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Ladri in casa, sentenza Corte Costituzionale
No a sospensione pena, restino in carcere.
Ammanchi Rcs sport, assolto Acquarone
uno dei ‘signori’ del ciclismo mondiale


Sentenza odierna della Corte Costituzionale: per i ladri d’appartamento nessuna sospensione della pena. Devono scontare la condanna in carcere. La Consulta chiede comunque al Parlamento di eliminare le incongruenze contenute nell’attuale normativa. Altra notizia giudiziaria. E’ stato scagionato, per non aver commesso il fatto, il manager sanremese che era accusato di ammanchi milionari come responsabile dello Sport alla RCS (Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport. La vicenda vedeva imputato, da 6 anni, Michele Acquarone, tra i signori del ciclismo mondiale. “Avevo denunciato anomalie…e per tutta risposta mi avevano licenziato”.

SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONE PER I LADRI D’APPARTAMENTO – La Corte Costituzionale ha ritenuto legittima la norma che vieta al giudice di sospendere l’esecuzione della pena per chi é condannato per furto in abitazione. I ladri d’appartamento devono quindi restare in carcere. E’ stata così respinta un’eccezione sollevata un anno fa dal tribunale di Agrigento, sezione prima penale, in funzione di giudice dell’esecuzione, che riteneva illegittimo, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, l’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce che la sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 della medesima disposizione non può essere disposta nei confronti dei condannati per il delitto di furto in abitazione di cui all’art. 624-bis, comma primo, del codice penale. Sarebbe stata infatti irragionevole, da un lato, la disparità di trattamento tra i condannati per furto in abitazione e i condannati per una serie di altri delitti, tra cui in particolare la rapina, e, dall’altro, la «presunzione aprioristica di pericolosità» anche nei confronti di persone ritenute responsabili di fatti di reato di modesta gravità e condannate, pertanto, a pene detentive brevi. 

Nella motivazione della sentenza n. 216 del 27 settembre 2019, i giudici della Consulta hanno comunque ritenuto necessario segnalare al Parlamento, per ogni sua opportuna valutazione, “l’incongruenza cui può dar luogo il difetto di coordinamento attualmente esistente tra la disciplina processuale e quella sostanziale relativa ai presupposti per accedere alle misure alternative alla detenzione, in relazione alla situazione dei condannati nei cui confronti non è prevista la sospensione dell’ordine di carcerazione ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., ai quali – tuttavia – la vigente disciplina sostanziale riconosce la possibilità di accedere a talune misure alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena: come, per l’appunto, i condannati per i reati elencati dall’art. 656, comma 9, lettera a), codice di procedura penale, diversi da quelli di cui all’art. 4-bis ordinamento penitenziario. (per i quali l’accesso ai benefici penitenziari è invece subordinato a specifiche stringenti condizioni). Ciò, in particolare, in relazione al rischio – specialmente accentuato nel caso di pene detentive di breve durata, peraltro indicative di solito di una minore pericolosità sociale del condannato – che la decisione del tribunale di sorveglianza intervenga dopo che il soggetto abbia ormai interamente o quasi scontato la propria pena. Eventualità, quest’ultima, purtroppo non infrequente, stante il notorio sovraccarico di lavoro che affligge la magistratura di sorveglianza, nonché il tempo necessario per la predisposizione della relazione del servizio sociale in merito all’osservazione del condannato in carcere.”

 


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