Lo studio della storia dei partiti, almeno per quel che riguarda la realtà italiana, è stato ormai quasi completamente abbandonato: eppure sarebbe il caso di ritornarvi su, almeno per certi aspetti, anche per evitare il sorgere di equivoci che possono travisare lo stesso giudizio sull’oggi.
La fase attuale è contrassegnato, nello specifico del “caso italiano”, da un’evidente stretta autoritaria sul piano dell’esercizio democratico, una stretta autoritaria che si colloca ormai ai confini della Costituzione: da un lato il Governo non è mai stato legittimato, nella sua composizione e nei suoi indirizzi programmatici, da un voto popolare, e dall’altro i partiti, mai così deboli sul piano dei riferimenti sociali, ma mai così forti sul terreno della facoltà di spesa e di nomina, stanno lavorando, proprio nella logica del “cartello”, a costruire una legge elettorale che predetermini l’esito del voto, facendo sì prima di tutto che nessun nuovo attore politico riesca ed entrare sulla scena istituzionale o, almeno, a limitarne le eventuali potenzialità.
L’insieme di quest’operazione è orchestrata dalla Presidenza della Repubblica, tenuta – in maniera apparentemente paradossale – da un esponente di quell’ala dell’ex-PCI definita “migliorista” e, all’epoca, considerata più aperta alle ragioni di una democrazia di tipo liberale e di un gradualismo riformista.
Uno studio attento delle vicende interne al PCI dell’epoca ci indicherebbe invece che, proprio in quella corrente che faceva capo all’attuale Presidente della Repubblica, albergavano le tensioni più autoritarie, sia in ragione della storia stessa del Partito al riguardo dei suoi agganci con la realtà del cosiddetto “socialismo reale” sia in relazione a come si presentava, all’epoca dello scioglimento dello stesso, il rapporto con il quadro politico di allora e in particolare rispetto al decisionismo craxiano, di marca reaganian-tachteriano.
Da quelle posizioni discesero poi scelte assolutamente micidiali per la qualità della nostra democrazia, e in relazione al progetto stesso di democrazia europea: liberismo, maggioritario, personalizzazione della politica.
Scelte che hanno alla fine spianato la strada a un lungo periodo di affermazione di un populismo di destra, estremamente pericoloso soprattutto perché rivelatosi egemone nella società italiana, ben al di là dei risultati elettorali ottenuti, ancorché strepitosi (ricordo che il centro-destra alle elezioni del 2008 ottenne una percentuale paragonabile a quella del DC del 18 aprile 1948).
Queste scelte che hanno compromesso la democraticità stessa del nostro quadro politico, e minacciano di chiudere definitivamente una possibile prospettiva di trasformazione di questo pessimo quadro.
Torno, però, al riferimento storico per ricordare chi si batté davvero contro questa deriva e che, all’epoca, fu scambiato per un conservatore passatista.
Penso alle posizioni presenti nel fronte del “NO” alla sciagurata proposta di Occhetto di scioglimento del PCI e riporto, in conclusione, soltanto una frase estrapolata dall’intervento di Alessandro Natta, al XIX congresso (Bologna, Marzo 1990) che considero assolutamente profetica: “Si afferma l’idea del partito di democrazia plebiscitaria, leaderistico, un’idea che rientra nella tendenza di governare le società complesse con le soluzioni semplificatrici del presidenzialismo e dei meccanismi maggioritari”.
Franco Astengo