“Cattolici e Resistenza”. “Quella sporca dozzina di 12 sacerdoti” perseguitati: trattati al pari dei peggiori delinquenti comuni e rinchiusi in una cella nel carcere di Marassi e colà, dopo essere stati sottoposti a brutali e riprovevoli interrogatori, si trovarono costretti a soffrire violenze e sopportare angherie d’ogni sorta perpetrate con estrema ferocia e malvagità come racconta un testimone, l’ing. Adriano Guglielmi, alias “Pietro Sirte I”, delle Organizzazioni “Franchi” e “Stella”.
di Benito Poggio
Premessa- Quello della presenza operativa e della partecipazione fattiva dei Cattolici alla Resistenza, anche se ormai storicamente assodate e confermate, continua tuttavia ad essere (ed è), se non proprio, come sosterrebbe Fedro,”causa iurgii“, certo argomento assai controverso e assai dibattuto, soprattutto perché, a mio modo di vedere, ai Cattolici, per non averne mai sentita la necessità essendo la loro non un’adesione “di programma” (e di ideologia) ma un’adesione “di coscienza” (e di fede), è sempre venuta meno o, meglio ancora, è del tutto mancata la spinta all’eccesso dell’esaltazione retorica e dell’eroismo a tutti i costi delle loro azioni. Azioni che, dal punto di vista di uomini di concordia e di pace (“i pacifici” delle Beatitudini evangeliche) quali i Cattolici intendevano di essere, erano (e rimanevano) pur sempre azioni di violenza e di guerra – cui la loro coscienza e la loro fede si opponevano – contro nemici o avversari che, essendo tali e tali restando, non perdevano mai i connotati di prossimo.
Un esempio per tutti, in pieno accordo col comunista Giovanni Serbandini, detto “Bini”, è la figura del cattolico (in predicato d’essere beatificato) Aldo Gastaldi, noto col nome di battaglia “Bisagno“: i due diedero vita ad una formazione partigiana che confluì nella Divisione “Cichero” e diressero il periodico “Il Partigiano”.
Il comportamento dei Cattolici “resistenti“, intendo, al pari di quello delle migliaia di “martiri cristiani” vittime delle feroci persecuzioni sotto gli imperatori Diocleziano, Nerone e Domiziano, per citare le più cruente, non mirava né all’approvazione, né alla gloria su questa terra, ma teneva presente la finalità ultima dell’uomo che deve comportarsi ed essere, in ogni circostanza, “vir iustus“: giusto primamente agli occhi di Dio e coerente con la propria coscienza e con la propria fede. Vale a dire disposto sempre al perdono e alla riconciliazione. Compito arduo e difficile quant’altri mai, mi si dirà; ma possibile e realizzabile come esemplarmente dimostrò quella piccola e ristretta ma compatta e unita “comunità di Sacerdoti Cattolici” descritta nella pubblicazione di Adriano Guglielmi, oggetto del presente esame e della presente riflessione. Senza rispetto alcuno per la loro veste e per la loro missione, quei Sacerdoti furono trattati al pari dei peggiori delinquenti comuni e furono gettati e rinchiusi in una cella nel carcere di Marassi.
Colpendoli e abbrutendoli “in odium religionis“, si voleva debilitare, e soffocare se possibile, la forza delle loro testimonianze pubbliche, specie, ma non solo, nelle prediche domenicali tenute nelle rispettive chiese; testimonianze, sempre collegate al messaggio evangelico, cariche e dense di forti principi morali e di giustizia in grado di smascherare e di sgretolare le nequizie e le falsità delle teorie ideologiche in auge, vuoi fascistiche, vuoi nazistiche. Di loro ci dice, non per sentito dire, bensì per testimonianza diretta (essendo anch’egli rinchiuso nel medesimo carcere), l’ing. Adriano Guglielmi (alias “Pietro Sirte I” delle Organizzazioni “Franchi” e “Stella”), a quel tempo giovanissimo studente d’Ingegneria, il quale aveva ottenuto di essere trasferito in cella con loro e con loro ebbe a condividere le atroci e disumane sofferenze e con loro patì gli insopportabili e gravi disagi. Guglielmi aveva frequentato, a Genova, il rinomato Liceo Classico Statale “A. D’Oria” ed aveva avuto tra i suoi insegnanti quel don Giuseppe Siri, dapprima segretario del card. Pietro Boetto e in seguito arcivescovo di Genova, il quale aveva consigliato e spronato il giovane Guglielmi, a lui rivòltosi per consiglio, a lottare senza paura e secondo coscienza, per la libertà e per la giustizia.
Il contenuto del libro – La pubblicazione di cui dico e di cui, come anticipato, è autore-testimone proprio Adriano Guglielmi, è titolata “Sacerdoti Cattolici nella Resistenza” (La Spezia – Sarzana – Brugnato) ed è stata resa possibile grazie all’intervento dell’A.P.C. (Associazione Partigiani Cristiani) e alla sovvenzione della CA.RI.SPE (Cassa di Risparmio di La Spezia). Senza alcuna acrimonia e senza recriminazioni di sorta, l’autore l’ha fortemente voluta e amorevolmente curata tanto sul piano del “vero storico” quanto sul piano prettamente documentale; proprio lui che da sempre, con obiettività, si batte perchè emergano le eroiche virtù di sopportazione e di santità di “quel gruppetto di Sacerdoti”, con lui e con altri “420 rastrellati” nel territorio di La Spezia, detenuti nelle tetre e dure celle del carcere di Marassi a Genova, ov’erano stati condotti via mare per evitare che, sul passo del Bracco, i partigiani – come s’era sparsa notizia – tentassero di liberarli.
Quei religiosi non soltanto furono a lui di esempio e di sostegno, ma, com’egli ebbe a scrivere, “videro ogni loro atto coordinarsi nei disegni del loro Dio”. Il libretto, una cinquantina di pagine, non è altro, come afferma l’autore, che una lunga “Testimonianza di un compagno di prigionia“, tal quale l’autore si ritiene, confortata in aggiunta da “quanto appreso dalla lettura del Diario di Don Mario Devoto, integrato da quanto scritto da Padre Pio Rosso e da Don Bruno Duchini“.
A buon diritto e a tutti gli effetti, essa rientra, come l’altra opera dello stesso autore “ll piano inclinato”, EL (Editrice Liguria), Savona, nella cosiddetta “Letteratura resistenziale”. Vi si dice, con tutta l’obiettività e con tutto il distacco possibili, di come quei poveri Sacerdoti cattolici venissero, di continuo, si passi il termine, martirizzati e immotivatamente sottoposti a pesanti maltrattamenti con impietose battiture che provocarono lividure ed ecchimosi, costole rotte e ossa dissestate, mascelle massacrate e ginocchia frantumate, unite ad altri simili, si fa per dire, rudi complimenti tali da giungere fino al limite della vera e propria tortura: maltrattamenti che, per non rivelare alcunché e per non essere di danno ad alcuno, da quei santi e pazienti religiosi, autentici martiri, furono, “nel loro silenzio discreto”, accettati sempre “ad maiorem Dei gloriam” e per la conversione e il pentimento dei loro torturatori, nazisti o fascisti che fossero.
“Come i Dodici Apostoli”– Chi erano quei Sacerdoti la cui “presenza… – così come scrive il Guglielmi – era sentita da tutti nel carcere” e la cui “ora della preghiera collettiva era un momento che ritmava gradevolmente la giornata carceraria” ? Chi erano quei Sacerdoti, compagni di prigionia del giovanissimo Adriano Guglielmi, incarcerato assieme all’amico Leopoldo Gamberini, anch’egli, come il Guglielmi, ex-allievo del già nominato prestigioso Liceo Classico Statale “A. D’Oria” e anch’egli giovanissimo, ma già allora – lui destinato a diventare, qual è oggi, notissimo musicologo, compositore, docente universitario e fondatore dei “Madrigalisti Genovesi” – innamorato della musica al punto di formare, proprio all’interno del carcere, e dirigere, per le feste pasquali, un coro formato da altri prigionieri?
Nel libro si dice di quei Sacerdoti “singolarmente” e della loro forza d’animo e se talvolta si possono cogliere in alcuni segni di cedimento fisico, è da dire che mai essi cedono sul piano morale e mai in essi traspaiono sentimenti di paura o di vigliaccheria. Ma anch’essi sono e restano uomini e di ognuno di loro vengono tratteggiati anche i lati umani: dagli abiti goffi e rappezzati che indossavano sotto la veste talare all’obbligo mattutino di svuotare in gran fretta le catinelle d’alluminio e altri recipienti con la propria orina e i propri escrementi; dalle piccole e pervicaci manie notturne di fare il bucato per lavare alla meglio i poveri laceri indumenti e i calzini bucati alla generosa e non richiesta cessione di parte del misero rancio (altrimenti detta “sbobba”) fino, indossate con religiosa ufficialità le tonache per quanto sgualcite, lise e malridotte, alla recita vespertina delle preghiere e del canto di “qualche inno religioso popolare” dopo che, la sera, il carceriere era passato a “spegnere la fioca luce in ogni cella”.
Le accuse, a dire degli inquisitori inoppugnabili e cavillose, per sorprenderli e sequestrarli, schedarli e, data, si fa per dire, l’estrema gravità e fondatezza delle motivazioni addotte, gettarli senza alcuna preventiva istruttoria, senza alcun ulteriore interrogatorio o procedimento giudiziario e senza tanti complimenti direttamente in prigione, erano (se si esclude quella inventata di sana pianta di “nascondere depositi di armi nelle sacrestie”) sempre le stesse e riconducibili principalmente a due:
1) di aver aiutato e nascosto nelle loro chiese o nelle loro canoniche nuclei di “Ebrei”, non solo non rispettando, ma andando anzi contro quelle “Leggi razziali” imposte, a partire dal 1938, dal regime fascista;
2) di aver procurato cibo e conforto ai “ribelli partigiani”, agendo nella più palese illegalità e ponendosi così, e consapevolmente, a favore della parte avversa al legale regime dittatoriale. Ma certamente ci sarà chi si chiederà: “Come erano potuti finire tutti insieme, e in un unico blocco, nelle mani dei Fascisti e dei Nazisti?” Già autista dell’allora vescovo di La Spezia, Mons. Giovanni Costantini, tal Aurelio Gallo, allontanato dall’incarico per manifesta pedofilia e caduto anche in disgrazia delle autorità italo-tedesche del luogo, aveva voluto, per risalire la china, farsi bello agli occhi dei gerarchi nazi-fascisti locali e, prove alla mano di cui lui subdolamente era venuto a conoscenza in Arcivescovado, insieme ai nominativi di oltre quattrocento civili (uomini e donne d’ogni ceto e delle più varie professioni trasportati a Genova, come detto, via mare, dopo essere stati ammassati “nel ventre della bettolina… con gran celerità e brutalità”), da novello Giuda non solo aveva tradito, ma altresì aveva “soffiato“, per vendicarsi, i nomi di quei sacerdoti rei di aver prestato aiuto e sollievo, senza indagare o esigere “purezza di razza” o “tessera di partito“, a quanti erano venuti a trovarsi in gravi difficoltà o in situazioni di pericolo, Ebrei e Partigiani compresi.
Riuniti in carcere dapprima in un gruppo di dieci, tanti erano i Sacerdoti della Diocesi della Spezia presi contemporaneamente nella retata, a loro si aggiunsero quasi subito Don Gianluca Spadoni, parroco nella Diocesi di Massa-Carrara e Don Giovanni Battista Parodi, parroco di Cravasco, nella Diocesi di Genova. E fu così che quei Sacerdoti, proprio come era stato per i dodici Apostoli che s’erano adunati nel Cenacolo, si ritrovarono forzatamente adunati in dodici anch’essi, ammassati e “immagazzinati” (il termine è quello usato dall’autore) nella medesima cella, un po’ più grande delle altre e di “circa due metri per cinque“: tra gli uni, gli Apostoli nel Cenacolo, e tra gli altri, i Sacerdoti nella cella, la presenza confortatrice di Maria, spesso invocata con preghiere e canti, fu di massimo conforto e sollievo; così come sugli uni nell’evangelico “Cenacolo” e sugli altri nella “cella di Marassi“, rinnovato e autentico Cenacolo, l’assistenza ispiratrice dello Spirito Santo infuse il suo soffio vivificatore e la sua forza spirituale ed emise nei loro animi il suo vigore divino.
* I Sacerdoti, uno per uno – Come non fornire di seguito un brevissimo ritratto di ciascuno dei dodici Sacerdoti cattolici: dieci spezzini, un massese e un genovese? Essi, come già accennato, una volta caduti nella retata, erano stati tradotti nel supercarcere di Marassi a Genova, sorvegliati dalle SS armate e guardati a vista quasi si trattasse dei peggiori e più pericolosi malfattori, essendo essi considerati “rei soprattutto di non aver adeguato il loro ministero alle direttive di imposizioni della dittatura… perché con la loro chiarezza ed indipendenza di pensiero e di parola, ottenevano largo consenso infondendo in chi li seguiva dignità e coraggio… vizi imperdonabili per le dittature di qualsiasi colore esse siano”.
1) Padre Pio Rosso, che portava spesse lenti, era un domenicano, alto e massiccio, al quale i suoi benefattori, si fa per dire, avevano provveduto a dissestargli le ossa, a rompergli le costole e un ginocchio sì che procedeva claudicando; fu richiesto come confessore dal Guglielmi, allorché, “terrorizzato dal cattivo andamento dei suoi interrogatori”, il Guglielmi era convinto d’essere ormai prossimo alla sua fine.
2) Mons. Antonio Mori, parroco alla Scorza, “non alto e abbastanza minuto di persona, la faccia larga e pallida…, la bocca sottile, lo sguardo freddo e severo”, “grande educatore di giovani”, dotato di “una notevole forza d’animo” e in grado di “confortare o distrarre i suoi compagni di cella” abbandonandosi al racconto di lunghi aneddoti e interminabili fantasie. “I tedeschi e i repubblichini erano particolarmente attenti alle mosse di Don Mori e di Don Scarpato”, specialmente per “la sfacciata azione di protezione che svolgevano in difesa di Ebrei spezzini“.
3) Can. Giuseppe Pieroni, “un vecchio sacerdote, ex cappellano della milizia fascista, grassottello, con una faccia cotta dal sole e due occhi azzurri fanciullescamente maliziosi”, oggetto di… aneddoti e invenzioni da parte di Don Mori e che, la mente sconvolta, cedette allo sconforto, ma, prontamente soccorso dai confratelli e “aiutato dalla grazia di Dio”, ricuperò rassegnazione e serenità, come annota il Guglielmi, il quale, di fronte alla figura di don Pieroni, sacerdote che “per propria determinazione aveva accettato l’umiliazione e il dolore delle torture per non confessare”, esprime tutta la propria ammirazione nel momento in cui lo coglie “uomo come gli altri“.
4) Mons. Ferruccio Casabianca, “chiuso e dolentemente ieratico“, “alta figura avvolta dal lungo mantello consumato“, il quale, nell’ora d’aria concessa ogni quindici giorni dalle SS, “non passeggiava, ma si fermava ritto in un angolo… con i grandi occhi rassegnati che guardavano lontano”, in direzione di Sarzana, ove, “ignaro del suo arresto e della sua vicenda“, era morto suo padre.
5) Don Mario Devoto, “simpatico prete musicista“, è il sacerdote che rivela al Guglielmi l’umana sofferenza di Mons. Casabianca ed è ancora il sacerdote di cui Guglielmi ha l’opportunità di leggere il diario, “integrato da quanto scritto da Padre Pio Rosso e da Don Bruno Duchini“, che dà il supporto della verità e costituisce gran parte della presente testimonianza.
6) Don Giovanni Bertoni, parroco di Migliarina, era “uomo di poche parole”, “di statura normale, con i capelli corti, non poteva chiudere completamente la bocca, perchè la mandibola, sotto i colpi e le percosse ricevute, non combaciava più con i denti superiori”. Al suo riguardo Guglielmi precisa: “Non sentii mai da lui recriminazioni per quanto gli era successo. Sapevo dai suoi confratelli che era stato massacrato con particolare accanimento…”.
7) Don Bruno Duchini, “esile figura quasi serafica“, dalla “voce squillante in cui l’accento spezzino si sposava ad un linguaggio sonante e aulico”; “era noto per la chiarezza inequivocabile delle sue prediche in parrocchia nelle quali sosteneva i principi evangelici coraggiosamente incurante se apertamente in contrasto coi principi fascisti di violenza e razzismo“; egli, essendo giovane come Don Scarpato, viveva “un po’ all’ombra dei confratelli più anziani”.
8) Don Mario Scarpato e Don Bruno Duchini erano “i due più giovani e probabilmente più affamati“. “Figlio di un operaio, repubblicano per antica convinzione”, Don Scarpato, parroco di Pagliari, “aveva gravi reati sulla coscienza perché da anni svolgeva attività cospirative“: aiutava e confortava cioè, senza distinzione di colore politico o di razza, tutti quelli che a lui si rivolgevano, sicuri sempre della sua “segretezza”… tanto che lui e Don Mori “avevano materialmente aiutato” perfino quel tal Aurelio Gallo di cui s’è detto e che, subdolamente e con altri complici, “cercò prove per poter muovere accuse gravissime, quelle che allora venivano chiamate reati di sangue”: reati che, connessi con l’aiuto a Ebrei e Partigiani, erano considerati di vera e propria cospirazione e, generalmente, venivano pagati col piombo dei mitra o peggio con l’invio in vagoni piombati a Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Dachau, Auschwitz-Birkenau, ecc.”.
9) Don Vittorio Reali, “vocazione tardiva di un uomo risoluto e coraggioso”, già inviso ai tedeschi per “il libero parlare da lui spesso usato dall’altare“, mise tutto il suo impegno col prefetto Turchi in “trattative, spesso rischiose, per ottenere scambi di prigionieri tra tedeschi e partigiani“; fu altresì accusato, pretestuosamente e senza alcun fondamento di verità, di aver “nascosto un deposito d’armi nella sua sacrestia”.
10) Don Rinaldo Stretti, insieme a “un certo numero di intellettuali, dottori, avvocati, alcuni operai“, fu il prete scelto dal Gallo, che “cercò prove per poter muovere accuse gravissime” contro lui e contro gli altri, torturandoli e usando tutti i mezzi per far “loro confessare anche reati mai commessi”. Don Stretti, “previamente massacrato a dovere” e “spinto dalla volontà tedesca di operare in odium religionis”, fu letteralmente “terrorizzato” al punto che “arrivò ad indossare addirittura la divisa fascista” e fu portato “a falsamente testimoniare”, creando inspiegabile sconcerto specialmente tra i confratelli.
11) Don Gianluca Spadoni, “mandato in campo di concentramento” prima dell’entrata del Guglielmi “in canonica”, così il Guglielmi definiva la cella di Marassi affollata da, si fa per dire, “quella sporca dozzina” di… Sacerdoti, apparteneva alla Diocesi di Massa Carrara e, pur non rientrando nella famigerata e subdola “operazione Gallo”, era stato rinchiuso in carcere perché colpevole di alto tradimento in quanto “reo di essere stato il cappellano dei partigiani” prestando loro aiuto e conforto.
12) Don Giovanni Battista Parodi, arrestato per rappresaglia a seguito dell’uccisione di nove tedeschi proprio a Cravasco, il paesino della Val Polcevera ov’era parroco, venne sottoposto a “interminabili interrogatori al Comando prima, a Marassi poi“. Rinchiuso nel carcere di Marassi “prega in silenzio, prega sempre: per i cinque tedeschi uccisi (dallo scoppio di una bomba al cinema Odeon in via Vernazza), per i suoi parrocchiani lasciati al paese tra gli incendi e le razzie” e quando viene a sapere che, per ritorsione, 32 prigionieri politici rinchiusi nella IV sezione del carcere di Marassi e “18 partigiani (i martiri nell’eccidio della “Benedicta“) sono morti, fucilati, prega per loro”. Sopravvisse agli orrori della guerra e, alla sua morte, il card. Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, ebbe a dire di lui “non fece mai chiasso, ma fece bene tutto”.
* Conclusione – Occorre rievocare, prima di concludere, l’atto finale. Grazie all’intervento perentorio e alle indomite trattative col comando nazista dell’arcivescovo di Genova, card. Pietro Boetto e del suo giovane segretario Giuseppe Siri, fu Lasner, uno dei responsabili delle SS di stanza in città, ad annunciare “ai sacerdoti con nazistica impudenza che erano risultati innocenti, facendo loro le sue scuse e annunciando la loro immediata scarcerazione”. Il farsesco voltafaccia, che portò alla liberazione dei dodici Sacerdoti, “questi miti e terribili testimoni”, era l’esecrando frutto della “certezza che a La Spezia i repubblichini avrebbero provveduto nel proprio interesse a farli tacere per sempre”. Così non fu: da un coraggioso che percorse a piedi la distanza tra La Spezia e Genova, i preti furono avvisati di rimanere tassativamente a Genova, perché “a La Spezia si preparava per loro una trappola mortale”.
Ed essi, vissuti nascosti e in clandestinità fino alla liberazione di Genova, “il 5 maggio 1945 raggiunsero le loro parrocchie, che li accolsero con le loro campane nell’aria della primavera spezzina“. Si chiude così quella che, pur nella sua tragicità, si può metaforicamente definire “la favola bella” dei dodici Sacerdoti, autentiche personificazioni dei dodici Apostoli. Da parte mia penso che le numerose e qualificate testimonianze, che ho a lungo indagate e di cui ho dato conto con la massima fedeltà possibile, debbano risultare oltremodo preziose e oltremodo valide non solo e non tanto per chiarire, ma altresì, ove e qualora ce ne fosse bisogno, per giustificare la consistenza e avvalorare lo spessore dell’apporto dei Cattolici al grande evento storico della Resistenza: da parte dei “Laici” (e sono numerosi, oltre che noti a tutti), ma anche, come in questo caso specifico, da parte di “Sacerdoti” (forse non meno numerosi, ma, “fiaccole sotto il moggio”, assai meno noti).
L’autore, Adriano Guglielmi, all’epoca dei fatti narrati, come s’è già detto, poco più che ventenne, saggiamente osserva e saggiamente giunge a scrivere, di contro a tanto odierno “pensiero debole”, un “pensiero forte” e un concetto profondo pur se certamente già espresso da tanti altri che ebbero, prima di lui, a soffrire, immeritatamente, la durezza del carcere: “Solo quando si perde la libertà se ne afferra il valore nel suo significato più ampio”; e la sua validità va intesa tanto sul piano umano e civile quanto su quello morale e religioso. Sempre lui, l’allora giovane Guglielmi, francescanamente, con parole “clarite et belle“, chiude e conclude il suo scritto-testimonianza, mi sia consentito sostenerlo e riaffermarlo, dal contenuto e dal peso altamente storico: “Sono cattolico, e per me il seme vero della libertà l’ho scoperto in quella cella fra quei dodici preti, alla luce della loro dignità e fede”.
Benito Poggio
PS: Il libro. Adriano Guglielmi, Sacerdoti Cattolici nella Resistenza (La Spezia-Sarzana Brugnato), A.P.C. (Associazione Partigiani Cristiani) & CA.RI.SPE. (Cassa di Risparmio di La Spezia)