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Fratel Arturo Paoli, profeta vivente oltre la morte. A 101 anni fu ospite di papa Francesco e da missionario temeva di essere ucciso. Cambiava sempre stanza


La profezia vive. Anche dopo la morte (a 103 anni) del profeta. Nonostante l’apparente supremazia dell’organizzazione del potere clericale, «struttura di peccato» che genera connivenze corruttive, la spada affilata a doppio taglio dei profeti, anche se morti, si affonda nella carne viva della coscienza. Anche se morti?

di Paolo Farinella, prete

Arturo Paoli (Lucca, 30 novembre 1912 – Lucca, 13 luglio 2015) è stato un presbitero, religioso e missionario italiano, appartenente alla congregazione dei Piccoli Fratelli del Vangelo. Si è distinto per il suo impegno a favore degli ebrei perseguitati durante la seconda guerra mondiale. Arturo Paoli ha incontrato papa Francesco. Ne dava notizia, con un post su Facebook, il filosofo e teologo Vito Mancuso: «Vengo a sapere che papa Francesco ha ricevuto questa sera Arturo Paoli, 101 anni e padre spirituale della Teologia della liberazione.  Fratel Paoli è storicamente legato all’America Latina, visto che per gran parte della sua vita, dopo l’ordinazione, ha vissuto proprio in quel continente, soprattutto in Venezuela e Argentina, il paese di provenienza del pontefice.

Forse sarebbe meglio dire «specialmente se» morti, perché la Parola di Dio, che il profeta custodisce senza tornaconto per sé, è inarrestabile. Può essere ritardata o imbrigliata, ma mai tacitata, perché «le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma di dio!» (Ct 8,6). La profezia scritta che scende sempre dal monte Sìnai e dal monte Gòlgota, è il nuovo nome dell’Amore perché si compie in una relazione feconda, generativa.

Con il suo grido pacato e forte, il profeta scardina l’ovvietà banale della religione, costringendoci a tornare «al principio» di noi stessi, alle profondità del «Dio nascosto», così diverso dal «dio noto» cui siamo abituati, dimenticandone il volto, fino a farne un idolo a nostra immagine. Siamo sicuri che il «dio nostro», il «dio cattolico» che ci accaniamo a sventolare come trofeo o arma contundente contro «gli altri», sia il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 15,6)?

Dubitare possiamo, interrogarci dobbiamo, confortati dal magistero del concilio Vaticano II, punto di non ritorno, sebbene non più sufficiente: «Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio»

Il libro che presentiamo è la prova fisica e centellinata di quanto appena affermato. A cinque anni dalla morte di Fratel Arturo Paoli (2015), per l’infaticabile e faticosa opera di Dino Biggio che ha ricevuto verbalmente e per testamento da lui l’investitura di «autentico interprete del suo pensiero», vede la luce il 3° volume –Anno liturgico B –della trilogia delle «Omelie domenicali di Fratel Arturo», registrate da Dino Biggio o da altri che ne hanno fatto dono.

In questo modo, Dino Biggio ha messo a disposizione delle generazioni future le dodici ceste di pane avanzato della Parola, ruminata dal profeta Arturo Paoli e lasciata libera per le vie del mondo, a disposizione di un pubblico sempre più numeroso. Il libro non riporta solo il pensiero di Fratel Arturo, ma la sua anima e il suo sogno di realizzare il progetto di Gesù che Teilhard de Chardin definisce con «amouriserle monde»e che Fratel Arturo rende con «amorizzare il mondo», cioè rendere amore il mondo.

Illusione o profezia? Solo i pazzi e i profeti, specialmente se sono scienziati he «ascoltano» senza pregiudizi, specialmente religiosi, il cosmo, la storia e in essa l’umanità che aspira alla felicità che solo con l’amore si può raggiungere. Il libro contiene cinquantotto scintille o colpi di spada che feriscono senza uccidere, ma «nutrono la vita», espressione amata da Fratel Arturo e tema del prezioso libretto di François Jullien Nutrire la vita (Raffaello Cortina Editore, Milano 2006).

Amorizzare e nutrire sono l’essenza stessa dell’esistenza e se siamo capaci di superare il velo della superficialità scopriamo che ogni omelia, sempre affilata e dolce, obbliga a pensare e induce a riformulare i fondamentali del proprio vivere non «come pezzi staccati dagli altri», perché se ci crogioliamo nell’isolamento dell’egoismo, inevitabilmente ci costringiamo «a vivere staccati dall’Altro».

Gli scritti di Arturo Paoli, in modo particolare le Omelie, non si possono leggere pacatamente; esse devono essere ingurgitate come si fa con un bicchiere d’acqua fresca, dopo una esperienza di afa disidratante. La lettura porta istintivamente a pensare alla tradizione giudaica:«È stato insegnato nella scuola di Rabbì Ishmaèl: “Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia?” (Ger 23,29).

Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in settanta lingue (bShabbàt 88b). Un maestro della scuola di Rabbì Ishmaèl ha insegnato: “Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia?” (Ger 23,29).

Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure un solo passo scritturistico dà luogo a dei sensi molteplici» (bSanhedrin34a). Non sembri irriverente la citazione, perché Arturo Paoli è un vero martello che picchia sulla Parola perché si è lasciato forgiare dal suo fuoco, bruciando ogni resta per salvare solo la nudità della profezia che non è mai stata una sua scelta (i professionisti che si autoproclamano profeti sono poveri malati psichici), ma un «impegno» ricevuto dall’alto, un’investitura da lui accolta come docile e resistente strumento di quella formidabile incudine che è lo Spirito del Signore risorto.

La caratteristica fondamentale del profeta «chiamato» è la fedeltà nella buona e nella cattiva sorte, nella gioia e nel dolore, nell’angoscia e nella pace. Fratel Arturo, perseguitato e ricercato dai regimi militari fascisti di molti Paesi latinoamericani, per più di 35 anni non dormì mai due notti consecutive nello stesso letto, costretto come Elia a sfuggire alla polizia della regina. Gezabèle di turno (1Re 19,1-8, qui 3), fuggiasco per tutta l’America Latina.

La stessa chiesa istituzionale lo emarginò fin da quando si accorse che egli non sarebbe mai stato un funzionario, «servo volontario» ma un profeta a tutto tondo. La Chiesa di Pio XII ebbe paura di lui e, terrorizzata che potesse disturbare il nascente connubio tra il clericalismo e l’affarismo democristiano, pensò di renderlo innocuo, inviandolo lontano, in quell’America Latina, allora considerata poco meno di niente. Quella terra «alla fine del mondo», invece, fu il terreno buono seminato anche da Fratel Arturo che così, senza averne coscienza, contribuì alla nascita e alla crescita di un virgulto che, «quando venne la pienezza del tempo» (Gal 4,4), fu trapiantato nella Chiesa e nel mondo col nome di Papa Francesco. Il quale Papa Francesco, prima che Fratel Arturo morisse, ormai all’età di 101 anni, volle riceverlo in Vaticano a Santa Marta, tenendolo con per due giorni.

Spesso, molto spesso, i nemici del regno di Dio, servi prezzolati del principe del mondo, amici e sodali delle polizie del potere economico e politico, avevano capito chi fosse Arturo Paoli: un rivoluzionario pericoloso che, senza armi, provocava il senso del terrore di chi ha paura delle coscienze libere e serve della Parola. La parola di Arturo, eco della Parola spaventava il potere, i potenti e i loro scherani clericali, che, mansueti, si mettevano a disposizione per l’ordine e la tranquillità: «Dio Patria e Famiglia», logo dell’egoismo miscredente e dell’immoralità senza freno. Senza alcuna capacità di leggere «i segni dei tempi», costoro, sacerdoti del potere, a qualunque costo, credettero di liberarsene, invece posero fratel Arturo in una condizione privilegiata, quella del Vangelo: lo collocarono nel cuore della povertà, che fu la cattedra della sua vita di profeta.

Posseduto dalla Parola, seppe arrivare alla coscienza dei poveri, il sacramento di Cristo povero e disprezzato, gli unici capaci di «amorizzare il mondo» perché liberi dalla sete di dominio e di sopraffazione. Egli divenne sempre più una cosa sola con la Parola e con i Poveri, i due «luoghi» storici e teologici essenziali della natura di Dio, una miscela che ha sempre terrorizzato «il mondo» anti-Dio. Seguire l’Anno liturgico B alla scuola mite, umile e rivoluzionaria di Arturo Paoli non significa ascoltare un commento, ma spezzare col Pane la vita, con la vita il progetto del «regno di Dio» (un modo nuovo di relazionarsi tra i singoli e tra i popoli) e col progetto la solidarietà universale con tutti i poveri del mondo, il sacramento che Gesù ha lasciato a noi perché lo custodissimo e lo coltivassimo come protagonista del regno che è già qui.

In questa visione, Arturo fu discepolo di un altro grande profeta, Teilhard de Chardin (1881-1955), di cui sintetizzò l’intera opera, come abbiamo già accennato, nella frase con cui il grande scienziato concentrò l’opera e l’insegnamento (detti e fatti) di Gesù e che il vangelo chiama «regno di Dio»: «amouriser le monde –amorizzare il mondo». Teilhard ebbe il dono della visione dell’universo come «evoluzione» che partendo dalla cosmogenesi (nascita della materia) si predispone alla biogenesi (nascita della vita) che matura in noogenesi (sviluppo del pensiero) verso la conclusione logica ed escatologica della cristogenesi (nascita dello Spirito) che si acquieta nel fine escatologico del «Cristo Omega».

La Chiesa è colpevole della separazione peccaminosa della fede dalla scienza, creando un abisso di ostilità, in epoca moderna dalla condanna di Galileo e non valgono né hanno senso le riabilitazioni postume, a distanza di secoli. Fu la sorte anche di Teilhard de Chardin, vessato, condannato al silenzio da persone ignoranti, esperti solo di apparenze e convenienze. Verrà un giorno in cui inevitabilmente la scienza e la fede dovranno parlare la stessa lingua e vedere lo stesso orizzonte e camminare verso lo stesso scopo, percorrendo insieme le vie della ragione e della scienza, alla ricerca di quel senso di vita che la religione non può dare perché offuscata dall’idolatria di un dio a propria immagine e somiglianza.

Arturo Paoli visse immerso in questa visione, non per via di scienza, ma di conoscenza in quanto totalmente perduto nell’intimità di Dio in una relazione personale notturna che non è dato a nessuno sondare, ma solo allo Spirito che l’ha resa possibile e praticabile per Arturo. Nella 3a domenica del Tempo Ordinario dell’anno B, Arturo Paoli dice: «Accenno solamente a un grande pensatore che ha capito questo, un pensatore teologo, filosofo, scienziato, che come già sapete –perché lo cito spesso –si chiama Teilhard de Chardin. Egli è partito da quella grandiosa sinfonia che è la Lettera ai Romani, dove ha scoperto il Cristo universale, non il Cristo che esige una certa fede e una certa religione, ma il Cristo furono udite molte[parole]. 

Le parole sprizzano rivoluzione da ogni sillaba: «non il Cristo che esige una certa fede e una certa religione, ma il Cristo che è la grande forza che porta il mondo nella sua comunione». Siamo oltre la religione, oltre l’idolatria dei riti, restiamo solo immersi nell’immensità dell’universalità che comprende non solo il mondo conosciuto, ma anche il cosmo intero di cui ben poco, che pure è molto, sappiamo balbettare. Come Lazzaro della parabola lucana, dobbiamo accontentarci delle briciole che cadono da questa mensa e –possiamo constatarlo direttamente –le briciole si trasformano in pezzi di pane abbondante per chi ascolta; e ne avanza anche per gli altri che verranno.Gesù travolge e sconvolge ogni forma di religiosità frutto della mercanzia come baratto con il «divino» misterioso per il bisogno di protezione e la garanzia dai mali esterni, per obbligarci a entrare in un mondo «ignoto», nel cuore di quel «dio ignoto» di cui Paolo parla ad Atene (At 17,23), cercando inutilmente di definirne il nome per gli Ateniesi che avevano altro cui pensare.

Il Gesù di Arturo Paoli –che poi è il Gesù dei vangeli –è la Solidarietà incarnata che «assume e libera» la forza dirompente dell’incarnazione, come fratel Arturo la intende:«Il Vangelo parla dei “giorni della sua vita nella carne”, perché Gesù ha vissuto il dolore del mondo proprio nella sua carne, nelle cellule del suo corpo. Per questo si dice che “egli portò i nostri dolori” o, come dice Isaia “egli si caricò delle nostre colpe”. Pertanto quando pensiamo che la nostra preghiera molte volte nasce dal bisogno di chiedere al Signore un favore, piccolo o grande –come quello di ridare la salute a una persona cara, o che la lasci ancora con noi –in quel momento siamo molto tristi e ci cadono anche le lacrime, ma non possiamo mai, se non per un cammino contemplativo, sentire nella nostra carne il dolore del mondo».

Ciò che colpisce nella lettura di tutte le omelie è la sintesi magistrale tra spiritualità e teologia, tra aderenza al testo biblico e anelito dello spirito, tra esperienza e formazione teologica, perché da vero maestro –chiedo perdono ad Arturo perché mai si definirebbe così –in quanto autentico discepolo, mentre prega fa catechesi, mentre contempla spiega la teologia rendendola accessibile a tutti, aprendo i tesori della scienza e spargendola a piene mani, senza paura di restarne privo.

Il discepolo del Signore sa che solo perdendosi trova la pienezza e il senso della vita che non può essere banalizzato giocando a fare i «cristiani da pasticceria» (Papa Francesco). Arturo sa che varcare la soglia dell’Eucaristia è «scegliere», anzi decidersi, o meglio «convertirsi», cioè cercare e trovare «il senso della vita»:«Io vado in Chiesa per sacrificare all’idolo, per scacciare le mie paure, o per esprimere i miei desideri, i miei bisogni, insomma per ricevere qualcosa. No, questo non è vero, anzi è falso!

Partecipo alla liturgia “per impegnarmi” a collaborare al progetto che mi è dato, che mi è consegnato, di Amorizzare il mondo. E ascoltatemi bene. Se non ho voglia d’esser serio, di voler prendere coscienza di questo progetto, con la volontà di assumerlo e di dare il mio aiuto per realizzarlo, è molto meglio star fuori a prendere il sole, quando c’è! E quindi più che chiedere… chiedere… chiedere… “ho bisogno di questo, o di quest’altro”, e anziché andare alla ricerca del Santo protettore dei tumori, per invocarlo e chiedere il suo intervento, dobbiamo fermarci a riflettere seriamente».

Alla fine della lettura, con in bocca il sapore e nel cuore il gusto atteso da sempre, ciascuno può sperimentare nel proprio pozzo profondo e nell’anelito di un desiderio struggente che «se avete trovato veramente il senso dell’amore, avete trovato il senso della felicità»

Buona lettura in compagnia di Fratel Arturo Paoli, profeta vivente, oltre la morte.

Paolo Farinella, prete


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P. Farinella

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