Poi la “fantasia” più bella di mamma e papà fu quella di mettere al mondo un pargoletto di nome Gian Luigi (Gianni), scodellandolo in un mondo fatto di sorprese, imprevisti e tradizioni antichissime. A volte paurose, a volte tenerissime e struggenti come le nenie che le donne indigene sussurravano ai loro bimbi.
di Gianluigi Taboga
“ Faccetta nera, bella abissina………” ti ho conosciuto e voluto bene perché tra le tue forti e amorevoli braccia fui affidato e con te mi sentivo al sicuro.
“ Mammitiè”, così si chiamava la mia tata che era l’anello di congiunzione tra due mondi così lontani per tradizioni e modi di vivere ma così vicini per sentimenti umani tanto da lasciare un ricordo indelebile nella nostra famiglia : il mal d’Africa, più contagioso di qualsiasi virus.
Se la vecchia classe dirigente etiopica e il clero copto ci vedevano giustamente come usurpatori, il popolino invece ci considerava i fautori della loro tanto attesa emancipazione, passando repentinamente dai loro sistemi ancestrali a quelli moderni ed accattivanti introdotti dagli italiani.
Per questo ci rispettavano, si sentivano italiani anche loro ed imparavano in fretta la nostra lingua, inflessioni dialettali comprese.
L’azienda agricola (l’Amaresa) creata da mio padre crebbe rigogliosa e la terra vergine, il clima favorevole e la tecnica di coltivazione produssero in breve tempo risultati così straordinari da essere a 104 anni considerata un vero e proprio modello.
La Rina finalmente ebbe una dimora dignitosa: un bungalow che se pure con il pavimento in terra battuta e il tetto in lamiera a confronto del tucul sembrava una reggia. Finalmente al sicuro dalle iene che pullulavano nei dintorni e che con il loro urlo nella notte facevano tremare le lamiere del tetto.
Mamma oltre che ad aiutare papà curava la casa, il pollaio. Con il suo cavallo bianco ed un fucile andava a caccia di pernici, galline faraone, ed altro per rifornire di preziosa e gustosissima carne la cucina domestica, non mancavano le inebrianti galoppate, con qualche rovinosa caduta, per andare nella città di Harar o sulle sponde del lago Chisimaio.
Al Duce però non piaceva l’imborghesimento dei suoi guerrieri e cosi pensò bene di dichiarare guerra a mezzo mondo e anche mio padre fu richiamato sotto le armi per combattere gli “odiati inglesi “con l’eclatante risultato di finire prigioniero per sei anni nei campi di concentramento del Kenia, là dove morì il valoroso Duca d’Aosta.
La Rina rimase sola, incinta del secondo figlio (Adriano), in una terra divenuta improvvisamente ostile, ritornata selvaggia e occupata dalle truppe coloniali di sua Maestà britannica( Giorgio VI) che trattavano gli italiani come nemici e sconfitti, senza fornire notizie sulla sorte dei militari italiani fatti prigionieri.
Mesi di indicibili sofferenze, e nell’ospedale di Harar senza il confort di un parente (si c’ero io e a due anni lei mi chiamava ometto), la Rina partoriva il secondo figlio (Adriano) .
Il ritorno alla concessione agricola (Amaresa) ormai in abbandono e razziata di tutto fu quanto di più straziante si possa immaginare, altri si sarebbero disperati ma la Rina no !…., lei no…. mai!
Organizzò la vendita di quanto rimaneva per racimolare qualche soldo per vivere e difese a colpi di machete la sua Mammitié insidiata da un soldato nero delle truppe di occupazione, ricevendo in segno di gratitudine l’applauso di “brava signora italiana” da parte degli indigeni, coraggiosamente rinchiusi nei loro tucul. Conservava segretamente in camera da letto anche fucile e pistola di ordinanza di mio padre, per ogni evenienza in caso di necessaria difesa… Questa era la Rina !!!!!!!!
In quel tempo l’unica speranza era il rientro in Italia. Come ? Quando? Perché? Ne parleremo alla prossima puntata.
Gianluigi Taboga