Verrando Antonio detto Barraglia condannato a morte “da eseguirsi per mezzo di pubblica fucilazione, ed in modo “che l’anima fosse depurata dal corpo e naturalmente morisse” con la refusione dei danni a favore delle vittime e la confisca dei propri beni a favore della Cassa Nazionale”. Una storia vera raccontata, con uno stile di cronaca certisino, nel libro scritto da Sandro Oddo e di cui trucioli ga dato notizia. Ora riportiamo un capitolo.
di Sandro Oddo
Con questo volume siamo giunti alla fine del nostro viaggio a ritroso nel tempo. Si è trattato di un percorso tutt’altro che semplice, soprattutto quando ci si è trovati a dover tradurre o ad interpretare documenti in apparenza astrusi. Ci sono state d’aiuto tante persone, ognuna per la propria competenza, ci hanno spronato cittadini di ogni ceto e condizione, fornendoci disinteressati consigli e pareri. Un grazie particolare va agli studiosi che hanno collaborato nel corso degli anni, trascorrendo ore negli archivi o reperendo volumi introvabili.
L’Associazione turistica Pro Triora, della quale da oltre 44 anni l’autore di questo libro è segretario, non ha esitato un attimo a pubblicare il lavoro, sostenendo spese tutt’altro che indifferenti. Un ringraziamento particolare va al presidente Roberto Faraldi, ai consiglieri, ai soci, a Silvano Oddo, che ha fornito molte delle stupende fotografie che corredano ed integrano il volume. Certamente non pretendiamo che il lavoro sia completo; spesso ci sono stati preclusi atti e documenti, altre volte non ci è stato possibile consultarli. Noi comunque ci siamo impegnati al massimo, entusiasmandoci di fronte ad una scoperta, commuovendoci nell’apprendere tristi notizie.
La nostra ricerca continuerà, nuovi documenti usciranno da archivi dimenticati; fatti storici, magari sconosciuti, emergeranno, altri verranno smentiti da approfondite ricerche. Noi li annoteremo con la consueta pazienza e magari, questo è il nostro augurio, ve li proporremo in un nuovo volume. Nello scusarci per essere stati talvolta prolissi o noiosi, vi invitiamo alla lettura; fatelo con leggerezza, senza attendervi un capolavoro. Si tratta soltanto di un atto d’amore verso Triora, affinché la sua gloriosa e sovente triste storia non cada nell’oblio.
ANTONIO VERRANDO, BANDITO –
Le notizie giunte da Diano erano chiare: finalmente Antonio Verrando, detto Barraglia, era stato arrestato. Il 19 settembre 1801 Nicolò Moraldo si presentò quindi davanti al giudice di pace di Triora affinché quel delinquente venisse finalmente processato per i suoi misfatti. La Municipalità triorese si attivò immediatamente inviando una lettera al Tribunale civile e criminale del Capo Mele chiedendo la consegna del Verrando e la sua traduzione nelle carceri in attesa di essere giudicato. Il prigioniero fu subito consegnato alla forza armata di Triora, composta da non meno di sette persone. Durante il tragitto venne effettuata una sosta in un’osteria di Badalucco, dove molti abitanti, incuriositi, accorsero per vedere di persona il Verrando, la cui fama si era tristemente propagata in tutta la valle; fra costoro il giudice di pace di Badalucco, il prete Giambattista Panizzi di Giacomo e Giovanni Novella con il fratello. Giunti a Triora, il bandito venne incarcerato nelle carceri del luogo. Il primo ottobre si procedette ad un primo interrogatorio.
Si venne così a sapere che il vero nome dell’accusato era Luca Maria Verrando di Luca Maria, di ventisei anni, essendo nato a Triora il 19 ottobre 1874, ma che dalla gente era sempre stato chiamato Antonio. Arruolatosi a Genova il primo giorno del precedente carnevale, verso sera, si era fatto registrare con il nome di Luca Maria Tedesco, in quanto, avendo disertato ai tempi dell’antico governo, aveva timore di essere punito. Dopo la diserzione era tornato a Triora, dove aveva abitato per qualche tempo lavorando nelle campagne; accortosi che rischiava di essere arrestato, si era nuovamente arruolato in qualità di soldato nel secondo battaglione del cittadino Langlais. Successivamente nel 1798 aveva di nuovo disertato a Ventimiglia, trasferendosi a Pontedassio. Qui – sempre secondo il racconto dello stesso Verrando – si era fermato per due o tre anni, lavorando nelle campagne agli ordini di Pietro Antonio Sasso Mascella, di Pin detto il Nato e dell’avvocato Gialetto; il suo guadagno consisteva in dodici-quindici lire, oltre al vitto ed all’alloggio gratuito. Al verificarsi di insurrezioni nella valle di Oneglia, si era trasferito a Mondovì, senza fermarvisi ma seguendo il percorso da Alba ad Asti, discendendo poi a Finale, dove aveva lavorato alcuni giorni, ed infine a Savona. Richiestogli se avesse conosciuto i barbetti ossia i briganti che infestavano la valle di Oneglia, rispose di averne sentito parlare e che alcuni di essi erano stati catturati dai francesi. Egli stesso – ammise – era stato arrestato, rimanendo in carcere per tre mesi, in quanto sprovvisto di passaporto. Scarcerato, il primo giorno di carnevale si era appunto arruolato.
Essendo reticente in diversi punti, il Verrando venne solo parzialmente creduto, per cui vennero effettuate approfondite ricerche e sentiti alcuni testimoni. Il Tribunale stesso non aveva alcun dubbio: si trattava di “un uomo scellerato, accusato di barbetismo in compagnia di altri, che non aveva mai confessato di fare scorrerie”. Risultando invece dal processo che “aveva fatto frequenti scorrerie in Triora e nei paesi vicini”, il giudice fu invitato ad agire “con la massima attenzione e premura affinché venissero estirpati simili esseri indegni e troppo perniciosi alla società”. Si invitarono anche i giudici di Pontedassio e di Borgomaro a trasmettere tutte le testimonianze e le prove raccolte allo scopo di inchiodare il Verrando.
Il 18 ottobre si venne a sapere che il bandito aveva anche partecipato all’omicidio di Paolo Batta Marvaldi di Borgomaro, assieme ad un certo Paolin di Dolcedo, a Gioachino Ranixio e ad un certo Zaneto di Carpasio. Le prove contro l’accusato risultarono veramente imponenti, per cui il 22 ottobre e l’11 novembre lo si interrogò nuovamente, invitandolo a confessare i suoi misfatti. Tutto si rivelò inutile: il Verrando continuava a dichiararsi innocente ed estraneo ai fatti contestatigli. Continuava ad affermare di guadagnarsi il pane lavorando nelle campagne e nei gumbi.
Visto che insisteva nel suo atteggiamento, gli vennero pubblicamente contestate le seguenti accuse:
- aver grassato in pubblico a danno di Antonio Asplanato di Luca nel sito delle Caranche, derubandolo di alcuni denari e trattenendolo per cinque giorni, imponendogli anche il pagamento di una somma per il riscatto;
- aver arrestato nel sito delle Caranche Giambattista Orengo fu Filippo e, dopo avergli rubato i denari che aveva con sé, averlo inviato a Triora per ottenere il pagamento del riscatto dell’Asplanato;
- aver assaltato sull’alpe di Rezzo Giambattista Rossi fu Gio Angelo;
- aver assaltato, in compagnia di altri, Antonio Allaria di Giacomo nei prati di Villanella;
- aver assaltato nella strada pubblica del luogo chiamato passo del Monega Giambattista Borrello fu Giacomo, prendendo un mulo ed uno scudo da otto lire;
- aver assaltato e trattenuto per tre giorni presso la strada pubblica del colle di Verna Giambattista Faraldi fu Pietro, imponendogli un taglione di mille lire;
- aver arrestato sull’alpe di Rezzo Giambattista Verrando;
- aver arrestato sulla strada pubblica dei Prati Giambattista Capponi di Pietro;
- aver assaltato sul colle di Pizzo, lungo la strada pubblica, Giacomo Stella di Giuseppe, derubandolo di 35 lire e trattenendolo per tutta la notte in un casone, rilasciandolo soltanto a seguito del pagamento di 300 lire effettuato dal fratello dello Stella;
- aver assaltato Giuseppe Lanteri di altro nel luogo dell’Arpiglia, sparandogli addosso;
- aver arrestato in un luogo detto Ravin, sulla strada pubblica, Giuseppe Capponi fu Antonio Maria;
- aver arrestato Pietro Maria Donzella nel luogo chiamato Arpiglia;
- aver rubato a Giambattista Dho alcune bestie vaccine, confessando tale furto a Gio Antonio Sasso, quando riscattò le bestie nelle Ville di San Sebastiano nella valle di Oneglia;
- essere reo di brigantaggio e barbetismo, esercitato nelle vicinanze di Triora e nella valle di Oneglia, e principalmente aver assaltato, armato di carabina, pistole e stili, in compagnia di alcuni complici, nei prati di Vallebella, terra della Lavina, Matteo Orzese, derubandolo dei denari, di un orologio d’argento, di uno schioppo da caccia e trattenendolo per circa due ore sopra la montagna di Vallebella, rilasciandolo solo dopo il pagamento di 500 lire.
Dopo l’elencazione delle contestazioni, l’imputato il 30 novembre venne invitato a discolparsi nel termine di tre giorni.
Non proferendo alcuna parola, anzi continuando a protestarsi innocente, il giudice trasmise gli atti al Tribunale di Sanremo. Qui il 10 maggio 1802 il presidente del Tribunale Gaudio, assistito dal capo aggiunto Saccheri, emise, presente l’imputato incarcerato in quelle carceri, la propria sentenza: Verrando Antonio detto Barraglia venne condannato a morte da eseguirsi per mezzo di pubblica fucilazione, ed in modo “che l’anima fosse depurata dal corpo e naturalmente morisse” con la refusione dei danni a favore delle vittime e la confisca dei propri beni a favore della Cassa Nazionale.
Il giorno successivo Pier Gio Rambaldi, ufficiale e protettore dei poveri carcerati, presentò una scrittura mediante la quale Antonio Verrando dichiarava di voler ricorrere contro la sentenza proferita. Era ormai troppo tardi. La giustizia seguì il suo corso: il 21 giugno fu ordinata l’esecuzione della sentenza ed il 23, all’ora di terza, il prigioniero venne fucilato.