Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Mendatica ha reso onore a Giovanna
ultima ‘sentinella’ in piazza della chiesa


Il Valore dell’esperienza. Di fronte alla porta principale della chiesa parrocchiale di Mendatica, la casa dell’infanzia e della prematura vedovanza di Giovanna Gandolfo era sempre pronta ad accogliere con calore e disponibilità. Leggi anche: quando Ines ci ha lasciati…

Il manifesto funebre di Giovanna, ultima sentinella sulla piazza della chiesa, tra i nipoti un consigliere comunale del Pd a Sanremo e presidente della locale Pro Loco

Da anni però era aperta solo d’estate e ultimamente restò serrata anche nella bella stagione, perché l’incalzare inesorabile del tempo e i marcati segni lasciati dal lavoro e dalle preoccupazione per garantire un futuro di studi e di sicurezza ai figli e una serena vecchiaia ai genitori, l’avevano provata tanto da costringerla ad accettare l’aiuto e le cure dei suoi cari, lontano da qui.

E ora Giovanna ci ha  lasciati, non apparirà più sull’uscio ad invitare e a riversare, su chiunque conoscesse, attenzioni e premure, spinta da un carattere altruista e gioviale, che non è mutato neppure quando la vecchiaia, novant’anni, aveva cambiato ritmi e resistenze.

Mancherà a tutti il calore umano, la sollecitudine di questa donna forte e sensibile, dallo sguardo mite e profondo che colpiva anche i visitatori occasionali del paese, che era stata famiglia per i numerosi sacerdoti avvicendati nell’attigua canonica.

L’ultima benedizione terrena al feretro di don Enrico Giovannini, al suo fianco Roberto Grasso priore della Confraternita di Santa Caterina

Il ricordo suo e delle altre mamme formatesi nelle difficoltà del periodo tra i due conflitti del secolo scorso, capaci di affrontare le prove e le paure dell’ultima guerra con volitiva dignità e consapevole coraggio, hanno forgiato le menti e guidato le scelte delle generazioni postbelliche del paese.

In particolare hanno accompagnato i giovani nel rispetto del territorio, fonte di economia e di sviluppo, hanno sollecitato la salvaguardia della memoria come sostegno per. evitare gli errori del passato e per duplicarne le buone pratiche. Con l’esempio hanno guidato alla cura dei luoghi,  alla conservazione delle tradizioni capaci di generare serenità e tranquillità, Si sono costantemente odoperate per ricercare e mantenere concordia e armonia sociale, tanto più durature se germinate sulla giustizia e sull’uguaglianza.

Hanno continuamente promosso nei figli un comportamento onesto, coscienzioso e responsabile.

Tante di loro sono state silenziosi e coerenti modelli di scelte consapevoli e di muta  rinuncia, tesi al raggiungimento di beni superiori, tra cui la maturazione del senso di appartenenza, di unione e di fratellanza, che hanno favorito  la crescita del luogo. La squalifica e la riprovazione rivelate alla presenza di atteggiamenti di prevaricazione o di indifferenza hanno spinto alla riflessione sull’importanza della partecipazione alla vita degli altri, alla condivisione dei momenti di sofferenza o di gioia del vicino, all’aiuto e alla comprensione reciproca.

Il trascorrere dei loro anni non ha tolto forza e validità allo stile di vita seguito e trasmesso, perché i valori su cui si fonda sono universali.

E ora tocca a Giovanna Floccia, Grazietta Manuelli e Concetta Pastorelli, le ultranovantenni di Mendatica,  testimoniare i principi e gli ideali propri di questa nostra civiltà di montagna.

Emidia Lantrua

E QUANDO INES HA LASCIATO PER SEMPRE IL PAESE….

Ines De Marchi Fraguglia, Mendatica 1917-2013

Tra le donne di ieri, nel libro ‘Continuamente donna’, un capito dedicato alla compianta mendaighina Ines scritto da Emidia Lantrua

Nata in un anno di guerra,  Ines ogni giorno ha pregato per la pace, a partire dalla prima inconsapevole orazione, recitata  ripetendo le accorate parole della madre.

Convinta, dallo spiccato acume adolescenziale, che la pace si costruisca nelle coscienze, poggi sulla giustizia  e si trasmetta per empatia, con una inossidabile determinazione e una strana sublimazione ha superato l’acceso individualismo, domato il forte orgoglio  e controllata la vivace fierezza, per creare occasioni di dialogo, di confronto e di aiuto, a Mendatica, suo paese dai trascorsi di provata solidarietà.

Attraverso un’azione equilibrata di mediazione e  una incondizionata accettazione degli altri, è diventata  esempio e veicolo di armonia e di  concordia, testimone sensibile e silenzioso di servizio incondizionato e gratuito.

La Ines in ogni situazione si è mossa sicura, disinvolta, con una composta eleganza e una innata grazia. Senza timore, con assoluta pacatezza ha fatto sempre conoscere il giudizio personale e, se richiesto, non ha fatto mancare approvazione o dissenso nei confronti di quello altrui, sostenuta dalla forte convinzione delle idee e dalla profondità di un vissuto motivato e interiorizzato.

Piccola e minuta, controllata e sobria, precisa e riservata, agiva in punta di piedi, per grande considerazione di tutti, non volendo mai interferire e arrecare disturbo a qualcuno.

Con gli abiti grigi, dal colletto chiaro, i  golfini verdi, dalle tinte tenui della giovinezza a quelle via via più cariche di ombre degli anni successivi, al primo impatto passava inosservata. Su chi indirizzava lo sguardo, specchio di perspicacia e di intelligenza, nasceva però prontamente l’interesse a conoscerla meglio. Non deludeva quanti l’avvicinavano per la serenità di fondo, la fermezza solida, la disponibilità senza limiti e l’abitudine a valorizzare le persone.

In casa provava interesse per il pensiero, la coerenza e la grande abilità di genitori e nonni, guardava con ammirazione il fratello Ilario, poco più grande di lei, loquace, allegro e abile studente.

Era molto contenta quando poteva gustare la compagnia della zia Chiarina e del marito colonnello, amanti dei viaggi, e gioiva per la vicinanza degli zii, frati cappuccini, Padre Stanislao, cappellano militare e confessore della regina Margherita, e padre Edoardo modello di vita ascetica e di vicinanza ai bisognosi.

Assorta e concentrata li ascoltava raccontare le esperienze di vita in luoghi lontani dal paese.

La zia, mentre dipingeva soggetti floreali e paesaggistici, non parlava di sé, ma le recitava versi della letteratura classica, a suo giudizio altamente formativi per le giovani leve. In effetti conosciuta “… del Pelide Achille l’ira funesta…”, la ragazza  rafforzò la volontà di bandire i sentimenti di rivalsa e di coltivare la mitezza del cuore.

Il colonnello parlandole della metropoli industrializzata di Londra, dove alla catena di montaggio si trasformavano i prodotti delle piantagioni monocolturali delle colonie e si producevano oggetti standardizzati, le presentò un universo economico, distante da quello contadino dell’orto misto, stagionale e dall’artigianato del paese, che, con le risorse del posto, creava manufatti unici, “su misura”.

La comparazione delle vicende umane e delle caratteristiche ambientali che i congiunti le offrivano,  tra cui quelle della terra d’Africa incontrata dal cappellano o della periferia urbana, luogo di missione dell’altro religioso,  con i loro stridenti contrasti, erano per lei spunti di continua riflessione e di precoce crescita.

Pari attenzione poneva nell’ascoltare il vicinato, i caparbi e instancabili valligiani, pronti, con grande forza morale, a tirarsi fuori dalle situazioni più difficili. Prediligeva i coetanei e i compagni di scuola, con i quali condivideva i momenti aggregativi e l’organizzazione di eventi pubblici, guidati dalle suore-insegnanti.  Per capire meglio le amiche dedite a faticose collaborazioni familiari, ottenne di curare il giardino, quasi claustrale, della zia, delimitato da due lati da porticato padronale, dagli altri da siepe e ombreggiato al centro da secolari magnolie. Si armò di zappa e vanga, con i calli alle mani, imparò a coltivare i fiori per la chiesa, fragole, lamponi e ribes per la tavola domenicale; conobbe così la fatica e lo sforzo del lavoro agricolo, ignorato in  casa perché svolto da mezzadri e fittavoli.

Divenne di colpo triste alla notizia della conquista del Corno d’Africa, pensierosa conosciute le sanzioni economiche stabilite dalle collaudate democrazie, preoccupata dal legame con il nazismo e disperata all’entrata dell’Italia in guerra, un conflitto che intuì prontamente non essere “lampo”, come annunciato dalla propaganda.

Le sue giornate si allungarono, lavorò indefessamente per accorciare la notte, non più momento di ristoro ma causa di incubi.

Il fratello intanto, come angosciosamente temuto, fu arruolato in marina e dopo corso ufficiali, fu destinato al Mar Egeo. L’ansia divorò la casa che ammutolì e si isolò, sospendendo i rapporti sociali con l’esterno, fino a quando alla ragazza fu chiaro che non serviva ad alcuno una cupa e accidiosa chiusura. Allora accompagnò mamma e zia a far visita a quanti soffrivano, a chi mancava  un congiunto chiamato al fronte e pativa le ristrettezze economiche conseguenti. Le fu di consolazione organizzare attività di sostegno, coinvolgenti anche il padre, per le madri anziane, le mogli e i bimbi dei soldati in trincea.

Alla famiglia, riunita alla sera nell’accorato ricordo del fratello, leggeva le sue lettere dal collegio, dalle vacanze e dalla zona di operazione. Tutte, anche le ultime, descrivevano  paesaggi, ambienti e persone, contenevano pensieri sui sentimenti profondi e sulle aspirazioni future, non menzionavano mai la guerra,  rivelavando  fiducia e speranza. Finalmente arrivò lo scritto che annunciava il rientro in patria. Il sollievo fu effimero, si trattò dell’ultimo messaggio, perché sulla rotta di ritorno la nave fu colpita e tra l’equipaggio si contarono delle vittime. Ilario fu tra queste. Ines si rese conto che solo una grande fede e tanta determinazione potevano impedire “il lasciarsi andare” dei suoi cari e così li coinvolse nelle aumentate richieste di cure e di sussidiarietà a conoscenti e a sfollati dalla costa  bombardata. Tutti uniti sopirono il dolore procurando cibo e indumenti a renitenti e partigiani nella macchia, fascisti  sbandati, famiglie nell’attesa del ritorno dei giovani nell’Armir, a quell’umanità sofferente per la quale pregava continuamente.

Era la ragazza, vigile e schiva, intenta a ricamare sul terrazzo, proteso sulla via di accesso  al paese, a capire le situazioni difficili e ad adoperarsi per il loro superamento. Comprese che qualcuno poteva approfittare della presenza di opposti schieramenti in valle, per vendicarsi di nemici personali, rivelando segreti  e svelando nascondigli. Fu tanto brava a far giungere ai cuori la necessità del perdono perché ad ogni vendetta tante altre ne sarebbero seguite per ritorsione.

Il paese, pur con la presenza di molteplici ideali, fu risparmiato da fatti cruenti: si ricorda solo la rasatura della bella chioma della giovane maestra e i momenti di paura per la cattura del parroco. Fu lei a distrarre un drappello di fascisti, che conducevano nella prigione di Nava giovani imboscati della zona, a permettere a un ragazzo di Pornassio di volatilizzarsi, dopo essersi fermato ad allacciare gli scarponi.

La ripresa della normalità fu faticosa ma rapida, il dolore inflitto nello spirito non impedì lo svolgersi della vita operativa.

La Ines si innamorò di un giovane geometra piemontese, che sposò e portò nella sua casa, presto allietata dalla nascita di Clara, una gioiosa, graziosa e sveglia piccola, capace di restituire il sorriso, i suoni e la luce alla famiglia.

I compiti di moglie e di madre, svolti con costante attenzione e profonda partecipazione affettiva, non distolsero la donna dal ruolo sociale a cui si era dedicata nel dramma bellico e per il quale la popolazione la richiedeva. Divenne punto di riferimento per la gente comune, stimolo di iniziative di crescita della collettività, voce della tradizione e della cultura, memoria e ideazione per funzionari territoriali. Seppe sempre creare intesa tra le esigenze locali e quelle esterne, favorì l’interazione tra il paese e i suoi numerosi e diversi frequentatori.

Quando un amico negli anni settanta, si candidò alla carica di sindaco e la invitò a far parte del suo gruppo, Ines accettò. In quell’ambito fino ad allora ritenuto di competenza maschile, in qualità di vicesindaco, mostrò impegno, volitività e lungimiranza. Fu eletta consigliere anche nella successiva tornata elettorale, che registrò un rinnovamento generazionale e lasciò poco spazio a lei che fu comunque sempre vicina ai giovani.

Senza rumore lasciò la politica paesana, mantenendo naturalmente il ruolo pubblico che la gente continuava ad attribuirle. Fu ispiratrice di iniziative umanitarie e formative, socia fondatrice dell’Associazione “Pro Loco” e collaboratrice instancabile della chiesa. Il tempo libero la trovava vicino ai soli, ai deboli e ai ragazzi; era madrina di tanti e divenne la nonna adottiva dei figliocci e dei figli dei numerosi amici della sua Clara, ormai affermata medico ospedaliero. Riusciva ad essere attraente e interessante per i bambini e i giovani succedutisi via via nei suoi oltre novant’anni: per loro cucinava dolci prelibati,  preparava regali  personalizzati e trovava risposte soddisfacenti agli interrogativi.

Negli ultimi tre anni, ormai lontana dalla sua casa, nella famiglia della figlia, rivolgeva il pensiero e il ricordo quotidiano al paese, continuando a far progetti di crescita e di benessere per la sua comunità.

Emidia Lantrua


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