Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Alluvione e disastri nel Ponente Ligure, in Val Bormida e Basso Piemonte: repetita tamquam desiderandum est non juvant


I boschi erano potati e puliti, terreni e terrazzamenti coltivati, argini di fiumi e torrenti liberi da ingombri, i greti dragati affinché vi fosse sezione d’alveo sufficiente alle prevedibili piene. È poi arrivato l’inurbamento massiccio e l’abbandono della montagna, dei campi, innescato dalla rivoluzione industriale ha fatto sì che le città, la cui esistenza è giustificata dall’avere il luogo di residenza vicino a quello di lavoro, si sviluppassero, spesso, senza criterio, all’insegna della speculazione. I corsi d’acqua da risorsa si sono trasformati in elementi incomodi, da ignorare, quando non da nascondere o da eliminare o, peggio, da trasformarne l’alveo in area fabbricabile.

Numerosi eventi avversi si ripetono, a distanza sempre più ravvicinata e con gravità crescente, al pari della pressione antropica nei confronti dell’ambiente, ma, purtroppo, non s’impara mai abbastanza la lezione derivante dalle esperienze pregresse; in ispecie questo vale per chi, come i Pubblici Amministratori dovrebbero occuparsi di attuare una prevenzione al fine di limitare eventuali danni.

Si stanno spegnendo i riflettori e, con essi, gli ultimi echi di cronaca relativa alle recenti calamità meteorologiche: alluvioni, frane e smottamenti, specie in Liguria e nel basso Piemonte hanno inferto un duro colpo alle popolazioni, alle abitazioni, alle aziende. Fortunatamente, in quest’occasione, il numero di vittime è stato esiguo, pur essendo state le precipitazioni molto più abbondanti rispetto al tragico evento del 1994, tuttavia, non si è fatto tutto il possibile affinché fossero più contenuti anche i danni materiali.

La pressione antropica è cresciuta in maniera esponenziale, nella speranza, verificatasi poi, alla prova dei fatti, un’illusione, che l’Uomo potesse dominare la Natura, la quale è di parecchi ordini di grandezza più forte e, pertanto, la sua forza può essere solo adoperata assecondandola e prevedendo adeguati spazi per gli elementi, spazi che, in nome di un discutibile progresso, sono stati sempre più ristretti.

In epoche remote, complice anche la mancanza di mezzi tecnologici e dovendo necessariamente contare in maniera quasi esclusiva sulla forza muscolare umana od animale, pur con il favore di una densità di popolazione di gran lunga inferiore rispetto a quella attuale, si preferiva la prevenzione alla cura: le campagne erano curate, non solo perché fornivano cibo e vino, ma perché la loro continua tenuta in ordine evitava molti danni.

I boschi erano potati e regolarmente puliti, gli argini di fiumi e torrenti regolarmente puliti e manutenuti, i greti opportunamente dragati affinché vi fosse sezione d’alveo sufficiente a portare le piene ragionevolmente prevedibili. È poi arrivato l’inurbamento massiccio, innescato dalla rivoluzione industriale, la quale ha fatto sì che le città, la cui esistenza è giustificata dall’avere il luogo di residenza ragionevolmente vicino a quello di lavoro, si sviluppassero, sovente, senza criterio ed ecco che, specie dove la penuria d’aree fabbricabili era più manifesta, i corsi d’acqua da risorsa si sono trasformati in elementi incomodi, da ignorare, quando non da nascondere o da eliminare o, peggio, da trasformarne l’alveo in area fabbricabile.

Il caso di Genova è paradigmatico: vi sono circa cento corsi d’acqua, che, dall’Appennino, scendono al Mar Ligure, la maggior parte dei quali è stata tombata addirittura restringendone la sezione, come accaduto per il Bisagno, con i risultati sotto gli occhi di tutti, per tacere del Fereggiano, nella cui vallata, è stato costruito un palazzo, le cui fondazioni sono state portate allo scoperto da una recente frana; in passato, nel quartiere di Sestri Ponente, invece, esisteva un palazzo i cui pilastri poggiavano direttamente nel greto del Chiaravagna, ma, saggiamente, è stato, ancorché troppo tardi, demolito.

A tutto questo, si deve aggiungere che la città, di per sé richiama con i suoi falsi miraggi nuovi abitanti e le zone rurali, un tempo presidiate da persone attente e competenti, sono rimaste abbandonate a sé stesse, in balia di quegli elementi naturali i cui effetti non sono più tenuti sotto adeguato controllo; le migliorie compiute nel passato ed il pur lodevole lavoro compiuto dal servizio di Protezione Civile avrebbero potuto avere esito affatto migliore se gli eventi, ormai non più ascrivibili nella categoria dei fenomeni eccezionali, fossero stati affrontati da un territorio governato con i necessari criteri di prevenzione.

Fare adeguata prevenzione significa, innanzi tutto, lasciare persone a presidio dei territori a rischio, ma occorre, parimenti, consentire loro di abitare in quelli che sono i luoghi d’origine, che nessuno, se non spinto da necessità, abbandonerebbe, e di condurvi un’esistenza dignitosa. A tale scopo serve però un’adeguata rete di servizi pubblici, i quali sono, oggigiorno, ridotti all’osso, poiché, a partire dagli ultimi anni Settanta del secolo scorso, un feroce liberismo, scatenato in Europa dalle dissennate politche di Margaret Roberts Thatcher, peraltro, educata in famiglia a ben altro agire e, anche nella nostra Italia, si è ammesso che questi potessero essere attività a fine di lucro come qualsiasi altra e, con tipici criteri mercantili, si è subordinato l’effettuazione alla remunerazione che ne derivava, quando non sono stati addirittura in parte o totalmente privatizzati od appaltati a privati.

Un servizio pubblico, gestito il più possibile in maniera diretta e trasparente, da una Pubblica Amministrazione saggia e coscienziosa è preciso dovere che questa si assume nei confronti dei Cittadini rappresentati: imprescindibile per una Nazione civile o che aspiri a definirsi tale; trattasi di normali doveri d’Ufficio. Solo così è possibile preservare certe aree dallo spopolamento, giacché verrebbe da domandarsi chi abiterebbe in pianta stabile in luoghi dove i presidi sanitari sono ridotti alla sola presenza, non costante del Medico condotto e gli Ospedali di prossimità, dove, fino a non molto tempo fa, si offriva un servizio di prim’ordine, vengono via via depauperati di risorse e di personale fino a ridurli a poco più che poliambulatori.

L’Ufficio postale non è aperto tutti i giorni, la corrispondenza è distribuita con criterio quanto meno bizzarro, le telecomunicazioni non raggiungono le minime prestazioni offerte dalla tecnica moderna, i trasporti pubblici sono drasticamente ridotti quando non addirittura cancellati, come successo nel 2012, quando sono stati completamente sospesi i servizi viaggiatori su circa un terzo della rete ferroviaria Piemontese e la sospensione ha colpito anche una linea come quella dell’alta Val Tanaro, oggi, fortunatamente in maniera minore rispetto al 1994, danneggiata, mentre quella della bassa valle, da Ceva a Bra, quasi completamente distrutta, subito dopo essere stata sottoposta a considerevoli interventi di manutenzione ed i fondi stanziati per la sua ricostruzione hanno preso altre derive. Come si può senza difficoltà alcuna osservare, il problema sta nella coscienza dei cittadini, soprattutto di quelli che, candidandosi alle elezioni scelgono di occuparsi in prima persona della cosa pubblica e, naturalmente di coloro che stanno alle loro dipendenze dirette.

Prima ancora che tecnica, la questione è morale: si deve agire perché si deve, nell’interesse di tutti, non già perché conviene, nell’interesse economico immediato personale e diretto di qualcuno. Ciò posto, si potrà, in seguito, focalizzare l’attenzione sugli aspetti eminentemente tecnici, sul come realizzare le opere al meglio, ma occorrerà tenere sempre presente l’operare in scienza e coscienza assecondando la Natura senza imbrigliarla, dove assecondare non significa lasciare tutto abbandonato al suo corso, come pretenderebbero certi movimenti civili e politici, falsamente ecologici, dove l’attenzione alla Natura è solo un paravento di facciata, mentre, in realtà essendo, sovente, costituiti da persone che hanno poco o punto contatto con il mondo agricolo e forestale, finiscono per prendere sonore cantonate ed emanare o sollecitare l’emanazione di provvedimenti dagli effetti quanto mai pericolosi, se non francamente dannosi.

Un esempio lampante è dato dalla mancata pulizia del greto dei fiumi, operazione che comprende la rimozione degli oggetti estranei, il taglio della vegetazione cresciuta nell’alveo o nell’immediata prossimità, il dragaggio, che, peraltro, fornisce anche materiale per la costruzione e la manutenzione di opere edili e stradali ed assicura un’adeguata sezione, sufficiente a smaltire le piene senza che vi siano allagamenti ai piani inferiori o negli scantinati o trasformazione di campi ed orti in risaie, come successo in concomitanza con l’ultima alluvione da Cairo Montenotte fino ad Alessandria

Oggi, resta molto materiale ai lati del letto dei fiumi, materiale che deve essere quanto prima rimosso e, magari, impiegato per realizzare argini, altrimenti, una nuova onda di piena come quella precedente provocherà effetti devastanti. Un’attenzione particolare dovrebbe essere dedicata alla programmazione edilizia, vietando qualsiasi costruzione in area golenale od a rischio di frana, a meno che queste ultime non siano adeguatamente bonificate e protette, abbassando in questo modo il fattore di rischio od eliminandolo completamente.

La strada è ancora lunga: da quanto si è potuto osservare, sembrerebbe essere quella giusta, tuttavia sarebbe caldamente consigliabile un mutamento di passo, il che si tradurrebbe nel mettere a frutto gli insegnamenti, che, con lacrime e sangue, abbiamo appreso dal passato.

Roberto Borri


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