Sono soddisfazioni. O meglio, è la conferma che la chiave esplicativa da me proposta nel libro “Una storia di paese; le bombe di Savona 1974 – ‘75” per spiegare la genesi degli attentati (dodici esplosioni che colpirono Savona il suo circondario tra il 30 aprile 1974 e il 26 maggio 1975, causando due morti e decine di feriti) sta trovando delle conferme.
di Massimo Macciò
La teoria secondo la quale tutte o, almeno, molte delle bombe savonesi sarebbero state piazzate per “punire” Paolo Emilio Taviani (l’allora onnipotente ras democristiano, capo corrente dei ‘pontieri’ saldamente ancorato alla poltrona del Ministero degli Interni fino al 23 novembre 1974, data a partire dalla quale non metterà più piede in alcun governo della Repubblica) e per costringere l’ex segretario della DC a farsi da parte una volta per sempre era stata considerata da molti fantasiosa quando non addirittura palesemente campata in aria.
E, nonostante il successo editoriale del libro, continuava a rimanere imperante la narrazione ufficiale della “eroica” Savona scelta da occulti poteri golpisti come città-test per verificare la risposta della popolazione in vista di un colpo di Stato e la cui risposta (la vigilanza popolare, le manifestazioni, le ronde notturne attorno alle scuole, ai palazzi dell’amministrazione e quant’altro: tutte cose effettivamente accadute e di cui i savonesi possono andar fieri) avrebbe disorientato e scoraggiato i golpisti. Savona, insomma, avrebbe salvato l’Italia: una tesi bella e romantica ma, ahimè, senza l’ombra di una prova.
L’argomento era già stato affrontato da Franco Astengo in un penetrante articolo su Trucioli del 15 ottobre 2020 (vedi….) nel quale, senza sconfessare integralmente la sua idea circa la natura “locale” degli episodi savonesi, il politologo notava una serie di somiglianze tra quanto accaduto nella città tra il ’74 e il ’75 e la vicenda della strage di Piazza Fontana e delle altre esplosioni milanesi del 12 dicembre 1969: a suo avviso lo “schema d’intervento” (bombe d’intensità crescente, messe con l’intenzione non di uccidere ma di spaventare) sarebbe stato in parte lo stesso.
Ma oggi a a riconoscere più esplicitamente la verità o, quantomeno, la verosimiglianza della tesi esposta nel mio libro è oggi addirittura il giornale dell’ANPI “I Resistenti” che nel numero speciale uscito a fine 2020, in un articolo a firma Marcello Zinola, riprende in esame la vicenda delle bombe sulla base degli atti desecretati della Commissione Stragi del Parlamento e, in particolare, della testimonianza resa in quella sede nel 1997 da Paolo Emilio Taviani.
Nel colloquio “in seduta segreta” il ministro aveva ribadito di essersi convinto già tra il ’73 e l’inizio del ‘74 che una possibile svolta autoritaria potesse provenire solo dal terrorismo di destra, smentendo la teoria degli opposti estremismi di cui fino a qualche tempo prima era stato sostenitore. Il che, per inciso, collima con quanto detto da Taviani nel colloquio privato con un collaboratore e riportato nel mio libro.
Nell’articolo del periodico dell’ANPI si parla quindi chiaramente della possibilità che nel ’74 qualcuno abbia voluto “parlare a nuora (Savona, collegio elettorale di Taviani) perché suocera (il ministro) intenda”. Insomma, si sarebbe voluto colpire Savona per convincere il fondatore di Gladio a levarsi dai piedi. Il che, di nuovo, è quello che sostengo nel mio libro, peraltro con qualche aggiunta per spiegare chi e con quali ulteriori e più complesse motivazioni avrebbe messo le bombe. La scelta sarebbe ricaduta su Savona perché Genova, città natale di Taviani, sarebbe stato un obiettivo troppo rischioso “per la militarizzazione delle confuse operazioni antiterrorismo BR” e anche questa è una tesi chiaramente esplicitata già sedici mesi fa in “Una storia di paese”, di cui uscirà tra breve una nuova edizione aggiornata e arricchita con nuove foto e immagini.
Insomma: il fatto che qualcuno comici a pensare che le tesi prospettate nel mio volume – e, va ricordato, supportate non solo dalle clamorose dichiarazioni di Taviani ma anche da diversi riscontri nonché dalle tesi di un analista d’eccezione quale Vincenzo Vinciguerra – siano quantomeno verosimili rappresenta una novità (tanto più significativa se si pensa che al momento della presentazione del libro, a fine estate 2019, nessuno dei maggiori quotidiani locali in versione cartacea, con la sola eccezione della cronaca genovese di “Repubblica”, aveva scritto una riga sull’argomento) e deve anche essere il punto di partenza per ricominciare a leggere l’intera vicenda senza le lenti deformate dal campanilismo e del provincialismo.
A questo punto a chi vorrà indagare converrà riprendere e riconsiderare le parole di una serie di testimoni (tra i pochi indagatori ancora in vita, gli ambienti ecclesiastici, la massoneria) cui quasi nessuno ha finora seriamente consultato ma che avevano molto da dire, nonché riesaminare con grande attenzione quanto dichiarato dal Generale Nicolò Bozzo, che nel mio libro molte cose ha detto e molte altre ha lasciato intuire (e che mi ha dato innumerevoli consigli per instradarmi nella giusta direzione). E magari andare a riprendere nell’archivio della Questura un appunto di inizio novembre ‘74 e provare a partire da tutto ciò per arrivare oggi ad alcune conclusioni dalle quali gli inquirenti di allora si tennero accuratamente lontani.
Massimo Macciò