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Cambiare gli altri per mantenere se stessi. Tre dati da Belpaese e la lente del magistrato


Tre dati, apparentemente disomogenei, per una tesi. In Italia il problema più grave è quello dell’inettitudine della classe dirigente, sia pubblica che privata. Inettitudine che è un misto di incapacità, cortigianeria, illegalità.

 

Il primo, rivelato qualche giorno fa e subito accantonato nell’oblio nazionale: i dipendenti pubblici si assentano per malattia meno dei dipendenti privati. Eppure è una notizia epocale: smentisce anni ed anni di propaganda mistificante di uomini di governo che in un paese normale avrebbero dovuto, ora, ritirarsi per sempre a vita privata per la vergogna di aver impostato politiche di governo su una presunta fannulloneria dei dipendenti pubblici. Ma non sta in ciò l’importanza del dato. Vedremo tra qualche istante quali conseguenze trarne. Voglio però subito dire che è un dato che non sorprende chi, come me, da 23 anni lavora a contatto con dipendenti pubblici e che di fannulloni ne ha visto pochissimi, una rarità.

Il secondo dato. L’Italia è sempre stata e continua ad essere un paese che investe pochissimo in innovazione e ricerca: di molto inferiore alla media dei paesi dell’Unione europea; decisamente ultima tra i paesi più sviluppati: meno dell’1,3% del PIL, a fronte del 2,25% della Francia, del 2,89% della Germania, del 2,76 degli Stati Uniti. E’ un dato costante, anche prima della crisi intervenuta nel 2008. Così come è costante la minore partecipazione a tali investimenti da parte dei privati rispetto agli altri paesi europei. Altrove, come in Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone, i privati da sempre investono per oltre il 50% dell’ammontare totale degli investimenti in innovazione e ricerca, mentre il Italia la loro partecipazione è sempre stata decisamente inferiore a tale soglia. E ciò avveniva, addirittura con maggior sproporzione, nei periodi in cui le aziende private, in media, producevano profitti a due cifre, gli anni pre-crisi, fino al 2007. Pare evidente che per stare sul mercato e competere alle imprese non serviva reinvestire quei profitti per aumentare la competitività; altre strade assicuravano gli utili.

Terzo dato. In Italia si è assistito da decenni e fino ad oggi ad uno spostamento di ricchezza dalle retribuzioni dei lavoratori verso i profitti delle imprese. Peraltro, l’aumento dei profitti di queste ultime non ha apportato utilità per la crescita economica del paese. Gli anni pre-crisi sono ancora una volta quelli più significativi per capire il fenomeno: l’Italia presenta anche in quegli anni un rapporto tra aumento dei profitti ed aumento del PIL estremamente povero rispetto alle economie più avanzate. In altri termini mentre in paesi come il Regno Unito, il Belgio, la Svezia, la Francia, gli Stati Uniti, all’aumento dell’1% dei profitti corrispondeva un aumento del PIL tra l’0,82 e l’1,43% (per non parlare dell’aumento del 3,31% per la Danimarca), in Italia l’innalzamento del PIL era solo dello 0,15% a fronte dell’incremento dell’1% dei profitti delle imprese. E ciò in presenza di una dinamica pressoché piatta dei salari dei dipendenti.

Sono tre dati apparentemente disomogenei. A mio giudizio servono invece a sostenere la tesi che vado a prospettare. In Italia il problema più grave è quello dell’inettitudine della classe dirigente, sia pubblica che privata. Inettitudine che è un misto di incapacità, cortigianeria, illegalità.

L’inefficienza della pubblica amministrazione non è conseguente ad oziosità dei suoi dipendenti. Vi è, invece, un capitale umano che tiene in piedi a fatica una nave che i comandanti non sanno dirigere. E’ il vertice politico amministrativo che è privo di competenza adeguata, che è scelto sulla base della sua capacità di asservimento verso chi li nomina. La selezione della classe dirigente pubblica è quanto di più distante vi sia dalla meritocrazia. Le nomine sono politiche, ma ciò non sarebbe un grave problema se , nei ministeri, nelle aziende sanitarie, negli enti pubblici, nelle municipalizzate la scelta non fosse, come di fatto è, basato su criteri di fedeltà politica piuttosto che sulla competenza, sulle spalle larghe del nominato, sull’aver dimostrato di saper raggiungere obiettivi e di padroneggiare le risorse, umane, tecniche e normative che vengono affidate.

Non è molto diversa la situazione del privato. Un settore che investe poco in innovazione e ricerca e che, anche quando produce profitti, non porta benessere al paese, è la diretta conseguenza di un sistema di “governance” gestionale nella quale a fare carriera sono i manager in grado di assicurare i pacchetti di elusione od evasione fiscale per l’azienda, di ottenere l’aggiudicazione dei lavori pubblici per mezzo della tangente o dell’entratura nelle istituzioni, di avere accesso al credito bancario grazie alla spregiudicatezza dei loro contatti. Non serve il dirigente capace, quello che innova e sperimenta, quello che punta alla competitività. I casi MOSE ed EXPO, i dati sulla corruzione, l’evasione e l’elusione fiscale sono una conferma, direi scontata, del fatto che le aziende italiane, pubbliche e private, si affidano alla competenza nell’illecito, nella raccomandazione, nell’entratura compiacente, piuttosto che alla capacità di raggiungere gli obiettivi per merito.

Tutto ciò porta ad una considerazione sul cambiamento. E’ un termine abusato, che di per sé non significa nulla in termini di valori. Si può cambiare in meglio o in peggio, si può intervenire per cambiare ciò che non si conosce, si può cambiare perché, alla fine, non cambi nulla. Ecco, il nostro paese mi dà questa impressione. Non cambierà nulla se non ci si pone il problema della classe dirigente, se non si modificano le procedure e la cultura di selezione di chi sta ai posti di vertice della pubblica amministrazione o delle aziende private. Si potranno anche fare manovre per alleggerire il peso fiscale sulle imprese pensando che di colpo si possa recuperare la competitività di chi non l’ha mai avuta e non la sa ottenere; si potrà anche protrarre il blocco delle assunzioni e dei contratti del pubblico impiego pensando che qui si annidi chi sa quale inettitudine, che in realtà sussiste solo a livello di vertice, quello vicino al potere politico ed a questo asservito. In realtà, se non si agirà sulla cultura della legalità e del merito nel reclutamento della classe dirigente, abbandonando per sempre la cultura della fedeltà politica, il fango continuerà ad arrivare, rischieremo solo di avere meno angeli che lo portano via, sfiniti da un governo che pensa solo all’autoconservazione e che per anni ha fatto passare quei ragazzi spalatori di fango come “bamboccioni”. Un’altra mistificazione di chi, al governo, vuole cambiare gli altri per perpetuare il proprio modo di gestire il potere. Questa volta lo slogan, più aderente alla realtà, mi permetto di suggerirlo io: cambiare gli altri per mantenere se stessi.

Pasquale Profiti

( magistrato )


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