Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Celle Ligure, è morta Isabella vedova di Raffelin Arecco solitario pittore quasi autodidatta. Non amava la ‘logica mercantile e galleristica’, fu operaio dei Baglietto. 10 tele donate al Comune


E’ mancata, in Milano, Isabella Carabelli, vedova del pittore Raffaele Arecco ed unica cultrice delle tele del consorte. Fino a pochi mesi fa abitava a Celle Ligure, ma poi fu convinta dai parenti suoi a trasferirsi nel capoluogo ambrosiano. Aveva confidato più volte che era sua intenzione tornare nel paese natio del marito e suo per molti decenni, però non s’è più vista. Prima di partire donava al Comune, ossia ai cellaschi, una decina di tele di Raffelin dell’ultimo periodo astratto, ora esposte nello studio del Sindaco e sulle pareti degli uffici. Chi scrive ebbe in comune con Isabella un particolare: Enrica Spotorno, grande amica dell’arte ed artista lei stessa, quando ogni estate scendeva da Milano a Celle, nella mitica ‘Villa Crovara’ e negli ultimi anni riceveva due amici soltanto: Isabella e Gian Luigi.

di Gian Luigi Bruzzone

Raffaele Arecco e la consorte Isabella Carabelli con uno dei quadri più apprezzati dall’artista

Raffaele Arecco – Nascita e formazione. Il giorno 7 settembre 1916 nasceva in Celle Ligure Raffaele Arecco, figlio di Antonio (1889-1958) e di Caterina (1884-1968), da un’antica famiglia della località, i cui membri compaiono nei più vetusti documenti conservati negli archivî. Come nel resto della Penisola, anche nel borgo rivierasco l’atmosfera era agitata e dal fronte giungevano, attese e temute, notizie dei soldati. La Liguria inoltre – pochi lo ricordano o lo sanno –  era militarizzata, ossia tutti i cittadini erano soggetti al codice penale militare. La guerra fu per il nostro paese esiziale, annoverandosi trenta caduti. Per la famiglia Arecco tuttavia, la cui abitazione era affacciata sul torrente Ghiare, nel cuore del tessuto urbano, la nascita di Raffaele, unico figlio ed avuto in non più fresca età, rappresentò una gioia ed una consolazione: il fiorire di una nuova vita e la speranza che la discendenza sarebbe proseguita.

Dell’infanzia non conosciamo molto, se non che trascorse in modo sereno, circondato dall’affetto dei genitori, dai giochi con i coetanei e dalla frequenza delle aule scolastiche per apprendere i primi rudimenti dell’istruzione impartiti dapprima all’Asilo “Nicolò Aicardi”, poi alle scuole elementari adiacenti a casa Arecco e all’Ospedale “N. S. di Misericordia” fondato da Stefano Boagno. Non disponiamo altresì di particolari su come e perché sia emerso l’amore per l’arte, in particolare per la pittura. Al contrario di quanto è stato di recente affermato, i genitori non erano granché sensibili o amanti dell’arte, sebbene mamma Rina fosse donna intuitiva e papà Tugnin fosse un valente bancalaro e perfino ebanista.

LA CADUTA IN BICICLETTA – Ragazzino di sette anni dovette stare immobilizzato prima e a riposo poi per un po’ di tempo a causa di una caduta dalla bicicletta sulle sassose vie cellasche. In tale frangente, forse per vincere la noia, si cimentò a schizzare oggetti, animali domestici e perfino i familiari. I risultati non potevano non colpire, se non altro per la genuinità e per la freschezza, tanto più evidenti in assenza di una preparazione. Sta di fatto che i genitori, constatando la tendenza pittorica dell’unico figlio, forse su suggerimento di amici e di compaesani competenti, pensarono fosse opportuno che il ragazzo avesse un qualche insegnamento specifico. Il padre perciò, accondiscendendo al consiglio del fratello Nicolò1 affidò al professor Giorgio Aicardi2 di Genova il ragazzo, perché verificasse le doti possedute e suggerisse le dritte eventualmente necessarie.

Si racconta in famiglia che il Professor Aicardi dopo breve tempo dichiarasse ai coniugi Arecco che aveva ben poco da insegnare al loro figlio. Evidentemente aveva colto nell’adolescente una peculiarità che andava al massimo affiancata, ma non contrapposta, né era auspicabile imbottirlo di una preparazione accademica, ovvero il ragazzo ne era refrattario. Raffaele Arecco appartiene a quegli artisti essenzialmente autodidatti che, pur cogliendo questo e quello spunto, pur apprezzando questo e quel carattere di questa e di quella scuola, pur ammirando questo e quell’artista e – sopra tutto – questo e quel quadro, non si lasciano intruppare in un gregge, in uno schema ideologico, in una logica mercantile e galleristica.

Comunque sia, in questo riposo forzato Raffelin3  si avvicinò forse al silenzio, colse nel loro dipanarsi le ore e la diversa luce del giorno e i diversi momenti della giornata, ed avvertì in modo più o meno implicito l’esistenza di altri linguaggi, oltre quello della parola e di volersi esprimere in esso. E’ probabile che questa solitudine domestica – rotta forse dalla voce materna, ogni tanto – rimanesse a lungo nella sua memoria e gli svelasse un più ampio orizzonte. Avvertì la propria solitudine, forse anche l’isolamento. Taceva per potersi trovare.

PRIME PROVE PITTORICHE – Fra le prime prove pittoriche segnalo i soggetti desunti da alcune cartoline illustrate inviate da Nicolò al fratello Antonio, quando si trovava al fronte. Quindicenne, la famiglia si trasferì in un quartierino in Via S. Antonio, poiché la casa avita era demolita a causa del nuovo tracciato della Via Nazionale, detta Aurelia.

Ventunenne fu chiamato al servizio di leva, nel giugno 1936, ma fu posto subito in congedo, come del pari l’anno successivo per un’otite cronica destra. Anche le successive chiamate militari si risolsero all’identica maniera, compresa l’ultima chiamata del 10 agosto 1943, nella quale ebbe il congedo illimitato per risultare operaio dei cantieri Baglietto4, lavoro ritenuto importante nella produzione bellica. Durante gl’interminabili anni della guerra non cessò di coltivare il linguaggio figurativo osservando sopra tutto la natura e dipingendo ritratti ad olio. Con verosimiglianza prese abbozzi (su fogli volanti o su un carnet) e disegnò: non a caso restano alcuni grandi disegni a china datati 1942, dal titolo: Uomo disintegrato – il soggetto ed il titolo piuttosto lugubri saranno imputabili al tragico frangente storico del conflitto – nonché un acquerello risalente al medesimo anno effigiante il Mare incurvato (sembra che il binomio fosse proposto da Roberto Melli): pur nell’astratta essenzialità si intuisce che alluda all’arco costiero cellasco e nel contempo anticipa i temi spaziali divenuti predominanti nella pittura avvenire dell’Arecco. In tutti i disegni citati compare il motivo di un profondo golfo, quasi fosse un’idea fissa in quel torno di tempo. D’altra parte gli archi sono sulla terra come nel cielo:

di liscio mare ferrigno

con pigra una barca là nell’infinito

donde immensa volta di cielo s’inarca5.

Cucitrice di reti

DOPO LA GUERRA – Con la ripresa della vita ‘normale’ nella società italiana, il natio borgo rivide rifiorire le amate abitudini: bighellonare per le vie, chiacchierare con i compaesani, parlare coi coetanei tornati dal fronte, giocare a boccetta sul biliardo del Bar Margherita, camminare lungo la battigia, assaporare l’avvicendarsi delle stagioni, cercare funghi nei boschi, disporre di un laboratorio dove poter disegnare e dipingere lungi da occhi indiscreti. Per un breve periodo aveva lavorato presso i Cantieri Baglietto in Varazze, già s’è accennato. A modico prezzo il padre aveva preso a pigione molti anni innanzi un ampio magazzino dalla famiglia Mezzano: nell’area affacciata su via Ghiglino vendeva lane, crine, kapoc, articoli da spiaggia et similia; l’area verso via IV novembre, ossia verso il lido, assurgeva alla funzione di antro creativo. Sinché potè lavorare, il padre vi mantenne la propria falegnameria.

Se non erro, lavorò all’aperto solo nei primi anni, poi non più: non perché non lo ritenesse proficuo e talora essenziale, quanto per l’estrema ritrosia ad avere testimoni, vuoi per timidezza d’artista, vuoi per non avere da discutere od accettare interruzioni ed osservazioni su quanto faceva. Che avvertisse, almeno in certi momenti, l’inadeguatezza dell’atelier, lo attesta il fatto che per qualche tempo la Principessa Erika de Guzkowski in Bonino6 gli concesse un locale luminoso dove poteva liberamente lavorare insieme con l’amico Attilio Ravera, artista e dilettante7.

I RITRATTI DEI FAMIGLIARI – Intanto le pitture arecchesche non erano più ignote ai compaesani: taluno glie le sollecitava, a cominciare dai parenti. Così dipingeva un ritratto (Tessitrice di reti) di Caterina Gaggero Arecco nel 1935, quanto mai suggestivo e poetico; alcuni ritratti del nonno omonimo Raffaele Arecco, dello zio Nicolò nel 19438, del cuginetto omonimo Raffaele all’età di circa sei anni9, dell’impresario Giuseppe Tortarolo. Poi un mazzo di fiori per le seconde nozze du barba Nicolò con Rina Migliardi del 1951, un vaso di rose con in basso a destra un minuscolo scoglio umanizzato nel 194810 e via enumerando.  Perfino a livello ufficiale – per dir così – l’ Arecco era stimato: alludo al quadro di San Michele, dipinto nel 1936, e collocato l’anno 1945 nel palazzo municipale da Silvio Volta, sindaco della liberazione. La figlia di lui Rinuccia Volta, diplomata in maturità classica e morta precocemente11,  fu allieva (anche) di Raffaelin o quanto meno ne ebbe qualche lezione e consiglio. Quando poi Celle Ligure si gemellò con Celle dell’Hannover l’anno 1959, il comune ligure commissionò ad Arecco una tela da donare alla città tedesca12. Nel medesimo anno dipingeva dietro un vetro una Madonna del Buon Consiglio sulla parete esterna della chiesa conventuale dei Padri Agostiniani: il titolo mariano è caro alla spiritualità dell’Ordine e si riferisce al celebre Santuario di Genazzano.

Negli anni Trenta, del resto, la conoscenza di Enrica Spotorno, sposa dal 1933 del  compaesano Franco, aveva corroborato il nostro artista e lo aveva fatto conoscere alla colonia dei milanesi ospiti a Celle nei mesi estivi. Da allora la stima fra donna Enrica e Raffelin non si estinse ed anzi negli ultimi mesi di vita la Signora intendeva allestire in Milano e a Celle una monumentale mostra del pittore: così ci aveva confidato in una delle ultime conversazioni a “Villa Crovara”.

ANNI RUGGENTI – Con la primavera del 1960 la vita dell’artista conosce una svolta. Ultraquarantenne, sposa Isabella Carabelli, giovane milanese conosciuta tre anni innanzi in villeggiatura a Celle, diplomata in maturità artistica ed appassionata d’arte. Da allora sarà la sua ombra, se l’espressione è lecita, e a tempo debito custode fedele della sua memoria e dei suoi quadri. La consorte sorreggerà la solitaria attività dell’artista, lo conforterà, lo pungolerà, a seconda dei casi, ne sarà sempre in attento e continuo ascolto. Anni di mancata svolta altresì per l’umana esistenza dell’Arecco.

Isabella Carabelli negli anni in cui era già vedova

Ai soli anni Cinquanta e Sessanta si restringono infatti le mostre di lui. Nel 1946 in una Genova ancora insanguinata e martoriata dagl’infami bombardamenti inglesi allestì una mostra incontrando plauso e vendite13; nel 1950 partecipò al “Premio Pietro Costa per le arti figurative” di Celle 14 (16 luglio – 20 agosto) vincendolo15; nel 1952 partecipò alla “IV quadriennale di arte sacra” in Roma, nel Palazzo delle Esposizioni, presentando un Cristo assai sofferto, simbolo del dolore universale che fu apprezzato da Pio XII tramite una lettera del Pro-segretario di stato, Mgr Giovan Battista Montini16.

Nel 1953 Giulio Bergamini, valente gallerista scopritore di talenti, approntò una mostra personale per il Nostro17, cui seguirono la mostra personale alla Galleria d’arte Spotorno in Via della Moscova nel 195818 e nel 1961, ed ancora alla Galleria Bergamini nel 1969, dal 29 maggio al 15 giugno19.

Nel 1964 aveva partecipato quale artista aderente all’ambiziosa “Prima rassegna della pittura ligure” tenuta in Savona, esponendo tre tele: Spettacolo (1961), Oggi (1962), Silenzi (1962)20. In questo lasso di tempo l’ Arecco parlò all’ Angelicum di Milano ed accettò un’intervista alla radio, trasmessa un pomeriggio alle 14: c’è ancora chi ricorda di averla ascoltata con un gruppo di amici al Bar Nazionale!

Il gallerista Bergamini, entusiasta, propose all’Arecco di fermarsi nella metropoli ambrosiana: avrebbe acquistato tutti i quadri corrispondendogli per ciascuno un assegno dalla cifra non disprezzabile. Ma di fronte ad un contratto il Nostro percepiva quasi un senso di prigionia, sentiva come mancargli il respiro, non poter camminare sul lido fra il mare sempre diverso, sotto un cielo sereno o tormentato e sullo sfondo variopinto delle antiche case. Umanamente parlando la risposta negativa può lasciare perplessi, ma forse non fu scelta sprovveduta per chi abbia intuito l’indole dell’interessato.

Avrebbe resistito in codesta situazione? E quanto? In sostanza autodidatta, il fatto di rinunciare a trovarsi in un ambiente quanto mai vivace, fervido di discussioni, di incontri, con colleghi provenienti da ogni parte d’Italia e non solo, col corollario di critici, di esperti d’arte, di un mercato non gli importava più di tanto. Era troppo radicato in un ambiente, troppo convinto delle proprie idee, troppo insensibile a visuali altre da sé. Come la gran parte degli artisti vedeva il mondo esclusivamente dalla propria monade, dalla propria finestra. Quelle altrui lo interessano secundum quid, ossia tanto quanto collimavano con la propria Weltanschauung.

LA GITA IN SPAGNA OSPITE DEL CUGINO – Significativa in questo senso una gita in Spagna nell’estate del 1973, ospite del cugino

La raccolta delle olive

omonimo, sull’alfetta appena acquistata. Al Museo del Prado egli si fermò oltre un’ora dinanzi ai disegni del Goya, rifiutando di vedere le altre sale ricolme di capolavori di ogni secolo e scuola, sostenendo non esservi altro di interessante! Al Museo del Louvre poi espresse un categorico giudizio d’insussistenza nei riguardi dei dipinti di Paul Cézanne (la cui concezione artistica presenta peraltro talune analogie con quella del Nostro) e di altri pittori francesi21!   Ovvero il rifiuto di parlare, sia pure per un semplice saluto, con Andrea Verdè, amico di Pablo Picasso, con studio a San Paul de Vence22. Ovvero il rifiuto di far visitare il proprio studio al Presidente del Tribunale di Milano, giunto appositamente a Celle, perché lui non l’aveva invitato!   Si potrebbero addurre altri rifiuti analoghi, più o meno irosi, e certo per chi non abbia conosciuto l’isolamento dell’Arecco, il carattere di lui “indipendente, solitario, irsuto23 potrebbero apparire villania. Era invece un lato inevitabile del suo essere stundaiu24.

La ritrosia alle proposte avanzategli ed il mancato coinvolgimento nell’ambiente della capitale morale d’Italia spiegano l’assenza arecchesca dai consueti circuiti critici e commerciali.

D’altra parte gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento non difettavano di illustri presenze e di spunti proficui anche nelle vicine Albisole, dove soggiornava un’affiatata colonia di artisti delle più diverse provenienze ed estetiche25, anche a livello poetico e letterario26. Non solo, uno dei più prestigiosi laboratori ceramici (ma anche pittorico), il Pozzo Garitta, apparteneva al compaesano Bartolomeo Tortarolo, detto u Giancu27. Ma evidentemente tutto ciò non lo interessava: “Arecco era un solitario che interrogava, elaborava ed esibiva un mondo interiore (mediato dalle emozioni suscitate dalla terra d’origine) in assoluta autonomia creativa, senza condividere con alcuno i motivi di un gesto in continua crescita propositiva28.

CENNI SUL PERCORSO ARTISTICO-  Per i motivi sopra palesati od appena allusi non ha senso – a nostro modestissimo parere – tentare confronti con altri artisti, antichi o a lui contemporanei. Egli stesso se ne sarebbe seccato, pare tuttavia che non lo infastidisse essere paragonato con Paul Klee. Non dispiacerà tuttavia un cenno ai precipui temi riconoscibili nel percorso artistico del Nostro.

In primis humana species nitet, sentenzia un filosofo medioevale. I primi soggetti a lapis o a pennello sono figure, animali, aspetti dei tre regni del creato, già lo si è alluso. Segue la serie dei Cristi (Crocifissi) eseguiti a più riprese con varianti più o meno accentuate, ora aderenti ad un discorso ancora figurativo, ora assai stilizzato, ora informale, con tecniche varie29  e quella chiamata degli scogli umanizzati intrapresa negli anni Quaranta e proseguita per tutti gli anni Cinquanta. Suppongo che un motivo d’ispirazione siano stati gli scogli di Celle – di conglomerato sinorogenetico dell’era cenozoica –  tanto a levante, quanto a ponente del borgo: i primi non sono quasi più visibili dopo lo sconquasso del 25 aprile 1945 e la disintegrazione del Promontorio della Crocetta, i secondi sono ancora in parte visibili e dalla fantasia popolare sono identificati con un nome (Baldacchino, Carega etc.).

La fase della pesca e della raccolta delle olive ha riscosso la più sincera simpatia presso un’alta percentuale dei conoscitori della pittura di cui parliamo. Per molteplici ragioni: per evocare i fondamentali lavori dei cellaschi fino agli anni Sessanta30, ormai spariti31, per effigiare una fatica provata da molti, per alludere in modo discreto ma evidente al nostro paesaggio, per la felice sintesi circolare dei pescatori intorno al bagliore argenteo e vivo del pescato, per il suggestivo rapporto delle raccoglitrici d’olive con l’albero, curvo e contorto come molti contadini affetti da artrosi ed artriti.

Le figure in cerchio intorno alla rete tirata a riva stemperano la loro immagine nell’abbaglio che proviene dal frutto della fatica: un tesoro di luce che si diffonde intorno e avvolge la scena. Si compie così un altro rito di comunione e di condivisione esistenziale. La serie dei pescatori promuove una simile allegoria che profuma di rinnovabile stupefazione, di meraviglia che contamina gli sguardi chini sul miracolo e si diffonde nell’atmosfera come un pulviscolo palpabile di emozioni” 32.

Si direbbe anzi che codesti pescatori e raccoglitori di olive posseggano non di rado un senso sacrale, trasmettano un messaggio di un rito ancestrale sia per essere stato l’uomo pescatore da sempre, sia per la possibile valenza simbolica che gli si può attribuire33. Comunque sia, se dovessimo redigere un catalogo delle opere, moltissime sarebbero le tele della pesca: grandi, medie, piccole, coloratissime, scure, chiare, monocrome, con marcata presenza paesaggistica34, incentrata in modo pressoché esclusivo sul cerchio degli uomini; realistiche, evanescenti, realiste, sognanti, compatte, articolate e via elencando. Affrontò anche la tecnica del graffito, come quello commissionatogli dal condominio nell’attuale via Federico Colla n° 20 ed eseguito in pochissimo tempo, come postula la tecnica.

Intanto gli anni si succedono agli anni, da cosa a cosa è spazio da senso a senso è tempo35: la gente, Celle, la società cambiano. Molti non se ne accorgono, sul momento, altri prefigurano. Fra questi il Nostro. Egli infatti seguiva quanto accadeva e con l’intuito trascendeva il mero dato cronachistico.

Alla fase figurativa succede quella informale (sebbene l’uso di codesto aggettivo nei suoi confronti infastidisse l’interessato). Alla testimonianza dell’antica cultura della tradizione, calata in una precisa realtà geografica se non paesana, subentra una ricerca verso un futuro ignoto – né può essere altrimenti – e verso un avvenire di cui sfuggono molti aspetti, ma che lungi dall’apparire roseo, insinua perturbanti timori.

La serie dei soggetti spaziali, dell’uomo nello spazio, dell’uomo stellare e così via si riferiscono anche alla così detta conquista dello spazio36. Ma alcune tele precedono tali avvenimenti (anche in aspetti spiccioli, quali il colore del suolo e dello spazio siderale): non a caso si è alluso ad una certa quale anticipazione da parte del pittore che può stupire chi ignora il valore profetico di molti artisti e basti rammentare la chiusa del romanzo La coscienza di Zeno (uscito nel 1923) nella quale lo scrittore triestino sembra descrivere la bomba atomica!

Quanto ai detriti presenti in calce a molte composizioni spaziali, essi rappresenterebbero la cattiveria e i vizi che l’uomo salendo nello spazio lascerebbe sulla terra, secondo l’illusione dell’ Arecco. Nel 1969 un critico autorevole scriveva: “Con la forza dell’immaginazione intravvede gli strati dell’aria, le incredibili colorazioni della luce. È così facile, a questi gradi di stupefazione, scadere nella fastidiosa retorica dell’eroico, il rischio della banale illustrazione è lì a ogni passo. Se Arecco ne sfiora gli attraenti baratri e non vi cade è proprio per quel tanto di innocenza immaginativa che ha saputo preservare e gli permette, da pittore, di sentirsi al fianco di quelle creature, legato agli stessi abitacoli, col peso del cuore sempre più grave nel petto, a sinistra… Il segreto di Arecco è semplice: dipingendo queste tele si è sentito anche lui lassù e ha saputo condividere il nodo di pensieri umani degli astronauti, che pur tentando il cielo restano legati, senza rimedio ai sentimenti che accomunano gli uomini. Anche la paura37.

ALIA – La pittura non esaurì l’attività artistica dell’Arecco. Chi ebbe modo di visitare il suo laboratorio del resto sa che conteneva un po’ di tutto: pietre bizzarre raccolte sulla battigia, rami particolari, un manufatto strano od etnografico, un reperto paleolitico, un fossile… Più volte si divertì ad imitare fossili e pitture antiche, eseguiti con tale maestria da ingannare anche un competente. Si divertiva un mondo poi – ritengo per intuizione autonoma, non certo per influsso di un Bruno Munari o di un Gillo Dorfles – a dipingere sassi, ad applicare sui fiaschi e bottiglie immagini e fotografie, a caricare di ornati e motivi antropici oggetti naturali.

Significativi per intuire il suo sporadico gusto allo scherzo e al paradosso alcuni episodi narratici. Una volta dipinse ad olio su tela un pezzo di vetro con tale realismo, da farlo spostare a chi guardava il quadro: un po’ come la nota storia del pittore greco Apelle. Un’altra volta applicò la riproduzione di un disegno leonardesco su un vecchio tagliere della madre con tale maestria, da ingannare un gallerista di Ginevra, cui non volle venderlo!  Se il primo episodio si può sintetizzare nella battuta: Guarda come sono bravo! (e il pittore rammentava l’apocrifo episodio della mosca dipinta da Giotto su una tavola del Cimabue), il secondo rivela un gusto per l’oggettistica e per l’intervento su oggetti naturali o su manufatti di uso comune, testè accennato.

Prima degli anni ‘60 si applicò a disegnare tessuti38 e vi furono taluni tentativi per uno sbocco commerciale; come del pari per un progetto di pavimento in radica di ulivo: esso interessò Giuseppe Olmo, il quale già pensava all’impianto di Recaldina (sopra Milano), ma il trattamento artigianale indispensabile in alcune fasi operative ne avrebbe mantenuto alto il prezzo ed impedito un vero processo industriale.

Verso i quadri aveva un atteggiamento paterno, per così dire. Quando era distante, come durante la gita a Berlino nel 1972 con i soliti cugini, telefonava ogni sera all’amico Gianni Buscaglia39 vicino di casa, perché controllasse le sue… creature. Li vendeva per necessità, ma soltanto se gli andava a genio il potenziale acquirente! Ad una signora che espresse il desiderio di comperare due tele suggerendo il soggetto e la cromia consoni alle altre (dell’Arecco) già appese nel salotto di casa, rispose in modo sgarbato40. Ed un rifiuto era prevedibile a chi non manifestasse ammirazione incondizionata per l’arte sua: non per niente era solito ripetere la frase evangelica che è vano dare perle ai porci.

Altre frasi memorabili dell’Arecco: “Dal Quattrocento in poi, a parte me e il Masaccio, non ci sono novità, né altri pittori degni di rilievo”. “Chi procrea non crea”. Se la prima – pronunciata sul serio! – ostende un alto concetto di sé (diciamo così), per l’altra andrà precisato come negli ultimi anni di vita sembrò ricredersi, quando nel vedere o nel salutare bambine di amici o di conoscenti, considerando i crescenti successi di molte donne nei campi più disparati, anche quelli fino allora riservati agli uomini, affermava: Creddu che u mundu ormai u segge de donne: me son passae avanti in tante cose…Un  domam i comandian lu.

Egli non adoperava prodotti preconfezionati, ma come gli antichi maestri preparava di persona i pigmenti, talora impastandoli sul palmo della mano sinistra. Un monito, forse: dinanzi ad un’industrializzazione sempre più invadente perfino nel recinto dell’arte, si confeziona con amorevole cura e senza fretta ogni dipinto. L’arte non è disgiunta dall’artigianato, dal fare, ποιειν.

Raffaele Arecco muore all’ospedale di Savona il 28 settembre 1998.

Raffelin presso due letterati cellaschi. Non sempre vale il nemo propheta in patria. Raffelin fu generalmente ben visto dai compaesani, compresi i letterati. Ne segnalo due. Antonio Pinghelli41 vadese per formazione, ma cellasco adottivo, amicissimo dello scultore Arturo Martini, non solo dedica almeno una lirica all’artista42, ma lo allude a più riprese come in questa gustosa paginetta che, a ben considerare, lo difende dall’accusa circolante nell’ambiente di essere un artista tutto estro, ma con tenui supporti culturali.

“Brano di conversazione. Dice N.: “I quadri dipinti da R. mi confermano nella risaputa verità che non occorra molta cultura generale per essere dei bravi pittori. Non ho detto: molta intelligenza, giacché – è chiaro – quando dipinge in stato di grazia R. è intelligentissimo. Peccato che, tra un quadro e l’altro, parli molto e voglia dire la sua su tante cose che con la pittura non hanno nulla a che fare“.

Risponde P.: “L’osservazione è esatta ma per essere completa, più equa, dovrebbe continuare a prendere in considerazione tante egregie persone, provviste anche di laurea, molto esperte nella loro professione, ma che quando escono dal loro campo e pretendono di pontificare in altri settori dell’umana attività – politica compresa – dicono cose che non stanno né in cielo né in terra. E soprattutto il discorso dovrebbe estendersi a coloro che, per essere valenti nella loro professione, si sentono autorizzati a trinciar giudizi, per esempio, in fatto di pittura…”43.

E più esplicitamente, quando parla di pittura informale: “Sia subito chiaro: a un mediocre quadro figurativo, preferisco di gran lunga un buon quadro astratto o, come si dice, informale. E ancora: il mio amico Arecco, autore del quadro riprodotto sulla copertina di questo libro, è anche autore di molti ottimi dipinti informali. Detto questo, non esiterò ad esprimere qualche non modesta considerazione limitativa. Che – ad esempio – la pittura informale è nel migliore dei casi, una sorta di crittografia, di scrittura emblematica, che si sostituisce alla scrittura distesa del figurativo vero e proprio. Un gergo per iniziati, appunto. O addirittura un piccolo cenno d’intesa, un ammiccamento. Ora che in qualche caso una strizzatina d’occhio o una minima sfumatura mimica possano dire più cose di un risaputo discorso è indubbiamente vero. Ma mi sembra altrettanto certo che, in generale, un significante discorso – chiaro, disteso, ben costruito – si fa apprezzare di più. Richiede, a parte il resto, degli intenti, una preparazione, una elaborazione, sui quali non sono possibili equivoci44.

Marco Siccardi45 (figlio di un navigante, poi albergatore), laureato in lettere, già intellettuale impegnato – per adoperare un aggettivo di moda nei decenni passati –  conversava abitualmente col pittore, al quale dedica questi versi: Io e il pittore / camminiamo insieme / lungo la riva / del mare agitato / Lui ha l’ansia / e io ben l’intendo / Entrambi incuranti / dell’abbigliamento / parliamo dei nostri / ardui progetti / avanziamo nel vento / Lui ha settanta / e io trent’anni / ma la lingua / è la stessa 46.

Raffaelin e le copertine. Ad ulteriore conferma di quanto affermato nel paragrafo precedente, segnalo i volumi cellaschi cui partecipò l’Arecco. I racconti composti nottetempo da Gaetano del Ghiare, mentre fungeva da guardiano della fabbrica Olmo, videro la luce per interessamento di Franco Spotorno e recano una veduta del paese sulla copertina ed un ritratto a penna dell’autore quale antiporta, tanto nella prima 47, quanto nella seconda edizione48.

Il Pinghelli poi volle per due suoi libri, usciti in elegante veste editoriale dalla benemerita casa editrice Ceschina, la sopra-copertina con un dipinto effigiante il porto di Savona49 e l’altro effigiante la pesca50. Scelta voluta, giacchè il Pinghelli conosceva altri artisti, egli stesso sapeva adoperare il lapis come la penna ed anzi disegnò la copertina di un proprio volume successivo. E così volle il citato Marco Siccardi scegliendo un dipinto del periodo informale intitolato ‘Imponderabilità’51.

Gian Luigi Bruzzone

Appendice

Conversazion con Raffelin… 52[foglio]

  1. Nicolò Arecco (Celle, 1894 – 1985) cavaliere della Repubblica, cavaliere di Vittorio Veneto, sposò Caterina Tortarolo (Celle, 1899 – 1951) dalla quale ebbe il figlio Raffaele e in seconde nozze sposò Rina Migliardi. Fu consigliere del Comune per molte amministrazioni, vice sindaco, e geloso raccoglitore di materiale e documenti concernenti la storia di Celle. Coltivò anche l’estro poetico, come si arguisce dai versi Cele di me vegi edita in “A Civetta”, 11, 1985 o dall’ acrostico per il Maestro Baodo edito in G. L. BRUZZONE, Personaggi di Celle, Genova, Brigati, 2010, p 188.
  2. Giorgio Matteo Aicardi (Finalborgo, 1891 – Genova, 1985) allievo di Giuseppe Pennasilico all’Accademia Ligustica di belle arti, si perfezionò a Roma e a Firenze. Dipinse paesaggi, ritratti, ad olio ed a fresco, fu grafico ed apprezzato restauratore. Il pittore Aicardi era conosciuto dall’impresario Giuseppe Tortarolo il quale nel 1936 gli affidò gli ornati della capella di famiglia al Camposanto. Nel soffitto si legge tutt’ora il medaglione effigiante S. Giuseppe, firmato e datato: di questo dipinto esiste il bozzetto, posseduto dal nipote Raffaele Arecco. L’Aicardi donò un quadretto rappresentante la Via Aurelia per le nozze di Raffaele e Carolina Arecco.
  3. L’artista fu sempre chiamato in famiglia ed in paese Raffelin, poiché portava il nome del nonno. Anche Nicolò Arecco (fratello di Antonio) battezzò l’unico figlio Raffaele, ma pur essendo nato un ventennio dopo, il diminutivo rimase al più grande. Essendo in tema di parentela, non sarà discaro rammentare che zio e cugino svolsero reciprocamente il ruolo di testimoni per le rispettive nozze.
  4. Foglio matricolare n° 32943 del Distretto militare di Savona, depositato all’archivio di stato. – In parole povere, l’Arecco non fu mai soldato e però sono davvero curiose le espressioni incontrate in due testi sull’artista (uno… ripreso dall’altro e ripetuto in un giornaletto) che fu “chiamato alle armi a 21 anni dove presta servizio per sette anni, fino al disfacimento del regio esercito”!
  5. Mario NOVARO, Murmuri ed echi. Edizione critica a cura di Veronica Pesce, Genova, Fondazione Giorgio e Lilli Devoto, 2011, p 138.
  6. Erika de Guzkowski (Tammin, 1884 – Celle, 1970) gentildonna estone, unica della famiglia sopravvissuta alle carneficine sovietiche per trovarsi all’epoca in Italia. Ed in Italia rimase sposando Ugo Bonino (1882-1938) cui diede il figlio Giovanni (1914-65). M’accorgo che un compaesano scrittore allude alla nostra gentildonna e alla sua profonda religiosità: Silvio RAVERA, Rintocchi e richiami, Firenze, L’autore libri, 2002, pp 21-22.
  7. Testimonianza di Carlo Bruzzone; quanto ad Attilio, rinvio al cenno porto nella biografia del fratello D. Silvio Ravera, in questo medesimo volume.
  8. La tela reca in basso a destra  la dedica “A mio zio”.
  9. Quadro interessante, giacchè a tergo del ritratto è dipinto un cortile con figure e galline, soggetto ripreso da una cartolina inviata al padre Antonio dal fratello Nicolò.
  10. Proprietà di Raffaele Arecco.
  11. Rinuccia Volta (Celle, 1933-89) quarta ed ultima genita di Silvio e di Maria Basso.
  12. Durante una gita in Germania ospite dei cugini Raffaele e Carolina, l’artista volle vedere dove e come era esposta la propria tela – effigiante un paesaggio cellasco – e non rimase granché entusiasta. Circa il gemellaggio con la città prussiana, cfr.: Le due Celle in “A Civetta”, II, 4, luglio 1982, p 6.
  13. Il 3 novembre 1946 parlò con Enrico De Nicola, capo provvisorio dello stato: la fotografia dell’avvenimento è pubblicata da Vincenzo TESTA, Celle e Cellaschi in ta stoia e in te memoie, Genova, Compagnia dei librai, 1997, p 192.
  14. Al varo dell’iniziativa aveva contribuito anche Nicolò Arecco, il quale si era proposto grazie a codesta occasione di far meglio conoscere all’ambiente dei critici e della pittura il nipote.
  15. Cfr. i quotidiani liguri d’allora e “Liguria”, XVII, 6, giugno 1950, contenente – fra l’altro – Dario G. MARTINI, Celle Ligure…come una conquista di serenità, pp 16-19. Le manifestazioni  iniziarono domenica 16 luglio 1950 col ricevimento in comune, lo scoprimento della lapide sulla casa del Costa con commemorazione del Prof. Giuseppe Cerrina e l’inaugurazione della mostra internazionale delle opere concorrenti nel palazzo delle scuole con prolusione del Prof. Roberto Melli. Quasi tutte le tele erano state eseguite durante il raduno internazionale svoltosi a Celle dal 19 al 30 giugno 1950.
  16. Notizia porta da V. TESTA, Celle, cit., p 192.
  17. Raffaele Arecco [con uno scritto di Roberto Melli], Milano, Galleria Bergamini, 1953.
  18. Raffaele Arecco, Milano, Quaderni della Galleria d’arte Spotorno, s.d.
  19. Raffaele Arecco [con uno scritto di Marco Valsecchi], Milano, Galleria Bergamini, 1969.
  20. Prima rassegna della pittura ligure, Comune di Savona, 25 agosto-15 settembre 1964, Savona, Sabatelli, 1964, pp 8-9; vi si pubblica un ritratto dell’artista, la tela Oggi ed una scheda di questo (sorprendente, per certi aspetti) tenore: “E’ nato a Celle Ligure (Savona) nel 1916. E’ autodidatta. Vive e lavora a Celle e a Milano. Ha allestito numerose personali nelle principali città d’Italia e ha partecipato a varie rassegne nazionali ed internazionali. Sue opere si trovani in collezioni italiane e straniere. Hanno scritto sulla sua opera: R. Melli, C. Corsi, M. Valsecchi, C. Munari, M. Lepore, R. De Grada, A. Pilica, A. Gatto, G. Sguerso, G. Balbo, G. Beringheli, F. Tiglio”.
  21. Nello stesso museo, passando per la sala della Gioconda, lamentò come tutti le si soffermassero dinanzi, senza degnare d’uno sguardo la vicina Vergine delle rocce.
  22. Comunicazione orale dei coniugi Raffaele e Carolina Arecco.
  23. Giorgio SGUERSO, Raffaele Arecco, pittore solitario in “Il Nuovo Cittadino”, Genova, 26 settembre 1962.
  24. Sul significato del termine vernacolo, scarsamente traducibile in lingua, cfr.: V. TESTA, Celle e Cellaschi, cit., p 171.
  25. Cfr. Luciano e Margherita GALLO-PECCA, L’avventura artistica di Albisola, Savona, Liguria, 1993.
  26. Cfr. Simona POGGI, La vita letteraria a Albisola nel secondo dopoguerra, Savona, L. editrice, 2009 (studio nato come tesi di laurea).
  27.  Sia sufficiente il rinvio al profilo proposto in questo medesimo volume.
  28. Luciano CAPRILE, Raffaele Arecco, Savona, Sabatelli [in realtà pagato dalla Fondazione Spotorno],  2010, p 11.
  29. Abbiamo presente – ad esempio – il Crocifisso disegnato su stoffa bianca posseduto dal Rag. Vincenzo Testa.
  30. Cfr. G. L. BRUZZONE, Il microcosmo di un borgo rivierasco in un carteggio di metà Ottocento in “Atti dell’Accademia ligure di scienze e lettere”, LI, 1994, pp 553-578.
  31. “Contadini e pescatori della mia Liguria… So bene che tante cose sono cambiate e specialmente negli anni seguiti all’ultima guerra  Mi dicono, tra l’altro, che è abbastanza frequente vedere molte di quelle fasce a gradoni abbandonate del tutto, non più coltivate e con l’erba altissima, disseccata senza che alcuno le falci o animale le bruchi. Quanto ai pescatori, di giovani del posto – a calare o tirare le reti; a rammendarle o a tingerle con la scorza di pino bollita nei calderoni una volta all’anno – se ne vedono sempre meno, e in molti paesi sono scomparsi del tutto. A quanto sembra il mare ligure – dipenda dagli inquinamenti industriali; dalla nafta che arriva in larghissime chiazze proveniente dalla lavatura delle sentine delle petroliere; o da altri motivi – è diventato sempre meno pescoso…:”: A. PINGHELLI, Il carro davanti ai buoi, Milano, Ceschina, 1965, p 37.
  32. Così le alate parole di L. CAPRILE, Raffaele Arecco, cit., p 12.
  33. Non a caso il Novecento conosce parecchi scrittori (fra i liguri mi sovvengono i fratelli Angelo Silvio e Mario Novaro, Giovanni Boine, Fra Ginepro da Pompeiana etc.) che hanno cantato ex professo l’olivo, l’olio etc., ed anche pittori, italiani e stranieri.
  34. Segnalo peraltro la tela donata per le nozze del cugino Raffaele con Carolina del 1960, nella quale i pescatori non si trovano sul lido, bensì sulle barche, in mare.
  35. M. NOVARO, Murmuri ed echi, cit., p 212.
  36. A titolo di pro memoria annoto le date del 4 ottobre 1957 (lancio dello Sputnik, primo satellite in orbita attorno alla terra), novembre 1957 (lancio dello Sputnik con la povera cagnetta Laika, vittima inconsapevole), 1958 (lancio dei prototipi dell’IRBM, missili militari), gennaio 1958 (lancio del I satellite Explorer), marzo 1958 (lancio del satellite Vanguard, alimentato da pannelli fotovoltaici) etc.
  37. Marco Valsecchi, nel catalogo della mostra di cui alla nota 19.
  38. Di fatto in un viaggio effettuato in compagnia dei cugini Raffaele e Carolina in Portogallo amava visitare esposizioni e negozi di stoffe e di prodotti coloniali. Ed anche quando gli capitava di visionare mercati consistenti, quale quello di Mondovì, puntava sempre sui banchi di stoffe per cercare la … sua tela ideale.
  39. Giovanni Buscaglia (1928-1997) dipendente del comune cellasco, sposò Giustina Arecco (1932-97) dalla quale ebbe due figli.
  40. Comunicazione di Caterina Delfino.
  41. Antonio Pinghelli (Savona, 1910 – Milano, 1999) perito industriale, disegnatore, giornalista, letterato, autore di prose e di versi. Le sue carte furono donate alla Fondazione Novaro in Genova; una esigua sezione della sua biblioteca è confluita nella Civica Biblioteca di Celle ed un’altra nella Civica Biblioteca di Vado Ligure.
  42. A. PINGHELLI, Lasciatemi andare a  capo, Savona, Sabatelli, 2000, p 98.
  43. A. PINGHELLI, Il carro davanti ai buoi, cit., p 166.
  44. Ibidem, pp 108-109.  
  45. Marco Siccardi (1956 – …) perito ragioniere, ebbe come insegnante Gina Lagorio, dalla quale fu incoraggiato nelle prime prove poetiche; ha collaborato a varii periodici culturali, ha edito due sillogi poetiche ed un volume di racconti. Per un lustro fu anche consigliere comunale di maggioranza.
  46. M. SICCARDI, Treni nella nebbia, Poggibonsi, Lalli, 1988, p 52. La lirica appartiene alla prima fase siccardiana, senza punteggiatura.
  47. Gaetano del Ghiare, Racconti di Celle, Savona, Liguria, s.d.; cm 20×14,5, pp 99, [3].
  48. Idem, s.n.t.; cm 22×13,5, pp 54, [4].
  49. A. PINGHELLI, Uno dei tanti (Paolo Silverio), Milano, Ceschina, 1957.
  50. A. PINGHELLI, Il carro, cit.
  51. M. SICCARDI, Treni, cit.
  52. Quanto alla grafia del vernacolo, l’autore si è attenuto a quanto suggerisce il compaesano S. RAVERA, Ti veu scrive in dialetto? (grammatica ligure), Savona, FIVL, 1984, in cui sostiene sia preferibile seguire la grafia del genovese e poi pronunciare in modo differente a seconda della parlata locale. Ringrazio l’Autore per avermi offerto il suo testo, inedito.

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Gian Luigi Bruzzone

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