Ha scelto la solennità del Corpus Domini. Padre Massimo Isacco, l’eremita di Nava, si è presentato alla comunità dei fedeli di Ubaga, antichissimo borgo della Valle Arroscia, arroccato sul crinale che scende dal monte Spèndega e quasi precipita sull’Arroscia. Fu uno dei comuni più fiorenti della valle fino al 1876. E ora si è arricchito dell’eremo, nel bosco, dove si è trasferito il sacerdote, unico rimasto in Liguria, che ha scelto la vita anacoreta. E’ stato accolto dal parroco don Marek (Marco) Michalski, con il benvenuto della comunità ed ha concelebrato la Santa Messa pomeridiana.
di Luciano Corrado
“Le maschere di Upaga” (custodite nel ricco museo a Pieve di Teco) hanno dato notorietà al paese, ora prediletto dall’eremita, che con Regio Decreto del 23 dicembre 1876, conseguente all’unificazione nazionale (1865), e al riordino dell’amministrazione territoriale, venne soppresso ed aggregato al Comune di Borghetto D’Arroscia. Non ci sono negozi, bar, trattorie, campi di calcetto. Un solo Bed&Breakfast, resistono case di pietra a vista, il fascino del borgo, la quiete e il relax di madre natura, strade senza traffico, giorni festivi segnati dal suono delle campane e dalla chiesa come unico luogo di aggregazione sociale.
Non c’era folla, non c’erano autorità ad accogliere il neo concittadino. Un ingresso in punta di piedi, silenzioso, senza riflettori mediatici, così come è stata fino ad oggi la vita ‘monastica’,
solitaria, umile e d’altri tempi, di Padre Isacco. L’avevamo incontrato diverse volte, nel corso della sua ultra ventennale permanenza nell’eremo di Nava. Non ha mai cambiato le abitudini, il suo proporsi con i ‘visitatori’ e curiosi: riservatezza, distacco, solitudine, preghiera, meditazione, studio dei testi sacri, recita antica del Breviario romano, celebrazione mattutina della Santa Messa, il rosario, l’Ave Maria.
Una volta in settimana era solito raggiungere Nava (mezzora a piedi) per recarsi all’Ufficio postale o fare la provvista di alimentari. Attorno all’eremo, senza Tv, radio, con luce e acqua, coltivava un orticello che si è rivelato il ‘casus belli’e ha determinato la scelta di lasciare quella dimora: “L’eremo diocesano N.S. Porta del Cielo”. Una croce, un cippo, una piccola campana, lungo una strada sterrata e in salita, vista sulle Alpi, in lontananza la Madonna del Fronté e la superba secolare statua del Redentore sul Saccarello. Tutto invitava a pregare e rispettare il silenzio. Purtroppo è accaduto ciò che nessuno immaginava e che, a Nava, c’è chi
commenta con amarezza: “frutto di cattiveria“. Don Isacco durante la bella stagione, quella dei pascoli, avrebbe subito l’invasione del suo orto di animali di una giovane e laboriosa coppia di Pornassio. Gli unici pastori che, tra l’altro, provvedono ancora a tagliare il fieno nei prati anche nella ‘piana’ di Nava. Incomprensioni, piccoli danneggiamenti, la presenza di cani forse non troppo rassicuranti e in conflitto con un gatto nero che teneva compagnia al religioso ?
Era il 12 luglio 2018 quando trucioli.it pubblicava: “L’eremita di Nava dopo 21 anni lascia. Si rifugia a Lavina, stanco di sgarbi e soprusi ? Sono intervenuti i carabinieri, tutto inutile (vedi……con 1760 visualizzazioni.). Una voce dal silenzio. Un eremita sui monti liguri che non è una star della Tv, né dei media ed ha sempre rifiutato interviste, dichiarazione. Con rispetto ed educazione. Padre Massimo Isacco Sturla, natali a Voghera, oggi 59 autunni il 22 settembre. Allora la notizia era che lasciva l’Eremo Nostra Signora del Cielo, a Nava di Pornassio, per trasferirsi a Lavina di Rezzo, nella
cappella oratorio di San Colombano (sorta nel 1500) dedicata al famoso monaco irlandese che fondò l’Abbazia di Bobbio. Nella nuova dimora don Isacco avrebbe voluto accontentarsi di una capanna esterna, poi ha scelto di far sistemare il pronao (con coibentazione) e dare spazio alla sua inseparabile libreria. Sulla decisione (irrevocabile) di trasferirsi, rimanendo in Valle Arroscia, c’era il beneplacito del Vescovo, la fattiva collaborazione del Vicariato di Pieve di Teco, la prima buona accoglienza dei lavinesi ancora ‘feriti’ dalla disastrosa e spettacolare frana alluvionale del novembre 2016. E anche il maresciallo dei carabinieri di Nava era fiducioso: riuscirò a metterci una buona parola e convincerlo, si è trattato solo di screzi banali e di vicinato. Insomma non era detta l’ultima parola anche perchè quell’eremita era meta di piccoli pellegrinaggi. Diciamo un’attrazione – promozione per l’ex capitale della lavanda di alta valle.
A Lavina, anche a causa delle frane, don Isacco ha finito rinunciare. E l’alternativa è stata Ubaga dove accanto ad una vecchia legnaia in pietra è stato realizzato un sorta di bungalow in legno. Si raggiunge attraverso un sentiero mulattiera carrabile, nel bosco, nella zona dove si trovano il camposanto del paese e la chiesetta dell’Assunta. E’ qui che la mattina presto don Isacco continuerà a celebrare in privato la Messa.
Ha lasciato Nava con nostalgia, con rammarico ? Abbiamo avvicinato l’eremita mentre sul sagrato della chiesa parrocchiale di Sant’Antonio Abate (custodisce un prezioso polittico coevo del maestro Pietro Guido del 1537 e un fonte battesimale in pietra del 1507) riceveva il caloroso benvenuto della pia ‘decana’ del paese e una sincera stretta di mano. “E’ la divina Provvidenza che l’ha voluto – risponde all’anziano cronista con voce flebile -, devo ringraziare Iddio e quanti hanno collaborato al mio trasferimento….un angolo meraviglioso di natura e di tranquillità…felice dell’accoglienza e delle benevolenza del parroco e mi sono pure ripreso da qualche acciacco….”. Don Marek, durante la Messa, l’ha presentato ai fedeli, poco più di una ventina, rivolendogli parole di augurio e fratellanza in Cristo, una presenza significativa per la comunità cristiana.
Nell’antichissimo idioma ligure ‘Ubagu‘ designava località fredde e selvagge, impervie e boscose, esposte a settentrione. Intorno al centro di Ubaga, i villaggi di Costa, Ubaghetta e Montecalvo dove il 16 giugno 2019 ha fatto visita alla comunità il vescovo Guglielmo Borghetti; era dal 1992 che un presule non faceva il suo ingresso nella parrocchia dove un tempo fu parroco don Leandro Caviglia di Vessalico che era vice rettore in Seminario ad Albenga e era solito spostarsi in Vespa. Poi gli fu affidata la parrocchia di Toirano, quindi quella di Ceriale.
La storia ci ricorda che erano parte dell’antica Ubaga varie frazioni denominate Canavai, Casarix, Casaioi e Bandie, da tempo scomparse ed inghiottite dalla boscaglia.
Scriveva lo storico e benemerito Dante Tiglio – compianto cancelliere del Tribunale di Savona, cittadino di Albissola esperto di ceramica, e che ha curato il progetto simbolo ‘Maschere di Ubaga‘ – “E’ verosimile che il Castellaro di Ubaga rappresenti uno dei primi nuclei abitativi dell’Alta valle Arroscia in età neolitica, epoca in cui compaiono in Liguria queste sedi fortificate, o nel periodo del rame, quando gli stanziamenti montani subirono un forte incremento. Evidente che i rudi abitanti di Ubaga erano diretti discendenti di quei gruppi di pastori- cacciatori che in età neo o eneolitica aveva iniziato a colonizzare il selvoso e scosceso versante settentrionale della catena divisoria tra la valle Arroscia e la Val Lerrone. Le difficoltà create da una natura eccessivamente accidentata e dirupata, con vallette anguste profondamente incise, scarsamente soleggiate; un terreno arido e magro, che mostrava più lo scheletro che la polpa, la colossale di disboscamento delle foreste e l’immane fatica a strappare esili lingue di terra coltivabile a pendii troppo ripidi, sempre pronti a sgretolarsi a valle per la violenta azione delle acque, avevano forgiato, per contrappunto, degli uomini dal temperamento duro, tenace, caparbio, abituati alla fatica e al sacrificio, a contare soltanto sulle proprie forze, sprezzanti degli agi, frugali, sagaci ed ingegnosi, ma anche chiusi, rigidi, pochi inclini ai cambiamenti e quindi profondamente conservatori nei costumi e nelle idee”.
Che dire ancora di Ubaga se non ricordare che intorno al 1940 i contadini costruivano, ed usavano, un modello di aratro in legno del tutto simile a quello inciso sulle rocce del Bego, identico del resto, a quello documentato, circa 30 anni prima, da Clarance Bicklnell nella nota fotografia scattata in Val Casterino, con il contadino che impugna la stiva dell’aratro e il ragazzo che precede la coppia di buoi aggiogati.
Alla base di questa tenacia resistenza alle novità vi era soprattutto la preoccupazione di salvaguardare cultura, tradizioni e consuetudini di un sistema di vita che assicurava agli Ubaghesi non soltanto tutto ciò di cui avevano bisogno, ma in più benessere sociale e spirituale, che compensava largamente il loro isolamento. La profonda spiritualità, ricordava ancora Tiglio, fu il potente cemento delle tribù liguri, per le quali il Bego rappresentava un centro di aggregazione spirituale.
E come non ricordare che è stato lo storico delle religioni Karoly Keréyi a sottolineare che ‘Maschera ed ambiente selvaggio sono due realtà inconsapevoli. Si spiega allora il naturale impulso della gioventù di Ubaga a costruire delle maschere per simulare l’apparizione degli spettri, di defunti, di bàzure, allo scopo di spaventare i più pavidi; maschere rustiche e confezionate con materiali poveri, a portata di mano: tronchi cavi di alberi di castagno o di pioppo tremulo, che erano i più usati, poichè i fusti di queste piante, invecchiando, si svuotano internamente. Ma venivano utilizzate anche strutture di rami di salice o di canne, rivestite di tela e di stracci: o le cosiddette ‘zucche da quintale’, svuotate ed essiccate: e ancora sacchetti di rude canapa, adoperati solitamente per la raccolta delle castagne e delle olive; imbrattati di calce, gesso, terra rossa e carbone; e persino le grandi foglie di ‘bardana’ ed innaffiatoi di canapa, incerata, che, capovolti, diventavano maschere grottesche o sinistre.
Le maschere oltre che per concertare malvagi scherzi, venivano usate in occasione di festività agricolo-religiose, per esempio la notte di San Giovanni Battista, intorno ai falò, o durante le funzioni serali della Settimana Santa. Le Maschere di Ubaga sono protagoniste di un ‘Rituale’ – ricordava Tiglio – che è una allegoria della ‘Morte e rinascita della Natura’.
E il 27 aprile 2002 il presidente della Comunità Montana dell’Alta Valle Arroscia e sindaco di Pieve, Renzo Brunengo, nel giorno dell’inaugurazione del Centro Museo Maschere di Ubaga‘, rimarcava nel saluto augurale ” che nelle opere di questi Maestri illustri riecheggiano le forze magiche e misteriose del cosmo, che hanno animato l’esistenza umana dei primordi, e riaffiorano memorie, luoghi, contrade, toponimi, eventi, disagi, fatiche, insidie, paure, gioie e speranze che hanno travagliato la vita del primitivo agricoltore- è pastore ligure, così profondamente radicato nella sua terra, da poter conservare inalterata nei secoli la propria genuinità, i propri valori e la capacità di affrontare con dignità le difficoltà di un’esistenza segnata da senti e sacrifici”.
A Ubaga oggi la storia riscriverà della presenza dell’ultimo eremita in terra ligure. La montagna e la natura selvaggia non sono mai stati così attraenti. Un rifugio sicuro di solitudine e preghiera. Un piccolo rustico in legno come dimora. Una terra della salvezza dove ritirarsi in intimità, un’isola felice. Una vita rurale, con i suoi ritmi, all’aria buona (senza il rischio isolamento neve come è accaduto nell’eremo di Nava), per esaudire e mettere in pratica la vocazione alla solitudine, senza rumori e lo stress, una migliore qualità esistenziale. Con quella sostenibilità ambientale che non è più solo un valore condivisibile, ma una necessità impellente a cui molti di noi aspirano e forse guardano con malcelata speranza.
Luciano Corrado
L’EREMO ABBANDONATO DI NAVA DI PROPRIETA’ DI UN PRIVATA CHE AVEVA DATO IN COMODATO ALLA DIOCESI E CHE PROBABILMENTE SARA’ RISTRUTTURATO ANCHE PER LA SUA MERAVIGLIOSA POSIZIONE NEL BOSCO E NELLA NATURA