Nel pieno del conflitto, dopo la caduta dell’effimero “ impero”, con un patto senza precedenti tra due paesi belligeranti, il governo italiano e quello britannico si accordarono per rimpatriare in Italia circa trentamila donne e bambini sotto i 15 anni.
di Gianluigi Taboga
L’emergenza umanitaria era di proporzioni enormi e tra il 1942 e il 1943; quattro navi italiane , il Saturnia , il Vulcania , il Caio Duilio e il Giulio Cesare, in tre viaggi, percorrendo centinaia di migliaia di miglia e circumnavigando l’Africa (il canale di Suez non era percorribile), compirono qualcosa di inimmaginabile per quei tempi, riuscendo in una impresa della quale ben poco si è parlato. Testimoni credibili dei fatti descrivono scene contrastanti di giubilo per il rientro in Patria e di disperazione per la perdita di tanti congiunti e di ogni altra cosa, salvo un sacco di juta consentito con un massimo di 20 chili di beni personali.
Malattie infantili, epidemie di varia natura, insicurezza fisica per donne sole e malnutrizione, funestarono questi interminabili viaggi che duravano oltre quaranta giorni. Ogni nave portava circa 2500 profughi sotto la scorta dei soldati britannici e per concessione e buona disponibilità del redivivo imperatore etiope Ailè Selassiè che, in fondo in fondo, non odiava gli italiani come ci si sarebbe ragionevolmente aspettato.
Con il rimpatrio e lo sbarco finiva una avventura per migliaia di persone destinate ad essere immediatamente partecipi allo svolgimento .di una vera tragedia: la guerra! La Rina De Giovanni, con i suoi due piccoli, trovò rifugio presso i suoi genitori a Loano in una vecchia casa colonica che in quel tempo non era fornita di energia elettrica, di acqua corrente, di servizi, ma c’erano una stalla, galline, frutta e verdura e tanto ritrovato amore per lei e per i suoi piccoli da rincuorare e sperare in un futuro migliore. Per campare si usufruiva di una tessera per i pochi , pochissimi, generi di prima necessità, per il resto occorreva rivolgersi alla borsa nera.
Spesso per qualche chilo di farina ed un litro d’olio occorreva percorrere chilometri in bicicletta su strade insicure e pericolose con il rischio del sequestro di ogni cosa, bicicletta compresa. Finalmente giunse notizia che Sandrin Taboga era vivo, senza ogni altro particolare. La censura inglese era tremendamente efficiente e drastica, come quella italiana, su tutta la corrispondenza. Bombardamenti, fame, distruzioni, finirono con l’arrivo degli alleati e la cessazione delle ostilità, ma papà Sandrin restò prigioniero dei britannici fino al 1947.
Il giorno di Capodanno 1947, mentre nevicava, andai io ad aprire la porta di casa ad uno che bussava insistentemente; mi trovai di fronte una persona lacera, vestita con abiti estivi, inebetita dal freddo e dalla fame. Spaventato, chiamai la mamma che venne di corsa ed io fui testimone di un abbraccio cosi travolgente che ancora oggi lo ricordo con le lacrime agli occhi e come il più bel momento della mia vita.
Vita che ricominciava alla luce della speranza, dell’amore e della tenacia, dura come il granito di Etiopia..
La prossima puntata con l’epilogo di una epopea che accomuna Sandrin e, Rina a tanti cari vecchi italiani che non ci sono più o che tenacemente resistono al tempo e alle avventure che la vita riserva.
Gianluigi Taboga