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Il docente: la medicina ultima difesa


Storia, storia della Medicina, letteratura, memoria popolare hanno registrato il rapporto di causa-effetto degli stati morbosi ancor prima che la ricerca epide­miologica, involontaria necrofora, disvelasse che l’origine delle malattie segue andamenti ben definiti riguardo a culture, appartenenze sociali, gruppi etnici, residenze urbane o extra-urbane, varia da un continente all’altro, da una regione all’altra, da una condizione esistenziale ad un’altra.

di Francesco Domenico Capizzi

Nelle società industriali prevalgono le malattie cardio­vascolari, immunitarie, da stress, da inquinamenti ambientali, metaboliche, tumori, obesità, affezioni renali, lesioni traumatiche; nelle società sottosviluppate permangono le malattie infettive e disnutrizionali per insufficienze alimentari, igeni­co-sanitarie, abitative, fognarie, idriche, energetiche, mancanza di terre, di mezzi di produzione, attrezzi da lavoro, di sussistenza, ecc.

Malattia e salute, in sostanza, risultano strettamente connessi al contesto socio-politico-geografico-istituzionale in cui le persone vivono: nei Paesi ricchi la salute dipende attorno al 50-60% da differenti stili di vita e condizioni socio-eco­nomiche ed ambientali, al 20-30% a predisposizioni dell’organismo, spesso acquisite e dunque divenute predisponenti e addirittura ereditarie, al 10-15% a qualità delle prestazioni sanitarie.

Si tratta di interrelazioni intuite già in epoche lontane: Ippo­crate affermava che “la democrazia produce cittadini sani e la tirannia, al contrario, sudditi malati”, Platone sosteneva che “un agente esterno rende malato un corpo già debole”, Abu Ali Ibn Abdallah Ibn Sina, detto Avicenna, lasciava il suo principale contributo nel suo Canone, in cui si tratta della salute, in particolare della tisi, in termini di interazio­ne con le condizioni psicologiche e ambientali della persona; Alfano, della Scuola medica di Salerno, appuntava la sua attenzione alle origini sociali della malattia; Ahmad Ibn Rushd, detto Averroè, riteneva che le verità scientifiche siano soggette ad interpretazione a seconda del con­testo culturale in cui concretamente si vive; John Locke sosteneva che la cura e lo sviluppo del corpo e del pensiero individuale e collettivo debbano procedere di pari passo e a supporto della sua tesi citava La Repubblica di Platone, principalmente dove si afferma che “il male proviene dall’igno­ranza, dalla tirannia delle passioni, dall’eccesso di desiderio e di piacere, dal disequilibrio e dal disordine”; Bernardo Ramazzini, in De morbis artificum dia­triba, prototipo istitutivo della Medicina del lavoro, affermava l’origine igienico-sociale di molteplici malattie; il medesimo orientamento apparteneva a Peter Frank nelle sue lezioni all’Università di Pavia e a ragione di queste perseguitato, e poi la Rivoluzio­ne francese che intendeva abolire la Medicina e la necessità di nosocomi mediante il contrasto all’indigenza individuando un rapporto diretto fra malattia e contesto socio-economico; il grande patologo berlinese Rudolf Virchow esortava i medici “a trasformarsi nei migliori avvocati dei poveri” contro l’insorgere di malattie e poi a seguire Tullio e Manlio Rossi Doria, Giulio Maccacaro, Giovanni Berlinguer.

Un esempio illuminante nell’ambito clinico, nel pieno periodo positivista che tanto impulso conferì alla nascita e allo sviluppo della chirurgia moderna: il più famoso chirurgo russo, il pietroburghese Nicolàs Pirogoff, appena conclusosi il primo congresso internazionale celebrato a Vienna, scrive a Billroth, il più famoso dei chirurghi di fine ‘800, “Lei, caro Theodor, è il primo a dire tutta la verità sui risultati che la chirurgia è in grado di conseguire dispiegando un’analisi rigorosa dell’esperienza. Ha ragione Lei, stimatissimo Theodor, la chirurgia, che entrambi amiamo, deve essere considerata l’ultima difesa contro le malattie. La prima spetta ai progressi sociali e alle correzioni del modo di vivere”. Un secolo prima a Londra John Hunter lapidariamente sosteneva che “La Chirurgia è come un’azione armata che conquista con la forza ciò che una società civilizzata potrebbe ottenere mediante una strategia”.

Nella nostra epoca, pur ricca di Costituzioni e di Carte dei Diritti fondamentali a garanzia della persona, la salute, intesa come pieno benesse­re e non soltanto come assenza di malattia, non appartiene ai livelli elevati dei beni supremi a causa di una disattenzione generalizzata, dalla Medicina alla Politica ai Corpi intermedi alla cittadinanza, sugli stretti legami auspicabili fra progresso sociale e sviluppo economico, fra le grandi classi di malattie e la loro etio-patogenesi. Di conseguenza, le organizzazioni sanitarie incentrate su misure diagnostico-terapeutiche, essenziali per cercare di fronteggiare le pato­logie in atto e i relativi turbamenti, non possono soddisfare pienamente il diritto alla salute, non soltanto alle cure primarie né alle innumerevoli azioni mediche che scrutano svelano e combattono senza, nella realtà, incidere sulle ra­dici e, a volte, neppure sulla percezione di malattia da parte di chi ne è già affetto perché la propria consapevolezza varia in modo inversamente proporzionale a fattori sociali quali indigenza, solitudine, marginalità, ignoranza, precarietà…

Tutte considerazioni, di antiche origini quanto sagge e neglette, che la ma­turità delle esperienze, ormai sterminate, stratificate e stabili da de­cenni, dovrebbe rendere più sapienziale le organizzazioni sanitarie e le Istituzioni, la pratica clinica e la ricerca medica per le molte battaglie perdute, non per carenze deontologiche, tecniche, professionali o per insufficienze della rete sanitaria né per mancanza di nuove imponenti e raffinate tecnologie o di particolari farmaci e vaccini, ma per la scarsità di elementi resi espliciti che con­vincano le donne e gli uomini delle Istituzioni pubbliche e private a ri­formare la società nel suo modo di essere, di organizzarsi, di produrre, consumare e progredire in nome del contratto sociale e del bene comune unendo finalmente in un unico binomio inscindibile progresso e sviluppo.

Ma i bisogni fondamentali, fra cui spicca la salute, tendono a svanire a vantaggio di modalità crescenti produttive e di consumo che minaccia­no i diritti primari alla salute in cambio di consumi crescenti mentre la coscienza, individuale e collettiva, rischia di forgiarsi come semplice accessorio de­gli apparati economico-omnicomprensivi: le forze materiali sembrano dotarsi di vita spirituale mentre l’esistenza umana viene avvilita a forza materiale, con il rischio che gli strumenti e i loro prodotti dapprima vengano adoperati per soddi­sfare i bisogni, i quali giustificano l’acquisizione degli stru­menti, ma è il sistema dei bisogni che sopperisce allorché si ponga come ostacolo al sistema degli strumenti divenuti fonte di potere.

Francesco Domenico Capizzi

* Già docente di Chirurgia nell’Università di Bologna e direttore delle Chirurgie generali degli ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna


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