Ci risiamo. La barzelletta triste della “didattica a distanza”, quella faccenda per cui, in sintesi, gli studenti italiani avrebbero imparato più e meglio se avessero evitato di guardare il loro professore vis a vis, sembrava definitivamente tramontata.
di Franca Giacobbe
La Dad era partita in pompa magna a marzo, sponsorizzata a tutto spiano dalla ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina che dal palco delle trasmissioni di Fabio Fazio, di Enrico Mentana o di altri spettacoli consimili (che a tutti gli effetti hanno ormai sostituito la Gazzetta Ufficiale) aveva dichiarato urbi ed orbi che l’insegnamento da remoto sarebbe diventata una modalità obbligatoria per i docenti in tempo di coronavirus lasciando intendere, se abbiamo capito bene (ma le notizie di questi giorni sembrano confermarlo) che da quel momento sarebbe potuta diventare anche una pratica “ordinaria” per l’insegnamento e cioè una strategia da utilizzare obbligatoriamente anche fuori dalla stagione maledetta del CoVid.
Da quel momento tutti (o quasi) erano corsi a incensare lo smart learning, la didattica telematica, l’insegnamento virtuale e via pontificando. Chi obiettava che quella di fare lezioni “da remoto” non era stata una scelta programmata ma una drammatica necessità imposta da un giorno all’altro dalla pandemia, che la scuola non era minimamente attrezzato per la Dad, che le strutture telematiche, le piattaforme, gli stessi dispositivi in mano a studenti e professori erano distribuiti in modo ineguale e molto spesso assolutamente inadeguati allo scopo (e che nessuno si era preoccupato di formare studenti, docenti e personale ad un cambio di rotta così radicale) era stato accusato di essere un passatista refrattario alle novità, un fannullone preoccupato soltanto di evitare il nuovo verbo educativo e di voler seppellire i propri studenti dentro la bara della didattica tradizionale ma che da marzo in poi non avrebbe più potuto rifiutarsi di aggiornarsi e di affrontare il nuovo mondo della scuola virtuale, e altre amenità del genere.
A distanza di tre mesi o poco più sembrava che tutti o quasi avessero cambiato idea o, più banalmente che anche gli ultras delle lezioni virtuali si fossero accorti, magari loro malgrado, di alcuni problemi molto semplici: che la scuola non è tecnologicamente attrezzata per passare dalla didattica tradizionale a quella a distanza che la Dad è tutt’altra cosa che “fare lezione” attraverso una videocamera.
E che, soprattutto, la scuola a qualsiasi livello è innanzitutto una comunità educativa e che lo smart working non funziona quando viene maldestramente applicato al settore dell’istruzione primaria e secondaria dove il contatto umano , il “faccia a faccia”, l’interazione con i compagni e con tutti i protagonisti della vita scolastica e perfino le stesse liturgie scolastiche (la paura dell’interrogazione, il bigliettino nel compito in classe) contribuiscono a ricreare quel “teatro complessivo” nel quale il ragazzo cresce sia sul piano della conoscenza sia, soprattutto, dal lato umano.
In questi tre mesi se ne sono accorti sulla propria pelle innanzitutto i professori, che hanno dovuto letteralmente inventare una nuova modalità di comunicazione educativa, stravolgere completamente e proprie programmazioni, gli obiettivi e le modalità di erogazione dei contenuti didattici, sperimentare nuove modalità di dialogo con gli studenti e con i loro genitori, ritarare voti e valutazioni e così via ingoiando alla fine una serie di “promozioni a prescindere” che certo non forniscono un buon esempio educativo.
Ma, soprattutto, i professori hanno dovuto “imparare sul campo” l’informatica applicata alla scuola districandosi tra Zoom, Webex, Jiit.si e altri rutilanti piattaforme (spesso care come il chinino per le scuole) in mezzo a connessioni che saltavano continuamente, a eccessi di carico che costringevano spesso a concludere via Whatsapp la videoconferenza iniziata in pompa magna sul computer, a faccine di studenti che comparivano e sparivano sul più bello e così via.
Se n’è accorto anche tutto il personale, a particolare dai collaboratori scolastici il cui numero si assottiglia sempre di più (e già in epoca pre-CoVid non erano numericamente più in grado di assicurare la manutenzione ordinaria delle strutture) e che dall’oggi al domani sono assurti al ruolo di “sanificatori della patria scolastica” e di architetti e designer per riorganizzare gli spazi al tempo della crisi. Se ne sono accorti gli stessi dirigenti scolastici , che hanno avuto dal ministero il mandato diretto (leggi: ordine) di garantire l’obbligo della Didattica a distanza per i docenti (e anche questo puzza d’incostituzionalità da molti punti di vista) e che da quel momento sono stati costretti a tradurre circolari ministeriali senza capo né coda, a districarsi telefonicamente tra venditori di piattaforme informatiche (più o meno adattate) a peso d’oro e spesso a diventare – loro sì “itineranti” – per portare tablet in comodato d’uso allo studente di qualche valle dimenticata o appena arrivato su un barcone dalla Libia e dintorni con in tasca sì e no un vecchio cellulare a tastiera.
E, infine, se ne sono accorti, a cascata, gli studenti, almeno quelli – non tutti, ma moltissimi – che hanno continuato a prendere sul serio la scuola anche in tempi di CoVid e che hanno sperimentato sulla propria pelle non soltanto l’assenza – straziante ma inevitabile – dei compagni di scuola ma anche tutte le disfunzioni, i disservizi, l’inadeguatezza della rete informatica dedicata all’istruzione. Con un rischio che è diventato una triste realtà: uno studente su quattro non ha potuto seguire le lezioni a distanza e l’abbandono scolastico è salito a livelli da tempo sconosciuti.
Si è ricreata la vecchia “scuola di classe”: quella, cioè, in cui il figlio del ricco – che aveva o poteva comprarsi gli abbonamenti alle piattaforme, le Fibre e e tutti gli strumenti informatici di ultima generazione – andava avanti, mentre il figlio del povero ed il suo Nokia a pulsanti dovevano farsi da parte. Il che, per inciso, è l’esatto contrario di quanto scritto al secondo comma dell’articolo tre della nostra Costituzione. Sarà un caso, tra l’altro, che i primi a voler tornare alla scuola “in presenza” siano proprio gli studenti?
Insomma: all’inizio di giugno sembravano tutti d’accordo sulla necessità di rientrare, quanto prima possibile, sui banchi (fisici) di scuola. E invece Lucia Azzolina in alcune interviste dell’ultima ora è tornata alla carica e ha rilanciato l’idea della “Didattica mista” (a turno, metà degli studenti in classe e metà a casa davanti al computer) il che, tra l’altro, senza un numero significativo di assunzioni di docenti, collaboratori e ATA comporta inevitabilmente anche l’obbligo dei doppi turni per tutto il personale. In un certo senso la ministra è stata obbligata a fare queste dichiarazioni: il piano preparato dal suo ministero per dimezzare il numero di alunni per classe così da rispettare la “distanza sociale” imposta dal Comitato Tecnico Scientifico, stabilire ingressi e uscite differenziati per gli studenti, riorganizzare gli spazi interni e trovare quelli esterni (e procurarsi le mascherine e i tamponi necessari, e provvedere a una sanificazione continua e organizzata, e trovare il plexiglas per impedire i contatti, e fare in modo che gli allievi e i professori siano dotati di visiera, e pensare ai trasporti degli studenti e…) si sta scontrando con due problemi: non ci sono i soldi (in provincia di Savona gli organici scolastici dell’anno che sta per iniziare sono stati addirittura tagliati rispetto a quelli del periodo appena concluso) e, soprattutto, non ci sono i tempi: il pensiero di costruire in due mesi molti edifici scolastici ex novo e di riorganizzare l’edilizia di quelli esistenti per farli diventare “a prova di CoVid” si commenta da sola. Se ne sono accorte le Regioni, che all’inizio di questa settimana hanno rinviato di una settimana la pubblicazione delle Linee-Guida per la ripresa delle lezioni. E alla fine anche la ministra ha dovuto far rientrare dalla finestra un’idea (quella della “Didattica mista”) già bocciata da tutti.
Intendiamoci: i docenti sono i primi a sapere che in un momento di improvvisa e assoluta emergenza quale quello che abbiamo attraversato, – e che forse non è ancora finito – “si fa quel che si può” e quindi sono stati pronti (e, se necessario, lo saranno ancora) a reinventarsi esperti di informatica, innovatori della didattica, comunicatori virtuali e così via per superare questa maledetta pandemia. Ma un’emergenza non può diventare la normalità solo per il fatto di essere stata forzatamente usata “in stato di necessità”: quella della Didattica a distanza rimane tutt’al più un anestetico, un espediente per mandare avanti la scuola in un momento in cui tutto il resto era vietato. E se diventa qualcos’altro c’è da aver paura.
La stessa “Didattica mista” veicolata da Azzolina con la sua “politica dell’annuncio” oltre a non essere una soluzione alla dispersone e alla democrazia scolastica può diventare un mezzo di controllo dell’attività del docente, una limitazione della sua libertà personale, un mezzo per imporgli un orario “h 24” a disposizione della scuola e introdurre, magari, l’idea del “docente unico” (un solo professore per tutti gli studenti savonesi o liguri dello stesso anno e della stessa materia, collegati via Web) di cui nessuno parla ancora ad alta voce ma che è già comparsa in qualche riunione sindacale: sarebbe un bel risparmio per le italiche finanze e un solenne funerale per la scuola pubblica italiana.
Alla fine la soluzione potrebbe averla trovata un docente particolarmente perspicace (incontrato “virtualmente” in questi giorni), e ancora una volta è l’uovo di Colombo: visto che la Dad non funziona ma che le scuole non sono preparate per accogliere gli studenti rispettando le norme anticoronavirus, si stabilirà per decreto che dal primo settembre il CoVid non esiste più e tutto tornerà – mascherina più, mascherina meno – come prima della pandemia. Con tanto di firma del ministro e diffusione sulla nuova Gazzetta Ufficiale. E cioè a “Che tempo che fa”.
Franca Giacobbe