Trucioli.it dedica spazio e attenzione ai problemi dell’entroterra e della montagna Ligure, territori strettamente legati ed interagenti con la costa. Un dibattito rivolto non solo a urbanisti, paesaggisti e sociologi, ma anche agli agronomi e agli economisti agrari che hanno il compito di definire le effettive possibilità di valorizzazione dei terreni acclivi in termini di economicità, tenendo conto non solo dei condizionamenti posti dai vari ambienti pedo-climatici, pure a quelli relativi ai rapporti tra produzione e mercato, tra campagna e centri urbani, tra montagna, collina e pianura.
E’ ormai evidente agli occhi di tutti come occorra riequilibrare la patologica distribuzione demografica che ha congestionato i centri urbani della costa e della pianura, ha spopolato anche le Alpi Liguri (che la stessa regione Piemonte definisce di “profilo appenninico”) ed ha determinato un crescente dissesto idrologico.
“Terre dell’ormeasco” – Missione rinascita: un piano di bonifica integrale…?
Le “unioni montane” delle alte valli dell’Arroscia e del Tanaro costituiscono la maggior porzione delle Alpi Liguri, territorio interno che risente del nefasto esodo della popolazione.
Pur divisa dal confine amministrativo regionale si tratta di una plaga incredibilmente omogenea anche nella patologica riduzione demografica. I nove comuni della Val Tanaro avevano 21.720 abitanti nel 1911, ridotti a 7.689 nel 2011. Gli undici comuni della Valle Arroscia avevano 13.511 abitanti nel 1911 diminuiti a 4.535 nel 2011.
Mentre la costa ligure e le città di pianura si stavano congestionando, in soli 100 anni le popolazioni delle due alte valli si sono entrambe ridotte ad un terzo. Negli ultimi cinquant’anni la popolazione si è dimezzata! Un fenomeno che ha contribuito al crescente dissesto idrologico in atto. Le alluvioni del 1994 e del 2016 non sono che una recente ed attuale testimonianza.
Il fenomeno di rapido e disordinato esodo delle popolazioni dai “nostri” centri montani si è verificato a seguito del prorompente sviluppo industriale dei nuclei urbani degli anni ’50 e ’60 e dalle crisi dagli anni ‘80 delle poche attività industriali che si erano insediate nei fondovalle Arroscia e Tanaro. Lo spopolamento è stato in taluni casi non solo eccessivo, ma totale laddove il prevalere di proprietà piccole e frazionate non ha consentito la formazione di aziende agricole più ampie, malgrado l’abbandono all’incoltura di vaste zone.
La rinuncia a gran parte delle terre acclivi le ha esposte all’azione degli agenti naturali. Ha favorito i fenomeni erosivi e franosi in atto. Ha promosso l’interrimento della rete scolante dei centri di fondovalle e di versante, rendendo più disastrose le alluvioni. Ne sanno qualcosa gli abitanti di Ormea e Garessio. E Mendatica e Piaggia? Rezzo e Lavina.
All’esodo “contadino” si è accompagnato quello “rurale” vale a dire quello di unità dedite ad occupazioni diverse – artigiani, piccoli commercianti – viventi nelle frazioni e nelle borgate a prevalente economia agricola rendendo più precaria la vita dei rimasti.
Nel frattempo la rapida concentrazione di masse immigrate nei maggiori centri urbani della costa e della pianura ha avuto altri risvolti: espansione urbana sempre più onerosa, carenze abitative intollerabili, inquinamento, congestione di traffico e altro. I più accreditati sociologi osservano che le megalopoli determinano forme sub-civili di convivenza, favoriscono la delinquenza; la grande città è ingovernabile.
La politica, quella vera, la scienza e arte di governare lo Stato dovrebbe chiedersi: come rimontare la corrente dell’esodo rurale e rivalorizzare le pur consistenti risorse che la montagna può offrire? Come arginare il dissesto idrologico in progressivo aggravamento? Come creare sulle pendici montane le condizioni residenziali ed operative per più sani equilibri demografici?
Sul finire degli anni ‘60 del secolo scorso, prima dell’istituzione delle Regioni, all’inizio del patologico esodo da alcune plaghe collinari e montane italiane, due illustri studiosi, Giuseppe Guarino e Carlo Barberis, avevano dibattuto una proposta provocatoria: “Come portare la città sull’Appennino” che prevedeva l’urbanizzazione della campagna quale scelta obbligata per un riequilibrio demografico. “Non si deve – diceva Guarino – portare il contadino in città, si deve, invece, portare la città sull’Appennino”
Sulla montagna ligure-piemontese, quella che in un progetto di marketing territoriale potrebbe chiamarsi “Terra dell’Ormeasco”, la provocazione è da valutare seriamente: a quali condizioni potrebbe essere accolta?
Guarda caso il Piemonte – terza regione italiana a dotarsi di Piano Paesaggistico; la Liguria ha firmato lo scorso 23 agosto 2017 il disciplinare attuativo coi ministeri competenti per l’elaborazione del proprio piano – ha definito “paesaggio appenninico” il macro ambito delle Alpi Liguri. Una definizione da valutare attentamente perché le istituzioni paiono porre vincoli insormontabili anche quando sembrano tendere la mano! Sarà fondamentale la definizione, la perimetrazione, e la possibilità di determinare gli indirizzi del bosco, oggi cosa diversa nelle due Regioni!
La rivalorizzazione dei nostri acclivi montani non è però concepibile senza un parallelo sviluppo di attività extragricole agli ordinamenti produttivi agricoli ridefiniti. In sostanza non vi può essere ripopolamento senza la creazione di condizioni per lo sviluppo di attività differenziate necessarie per dare ai montanari certi vantaggi del benessere cittadino. A ben vedere sono i concetti, tuttora validi, di quella che un tempo si chiamava “bonifica integrale”. Senza illusioni, non tutti i centri delle nostre montagne hanno possibilità di risorgere. Solo quelli che presentano condizioni favorevoli, sia per l’insediamento di attività artigianali ed impianti industriali, sia per uno sviluppo agricolo economicamente valido. Sono le componenti essenziali della vita e della economia della comunità.
La nostra agricoltura di montagna può competere col piano in termini qualitativi, soprattutto nel vasto campo dell’arboricoltura. Sarà possibile superando le vecchie forme di coltivazione promiscua, puntando decisamente sulle colture specializzate tradizionali (ulivi, viti, castagneti, meleti, aglio, patate …) se attuate in aziende di sufficiente ampiezza, composte di appezzamenti più vasti possibili. Piemonte e Liguria sono ormai dotate di leggi per l’accorpamento di terreni abbandonati. Alle aziende intensive sul lato ligure, che potranno affermarsi nelle pendici a pendenza massima intorno al 20%, potrebbero accompagnarsi, sull’altro versante della montagna, aziende estensive ad ordinamento silvo -pastorale di superficie assai più ampia, di equivalente potenzialità economica complessiva, capace di assicurare un reddito soddisfacente ai capitali in essa investiti ed alle unità di lavoro impiegate.
Accanto alle aziende agrarie vere e proprie, decisamente orientate alla economia di mercato, potranno affermarsi anche aziende “a tempo parziale”, che potrebbero giungere ad occupare importanti porzioni di superficie valliva, in particolare i terreni terrazzati di grande interesse anche paesaggistico, vere e proprie sistemazioni agrarie di difesa e di regimazione delle acque. Individuare la possibilità di riutilizzare queste terre, risvegliando l’interesse ed assicurando in esse la presenza anche soltanto stagionale dell’uomo, appare iniziativa quanto mai opportuna. Da tale accertamento, prima o poi, potrebbe dipendere la prevenzione di fenomeni gravi di dissesto evitando la necessità di sostituire le opere sistematorie realizzate dagli agricoltori con altre sempre costose, non altrettanto durature e che generalmente si inseriscono nel paesaggio montano con effetti tutt’altro che armoniosi e gradevoli.
Proprio queste aziende “part time”, caratterizzate da una pluralità di colture, potrebbero costituire il legame, una componente importante verso la reciproca integrazione tra agricoltura, industria e servizi nelle valli.
In varie forme sembrerebbe esistere per alcune delle “nostre” zone montane la possibilità di un’agricoltura valida, a condizione che col concetto di “bonifica della montagna” si giunga a forme integrate con le altre attività produttive, dando alla popolazione la possibilità di conseguire redditi sufficienti e servizi pubblici analoghi a quelli dei centri cittadini.
Quanto al decentramento industriale, si potrà avere laddove sussistono precise convenienze economiche; dove ad esempio non si tratti di creare ex novo tutta una struttura sociale, ma solo di riattare, ammodernare, ampliare, dotare dei necessari servizi i centri abitati già esistenti (Garessio, Ormea, Pieve di Teco, …).
Per realizzare tutto ciò occorrerebbe una concentrazione iniziale di sforzi nelle situazioni di maggior interesse. Un “piano territoriale interregionale delle Alpi Liguri” sarebbe una magnifica occasione di cooperazione regionale: articolato in scelte operative precise e localizzate, tenendo conto delle infrastrutture esistenti e delle reali possibilità agricole che appaiono determinanti per uno sviluppo integrato della montagna.
Un piano territoriale che veda, intimamente legato allo sviluppo agricolo, il quadro operativo della regimazione delle acque, per arginare il dissesto idrologico dei terreni acclivi e per salvaguardare il piano; la difesa del patrimonio boschivo esistente e la promozione del rimboschimento; il riordino fondiario per consentire l’ampliamento della maglia aziendale e con esso una razionale rete scolante delle acque, legata – dove possibile – a lavorazioni profonde, a ripuntature e drenaggi che diminuiscono fortemente la quantità d’ acqua fluente in superficie e rimpinguino le riserve idriche del sottosuolo; la regimazione di torrenti e fiumi.
E’ una politica territoriale la cui attuazione è uno specifico compito delle Regioni, con una visione ravvicinata dei luoghi e delle opportunità da essi offerte.
Gianfranco Benzo