bologna, puoi prendere una Freccia o un Italo via Milano (a prezzi più elevati). Ma se vuoi partire da Asti o Alessandria devi arrangiarti.

Tocchiamo un altro esempio emblematico su scala più limitata. Piacenza e Cremona sono due capoluoghi di provincia distanti una trentina di chilometri tra cui corre una ferrovia pressoché rettilinea che potrebbe garantire corse competitive con la strada da centro a centro. Purtroppo, però, Piacenza si trova in Emilia (molto lontano da Bologna) e Cremona rientra nel territorio lombardo, distante dal Pirellone. I rispettivi governatori hanno altro a cui pensare, specie per potenziali utenti che forse non votano per loro. E così, da oltre dieci anni, di treni non ce ne sono più.

Qualcuno potrebbe pensare che si tratta delle tante contraddizioni di un sistema, quello ferroviario, schiacciato tra la ricerca del profitto sulle relazioni “forti” e la necessità di assicurare comunque un servizio ai territori. Ma non è così. Anche i collegamenti stradali rischiano sorti analoghe. Magari non proprio le autostrade (che equivalgono all’AV ferroviaria), ma le statali certamente sì. Non a caso l’Anas è stata molto ridimensionata e di soldi per la manutenzione ce ne sono sempre meno.

Questo rischio lo percepii chiaramente nel 2012, in Ucraina. Per tornare in auto da Leopoli al confine ungherese scegliemmo un valico vicino alla frontiera polacca. Uno di quelli in teoria fondamentali, segnati in evidenza sulle mappe europee. Peccato che Leopoli e Uzhorod ricadano in due oblast differenti. Ciascuna delle amministrazioni garantiva, in qualche modo, la percorribilità fino all’ultimo centro abitato. Poi, approssimandosi al valico, la strada, che certamente aveva conosciuto tempi migliori in epoca sovietica, si trasformava in un tratturo, privo di asfalto e con buche impressionanti. Al confine tra le due contee la strada era sbarrata da un cancello. Per fortuna un militare, uscito dalla sua garitta e controllati i documenti, lo aprì lasciandoci passare.

Anche da noi questa triste realtà tende a materializzarsi. Siccome mi piace percorrere le strade appenniniche o alpine, mi affretto a farlo alla prima occasione. Se va avanti così, tra qualche anno non sarà più possibile. Nel giugno scorso, da Potenza a Matera, con il gruppo di AMoDo impegnato nella Maratona Ferroviaria, noleggiammo un bus (in assenza di treni) e chiedemmo al giovane autista di percorrere l’Appia storica. Era la seconda volta che gli capitava, ormai tutti seguono la Basentana a fondo valle. Quella che un tempo era la “Regina viarum” era ormai ridotta – specie in territorio potentino – ad un budello percorribile con grande difficoltà. Lato Matera le cose andavano un po’ meglio. Qui siamo oltre il regionalismo: bastano due province diverse per fornire servizi agli antipodi. Aveva ragione Indro Montanelli nel descrivere la fine dell’Impero Romano: quando il “limes” cominciò a cedere, sorsero i “limites” attorno alle città. E cominciò il Medioevo.

Detto questo, non è che il centralismo sia la panacea di tutti i mali ed il federalismo sia necessariamente da rigettare. Esistono nazioni federali – anzi, Confederali come la Svizzera – che funzionano benissimo e garantiscono a tutti i cittadini servizi di qualità. Nella piccola nazione alpina convivono quattro lingue, differenti religioni, diversi sistemi elettorali. Talvolta persino all’interno della stessa città. A Biel (Bienne in francese) basta attraversare una strada per passare dall’idioma alemanno alla parlata francofona. Ma treni, bus, battelli, gestiti da una miriade di imprese pubbliche e private assicurano collegamenti di eccellenza per tutti. Al punto che puoi digitare sullo smartphone una qualsiasi destinazione per leggere l’itinerario migliore e vederti addebitata sul conto bancario la tariffa più conveniente.

Già, ma la Svizzera è un paese ricco e con un forte senso civico. Anche la Jugoslavia era una entità federale. Mi ricordo la Sarajevo del 1981 e sembrava di essere in una città mitteleuropea. Poi, morto Tito e tramontato l’ideale socialista, qualcuno cominciò a soffiare sul fuoco, esasperando differenza etniche, religiose, linguistiche che erano sempre esistite, ma con cui si poteva convivere. Paolo Rumiz descrisse quella tragedia in un piccolo capolavoro “Sinfonia per un massacro”, spiegando come si trattò di una guerra di tutti contro tutti per razziare le risorse nazionali. Oggi al posto della Jugoslavia ci sono sette differenti nazioni e non c’è più nemmeno un treno per andare da Zagabria a Belgrado. Tranquilli, l’Italia non è certo la ex Jugoslavia. Ma, purtroppo, non è neppure la Svizzera.

Massimo Ferrari


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