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Il prete. ‘Veglia di Pasqua in cattedrale a Genova: a fuoco finto come un camino spento’. Mentre la Diocesi somiglia al Festival di Sanremo


Anche quest’anno, 2024, per il Giovedì Santo (28/4) e il Sabato Santo (30/4), non il Venerdì Santo, sono andato in Cattedrale, come i cattolici abituali. Nella Veglia vi erano anche dieci battesimandi adulti. Alcune considerazioni sulla Veglia Pasquale del 30 aprile 2024.
di Paolo Farinella, prete

GENOVA. SETTIMANA SANTA 2024: LE CELEBRAZIONI IN CATTEDRALE PRESIEDUTE DALL’ARCIVESCOVO

1. La prima riguarda il contesto della liturgia che, proprio perché celebrata dal Vescovo nella Chiesa Madre delle chiese locali, dovrebbe essere modello ed esempio. Così non è. Nella Costituzione sulla Liturgia (SC) del concilio Vaticano II, leggiamo: «Il vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri» (SC n. 41 del 4-12-1963: alla nota 35 si cita il magistero di Ignazio di Antiochia, sec. II). Contro l’anima e lo spirito della riforma liturgia, nella Cattedrale San Lorenzo di Genova vi sono due «altari» e non un solo altare («un medesimo altare»), centro di convergenza della vita della Chiesa.

I due altari, quello dove domina Maria «Regina di Genova» e quello «ufficiale» dove il Vescovo celebra: ambedue addobbati con solennità, allo stesso modo con candelabri accesi sull’uno e sul secondo. Chi partecipava, o meglio assisteva (di questo si tratta) non sapeva su quale Mensa la «Parola –Pane e Vino– carne diveniva. I due altari erano fonte di confusione liturgico-teologica perché «segni non veri».
L’altare dove domina la Madonna non è la «mensa eucaristica» e, quindi, NON DEVE AVERE ALCUN SEGNO DISTINTIVO (fiori, lumi e candelabri), ma deve essere spoglio perché è un monumento storico e null’altro, ben distinto dalla MENSA che è l’unico punto focale della Chiesa e dell’Assemblea. Addobbarlo in altare trionfale non è buon servizio e dimostra ignoranza liturgica.
2. L’Exultet. Il diacono che lo ha proclamato, pur non essendo stonato, ha cantato in modo straziante: senza ritmo musicale, senza pause, aggredendo le frasi successive sovrapponendone la voce, quasi fosse una rincorsa a finire presto. Sul finale, il timbro tonale di voce si è abbassato di un tono perché non ha mantenuto il ritmo del respiro. Inoltre, ha tenuto lo stesso tono per tutto l’Exultet, senza tenere conto della portata teologica delle varie parti. Per es.: l’«O felice colpa che meritasti per noi un così grande redentore», di vena agostiniana, dovrebbe essere cantata a voce più bassa, quasi accelerando, per mettere in evidenza che Cristo non è una conseguenza di Adamo che, immune da ribellione, sarebbe «una necessità teologica», in quanto «doveva peccare» per consentire l’incarnazione: Gesù, senza di lui, non avrebbe senso?

L’esegesi complessa, nel suo contesto, afferma il contrario: Adamo rifiuta di modellarsi sull’immagine del Logos, che «era fin dal principio», cioè «prima di Adamo» (lo è anche la Sapienza «fin dal principio… prima che la terra fosse… [Pr 8,22-31]). I problemi sono gravi e la liturgia deve rendere al meglio la comprensione del testo, se è vero che [Cristo] «è presente nella sua parola, giacché è lui che
parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC N. 7). Nulla di tutto questo, meno che nulla.
3. Le letture. Nella Veglia pasquale, cuore di tutta la vita della Chiesa, le letture di Gn 1; Gn 22 ed Es 14 sono il cuore della Veglia. Anche qui poche osservazioni pesanti:
a) Tutte le letture sono state fatte da seminaristi e tutti e tre hanno letto allo stesso identico modo, piatto, senza afflato, senza rispetto per la lingua italiana, per la punteggiatura e il «climax» del contenuto. Tutto scialbo come un filo di nylon teso tra due balconi. Nessuna inflessione, nessuna distinzione tra parte narrativa (verbi al passato remoto o al presente storico), parti circostanziali (subordinate e tempi all’imperfetto) per dare senso al testo: se non si capisce il testo, non si capisce il Logos, né «si mangia la Parola di Dio (Ez 2 e 3, passim). Mai nella mia vita ho sentito (sic!) letture così scialbe e senza senso, lette da bellocci compiaciuti: e nella Veglia di Pasqua!
In Gn 1 per 10 volte scoppia come un fulmine l’espressione «Disse Dio», ritornello fondativo perché nella Genesi 10 sono le azioni creatrici e 10 le generazioni patriarcali, come 10 sono le Parole di libertà pronunciate al Sinai (punto di arrivo di Pasqua) e scolpite sulla pietra e 10 è il numero minimo per celebrare «la Pasqua del Signore» (Es 12,11). Tutto si lega e tutto si collega.
b) In Gn 22, il sacrificio di Isacco, che non è l’esaltazione di un sacrificio, ma la demitizzazione dei sacrifici umani, cioè la liberazione dal concetto di sacrificio, il primo versetto è il «diaspason» di tutto il racconto perché è un crescendo musicale di un climax di angoscia psicologica in vista della fine:
1. «Prendi tuo figlio (terribile per un padre),
2. il tuo unigenito (Dio tortura Abramo, strappandogli il cuore),
3. che ami (un Dio atroce e mortale che gode della sofferenza insopportabile di Abramo),
4. Isacco (lo chiama pure per nome, colpo di grazia per il padre angosciato; Dio passa il limite e si mostra come un parricida assetato di sangue)». Qui dovevano vibrare cuore, fegato e milza dei presenti. La risposta inattesa al versetto 12: «Non stendere la mano contro il ragazzo», perché il Dio di Abramo e Isacco non è il Dio dei morti, ma dei viventi e non vuole sacrifici umani, come era uso nel II e I millennio a.C. Di tutto questo nel modo assente di leggere non si è trovato cenno né ombra, come se i lettori (credo che lo siano anche per investitura) non sapessero che quando leggono esercitano il ministero della Profezia attualizzante.
c) La preghiera dei fedeli è stata letta dal libro apposito (sic!) e pure dal diacono (ludibrium abominii): i laici che erano lì, i battezzandi al centro, come in un ghetto custodito, muti, ma il diacono «legge» la preghiera, quella che dovrebbe essere, appunto, «preghiera dei fedeli» (SC n. 53: «con la partecipazione dei fedeli»), cioè di pertinenza dei fedeli, non preghiera del clero sui fedeli.
d) Per non dilungarmi, mi fermo ai battezzandi: statuine del presepe, senza arte né parte, a subire una serie di azioni e parole vuote del clero «pigliatutto», anche delle parti in commedia non sue, che imperversava dappertutto, arruolato da un cerimoniere, esperto di «cerimonie danzerogene», ma non di liturgia («lèiton-èrgon/azione di popolo»).

Dieci battezzandi giovani (8 donne e 2 uomini): potevano leggere (meglio dei preti) le letture, la preghiera dei fedeli (come catecumeni potevano) ed essere più attivi. La loro partecipazione consapevole è stata «dire il nome a voce alta», rispondere «Amen» e tornare al proprio posto. Sig. vescovo, questi non li vedrà più perché non torneranno più: non hanno toccato il lembo del mantello di Dio, ma hanno visto vescovo, cerimoniere/vigile urbano come «sei personaggi in cerca di autore di pirandelliana memoria. Peccato!
4. Il fuoco è stato acceso fuori (segno profetico!) perché in cattedrale c’era un gelo spesso come il ghiaccio, un predominio aberrante di ritualismo freddo, senza anima né passione: un fuoco spento prima ancora di essere acceso. Un fuoco finto, come quello di tanti camini moderni che hanno il fuoco dipinto, virtuale, in ologramma. Questa Chiesa ripetitiva di riti morti e sepolti ai quali non riesce a dare nemmeno un soffio di rantolo, è finita e il clero con il vescovo in cima, non se ne accorgono.
5. Nell’omelia estemporanea, che pare improvvisata (non si «percepisce» che il vescovo «rimane [= sta] sulla Parola»: Gv 8,30): si percepisce una omelette più che una omelia. Disse con cantilena anonima: «Gesù vi precede in Galilea… quale può essere oggi la Galilea per noi? Sappiamo bene che il nostro Dio è relazione, è comunione e forse davvero il primo modo di andare in Galilea, dove là lo vedremo, è proprio di essere segno di comunione».
6. Ascoltavo e pregavo: perdonalo, Signore, non sa cosa dica e non sa dove si trovi. Ero li davanti a lui e il vescovo non fu nemmeno turbato di usare la parola «comunione». Dov’è la «relazione»? dove vede «il segno di comunione»? Potrei dire che in tre mesi di cecità, quasi assoluta, il vescovo e il «suo» vicario episcopale per il clero… (araba fenice), in segno di comunione e di relazione… non un sms, non una telefonata: i preti si lamentano, ma subiscono e il vescovo ascende al cielo tra «inni e canti sciogliete, fedeli»?

La diocesi somiglia al Festival di San Remo: amore, cuore, fiore, ardore, comunione sinodale, solidale, episcopale, vicariale… ma è tutta fuffa, pluff! Detta e scomparsa. Eppure, se i lettori in tonaca fossero stati in grado di percepirlo, nella Veglia si sarebbe letto: «Disse Dio… e così fu / e così avvenne» per sei volte, martellante come un dovere obbligante. Comunione non esiste: per questo, non concelebrai, ma stetti in mezzo al popolo, rispettoso della verità dei segni (CCC 1151 e 1155). Concelebrare sarebbe stato sacrilegio e falsità: affermare che vi sia comunione, come fa il vescovo, ben sapendo, cir-co-stan-zia-ta-men-te, che nella diocesi di Genova la signora comunione è morta, ma nessuno ne ha dato notizia al vescovo, nemmeno a funerali avvenuti.

Una prece, anzi due. Meglio se tre. Il vicariato, poi, è solo una organizzazione organizzativa, con mangiata incorporata, come se per magia ciò facesse scattare la scintilla dell’amore fraterno, inesistente: lo sapeva bene Gesù che si mise al riparo fin dal principio: «Amatevi come fratelli, voi, che tanto io sono figlio unico». Amen! Alleluia!

Paolo Farinella, prete

 


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