E’ facile porre tributi ma in questo caso si va ad incidere sull’ENERGIA, un bene utilizzato da tutti visto che muove il mondo attorno a noi e senza il quale non sarebbe possibile vivere e svilupparsi. Dunque come in un gioco perverso, all’aumentare del costo energetico aumentano anche tutte le cose che vengono prodotte e vendute alla gente come in una spirale inflazionistica senza fine.
Analizziamo, voce per voce, per la quale è stata imposta la tassa e qual è oggi la sua attualità; alcune non hanno più senso [01 – 02], altre se adottate con criterio, possono ancora “dare una mano” [03- 05 – 06], altre ancora fanno pensare che non erano necessarie se non per aiutare le “Forze Armate” ovvero per far dire ai paesi della NATO “guarda che brava l’Italia, si fa carico di un servizio che avremmo dovuto fare tutti noi” [08 – 09], altre per aiutare il susseguirsi dei vari Governi di avere a disposizione aumenti ed appannaggi senza dire semplicemente “mi sono aumentato lo stipendio” e quindi sottostare a critiche nazionali ed internazionali[07 – 10 – 11 – 12 – 13 – 14 – 16], altri, ancora, per dare contributi solo sulla “carta” ma che nella realtà servono per altri scopi [15 – 17],
08 |
1983 +0,106 euro per la missione in Libano |
09 |
1996 +0,011 euro per la missione in Bosnia |
10 |
2004 +0,020 euro per contratto autoferrotranvieri |
11 |
2005 +0,005 euro per rinnovo autobus pubblici |
12 |
2011 6 aprile +0,0073 euro per finanziamento Fondo Unico Spettacolo |
13 |
2011 1 giugno +0,040 euro per emergenza immigrati |
14 |
2011 1 luglio +0,0019 euro per finanziamento FUS |
15 |
2011 1 novembre +0,0089 euro per alluvioni Liguria e Toscana |
16 |
2011 6 dicembre +0,082 euro con il decreto Salva Italia |
17 | 2012 30 maggio +0,020 euro per il terremoto in Emilia |
1935 + 0,001 euro per la guerra di Abissinia – La prima accisa che grava sul prezzo carburanti [1935 + 0,001 euro per la guerra di Abissinia], se la ricordano solo coloro che a quei tempi, poco più che ventenni [], furono obbligati a partire per la
guerra di Etiopia del 1935 (talvolta nota anche come guerra d’Abissinia o campagna d’Etiopia), Le più grandi potenze europee si vantavano di avere numerose colonie: alla fine dell’Ottocento, l’Impero Britannico [sempre lui] risultò vastissimo; non da meno fu quello francese, mentre Germania e Belgio ebbero un numero inferiore di colonie rispetto alle altre due, ma un numero ad ogni modo rispettabile. Alla fine dell’Ottocento, fu in possesso di sole due colonie in Africa orientale, l’Eritrea e gran parte della Somalia; nel 1902, ottennero una piccola concessione in Cina a Tientsin e, per ampliare il colonialismo italiano, bisogna attendere il 1912, anno in cui avvenne la conquista della Libia. L’opinione pubblica mondiale, che già da prima dell’invasione fu ostile, divenne irremovibile e l’Italia fu condannata dalla Società delle Nazioni che decise di applicare delle sanzioni; ben 52 Stati furono contro l’operato italiano; di seguito, la nazione che sarebbe diventata il nemico numero uno fu proprio l’Inghilterra di Churchill che, fino a poco tempo prima stimava il Duce.
Per le ingenti spese che lo Stato dovette affrontare per la campagna etiopica, il 18 dicembre 1935 venne indetta la giornata della fede (o dell’oro), giorno in cui tutti vennero invitati a donare la propria fede e altri ori personali; e per sopperire al mancato introito, lo stato impose, per sostenere la spedizione, l’imposta di 0,001 euro attuali – 2,23 € rapportati al 1935. Nelle campagne del Nord, al di fuori dai casi eclatanti ove parteciparono anche diversi antifascisti ed accademici come Pirandello, le donne donarono, con il gesto, le fedi di metallo. Meglio andò la raccolta nell’Italia meridionale.
Abissinia deriva dal termine Habasciàt,, nome di una delle tribù sudarabiche che contribuirono a fondare il regno di Aksum, conosciuto anche come regno degli Habasciàt. Gli Abissini sono i discendenti degli Aksumiti. Nella lingua araba il termine “habasc” significa “mescolanza di popolazioni”. Ed Abissinia sta ad indicare quella immensa regione che occupa buona parte dell’acrocoro etiopico e più precisamente la zona che va dai bastioni che guardano il Sudan fino a tutto l’altopiano eritreo e poi, in Etiopia, le provincie del Tigrai, del Beghemedìr, del Goggiam, del Uollo e gran parte dello Scioa. Comprende in pratica tutto l’altopiano che sta a nord dell’Auasc e del Nilo Azzurro. In altre parole l’Abissinia comprende una piccola parte dell’Eritrea e buona parte dell’Etiopia.
1956 + 0,007 euro per la crisi di Suez – Nasser era uno dei principali fautori della coalizione dei “non allineati”, quei paesi che si rifiutavano di schierarsi con Stati Uniti o Unione Sovietica, ma per rafforzare la sua posizione non esitò a firmare importanti accordi con il blocco sovietico per acquistare armi. Nell’estate del 1956, dopo mesi di scontri diplomatici e dopo un fallito tentativo di mediazione americana, Nasser annunciò a sorpresa la nazionalizzazione del canale di Suez, un’infrastruttura strategica per la navigazione globale fino ad allora di proprietà di una società anglo-francese.
Il 29 ottobre del 1956 l’esercito israeliano, segretamente d’accordo con i governi di Francia e Regno Unito, oltrepassò il confine egiziano e iniziò l’invasione della penisola del Sinai. L’obiettivo dell’operazione militare era la conquista del canale di Suez, che pochi mesi prima era stato nazionalizzato dal presidente egiziano Gamel Abdel Nasser, che lo espropriò ai suoi azionisti francesi e britannici. Il conflitto, durato appena otto giorni, segnò la fine delle ambizioni globali delle antiche potenze coloniali europee e l’affermazione di Israele come potenza militare del Medio Oriente, e chiarì a tutti che nel mondo erano rimaste soltanto due superpotenze: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
1963 + 0,005 euro per il disastro del Vajont- La catastrofe del Vajont è avvenuta nella notte del 9 ottobre del 1963 in una zona a cavallo fra le regioni del Friuli e del Veneto. Dal monte Tóc, situato nel comune di Erto e Casso in provincia di Pordenone, si staccò un’enorme frana che, precipitando nel lago artificiale sottostante, provocò una gigantesca ondata che si abbatté sugli abitati limitrofi e sulla cittadina di Longarone, radendola al suolo. L’8 ottobre 1963 di pomeriggio, nella piana sotto la diga, echeggiò l’ordine “rompete le righe”. Gli Alpini che avevano fatto il “campo”, sbaraccarono il tutto per fare ritorno al reparto. A molti di loro venne concessa una licenza di tre giorni; non si fecero pregare e partirono, in treno, immediatamente per fare ritorno al paese di naturale dimora.
Adriano, classe 1941, ancora oggi ricorda, mentre sul treno viaggiava verso casa, quel comunicato radio: “Oltre 3000 morti Longarone distrutto” – rabbrividì pensando che 24 ore prima era alla base, con altri commilitoni, della diga per “il campo estivo”. Alle 22:39 di quel giorno quasi 270 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dal monte Toc, scivolando nel sottostante neo-bacino elettrico artificiale del Vajont e provocando un’onda che superò di 200 metri in altezza il coronamento dell’omonima diga. L’acqua contenuta nel laghetto straripò, fino ad inondare il fondovalle e radere al suolo tutti gli abitati che vi erano situati. Vi furono 1917 vittime accertate: 1450 a Longarone – di queste quasi 500 erano ragazzi con meno di 15 anni – 109 a Codissago Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni.
Dai giornali dell’epoca: “Nel marzo del 1963, sotto la direzione degli ingegneri Mario Pancini e Alberico Biadene, che era diventato direttore del servizio costruzioni idrauliche dopo la morte di Carlo Semenza, il lago venne riempito fino all’altezza di 715 metri, quota che superava la misura di sicurezza fissata durante gli esperimenti di Nove. Poi fu ordinato di svuotare nuovamente il lago per controllare l’accelerazione della frana, la quale però ormai, sottoposta alle continue tensioni degli invasi e degli svasi, divenne incontenibile e precipitò rapidamente e compatta nel lago del Vajont ancora ricolmo d’acqua”
“Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 l’immane frana di più di due chilometri fece crollare nel lago del Vajont una massa di circa 300 milioni di metri cubi di roccia e terra che sollevò una colossale ondata di 48 milioni di metri cubi d’acqua. L’onda si alzò ed esplose in tre flussi: uno lambì e risparmiò Casso, un altro andò a colpire alcune località di Erto che si trovavano sulla sponda del lago – Pinéda (Ruáva), Prada, Marzana, Lirón, San Martino, Le Spesse, Fraséign, Il Cristo – spazzandole via. Il terzo piombò su Longarone con forza devastante, distruggendola completamente”.
“L’acqua, colpendo Erto, Longarone e le loro frazioni, ma anche i comuni adiacenti(Codissago e Castellavazzo), trascinò con sé famiglie, uomini, donne, bambini, case, terreni, boschi, animali, vite intere cancellate nel tempo di soli quattro minuti. Fu una strage: il bilancio delle vittime fu di quasi 2000 morti, annientati assieme a un territorio, una storia e una cultura che non hanno mai più riacquistato le loro fattezze originarie”.
I superstiti furono sfollati, meglio ancora si dispersero nelle città e nei paesi del nord Italia. ed in diversi luoghi della pianura friulana e bellunese, dove vennero anche costruiti due nuovi abitati per accogliere i superstiti, Vajont vicino a Maniago in provincia di Pordenone, e Nuova Erto a Ponte nelle Alpi in provincia di Belluno. I sopravvissuti dovettero convivere con il dolore e la rabbia per quanto era accaduto, cercando di recuperare una parvenza di normalità, in posti lontani da quella che fino a poco tempo prima era stata la loro terra, da quello che era stato tutto il loro mondo. Chi ha sposato Alberto, mio cugino primo, l’ha trovata. Solo diversi anni dopo Longarone fu riedificata e poté accogliere nuovamente i suoi abitanti e cominciare poco a poco a tentare di vivere.
1966 + 0,005 euro per l’alluvione di Firenze – Ero al liceo in quell’anno, molti dei miei compagni partirono per “dare una mano”: sono andati ad incrementare gli “angeli del fango”. Il dopo alluvione fu segnato dall’enorme solidarietà alle popolazioni colpite, che arrivò soprattutto dai giovani. In moltissimi accorsero a Firenze da tutto il paese e da tutto il mondo, in modo volontario, per spalare via il fango dalle case e delle cantine, ed aiutare nel difficile lavoro di recupero dei manoscritti della Biblioteca nazionale e delle opere d’arte degli Uffizi. Questi giovani vennero chiamati “gli angeli del fango”. Spesso erano gli stessi ragazzi che in tutta Italia iniziavano a partecipare alle contestazioni e alle ribellioni che sarebbero poi sfociate nel grande movimento del 1968.
Tutto iniziò a fine ottobre 1966, quando piogge incessanti caddero sull’intero bacino idrografico dell’Arno. Ad inizio novembre, una nuova ondata di maltempo fece letteralmente traboccare il vaso. Dal pomeriggio del 3 novembre caddero in molte zone della Toscana centinaia di millimetri di pioggia. La stazione di Badia Agnano, nell’alta valle dell’Arno registrò il valore record di 437.2 mm in 48 ore. Sempre nel pomeriggio del 3 novembre un aumento delle temperature portò allo scioglimento delle nevi che erano da poco cadute sull’Appennino, fatto che portò ad un ulteriore aumento delle portate degli affluenti, tutti senza argini, Arno compreso. Una valanga d’acqua invase Firenze nella notte del 4 novembre 1966. In serata iniziarono a verificarsi le prime esondazioni in provincia di Arezzo, e numerosi smottamenti e frane lungo il reticolo idrografico dell’Arno. Prima della mezzanotte ci furono sette vittime a Reggello, investite dalle acque in piena del torrente Resco. Da quel momento la situazione peggiorò di ora in ora, fino alla drammatica esondazione dell’Arno a Firenze, che avvenne a partire dalle 4 di notte del 4 novembre.
La piena eccezionale dell’Arno raggiunse, nel suo momento di picco, una portata di 4000 m3/s, ed il volume di acqua che entrò in città raggiunse i 230 milioni di metri cubi di acqua (dati dell’Autorità di Bacino dell’Arno). Gli effetti furono drammatici, non solo a Firenze ma anche in tutta la provincia: vi furono almeno 34 vittime, di cui 17 a Firenze e 17 nei comuni limitrofi. L’acqua esondata invase anche i Musei, le biblioteche antiche e le chiese della città, causando gravissimi danni alle opere d’arte ed al patrimonio storico. La gestione dell’emergenza in quell’evento catastrofico, almeno nella sua parte iniziale, fu disastrosa: ai dispacci allarmati inviati dai comandi militari della Toscana al Ministero della Difesa ed al Ministero degli Interni, si rispose da Roma con un invito alla calma e ad evitare inutili allarmismi. La città toscana e tanti centri minori rimasero totalmente in balia dell’esondazione, senza nessun preallarme, colte alla sprovvista.
Una testimonianza di quanto accaduto il 4 novembre 1966 è la celebre radiocronaca del giornalista della RAI Marcello Giannini, che quella mattina si trovava nell’ufficio della radio in pieno centro a Firenze. Per documentare quello che stava succedendo in città, calò un microfono da una finestra. Mezza Italia ascoltò in diretta il rumore dell’acqua impetuosa che invadeva le strade, gli schianti delle automobili trascinate dalla corrente. Questo non è un fiume: è la via Cerretani – disse il cronista in diretta. È il cuore di Firenze, invaso dall’acqua.
L’alluvione di Firenze del novembre 1966 non è stato certo l’unico evento catastrofico ad aver colpito l’Italia; Firenze era stata già colpita secoli prima da pesanti alluvioni, come quella del 1333, dove crollarono anche i ponti. Tuttavia l’esondazione dell’Arno a Firenze ha contribuito a gettare le basi di un nuovo modo di gestire il territorio. In un paese che aveva conosciuto a partire dagli anni ’50 un’incontrollabile e scriteriata crescita urbanistica, che non aveva tenuto minimamente in conto le zone di esondazione dei fiumi e gli equilibri naturali, non era cosa da poco.
I TERREMOTI
1968 +,0005 euro per il terremoto del Belice – Quindici anni dopo [1983] il terremoto che rase al suolo la valle del Belice, tornando da Selinunte, abbiamo percorso la SS n° 119 verso Palermo che attraversa tutta la zona definita valle del Belice. Da Castelvetrano a Partanna, S. Ninfa, Gibellina, Salaparuta. S.Ninfa era un ammasso di rovine; avanti a noi si presentava l’antica chiesa sventrata, il campanile che stava su come se ci fossero una schiera di Angeli che lo sorreggessero, le case attorno che non avevano più una forma. La deviazione iniziale era ormai diventata un obbligo. In lontananza su un crinale a nord c’era un agglomerato costruito ex novo molto bello ma vuoto. Ruotando attorno al vecchio paese ecco all’improvviso compare una vasta baraccopoli, strapiena di abitanti, dove la vita si svolgeva a ritmo serrato. La statale era stata ricostruita a doppio senso di marcia ed a due corsie. Purtroppo si interrompeva davanti ad un torrente. Lungo questa tratta, abbiamo incontrato un solo carro, di quelli a due ruote, pieno di masserizie, trainato da un povero somaro e accompagnato da un cagnetto che gli saltellava tra le zampe.
Arrivate alla pensione di Cefalù dove eravamo alloggiati, durante la cena abbiamo chiesto delucidazioni ad una nobildonna che soggiornava pure lei nella pensione, del perché dopo così tanto tempo, nel nuovo paese non c’era nessuno mentre la baraccopoli pullulava di gente. La risposta è stata lapidaria: “E bravi voi! Se dovessero [gli abitanti] abbandonare le baracche e trasferirsi nelle nuove case, perderebbero tutto quello che lo Stato gli dà ! ovvero fin che stanno li sono esenti da imposte e nello stesso tempo perderebbero gas, luce e telefono gratis”.
La prima forte scossa si avvertì alle ore 13:28 locali del 14 gennaio, con gravi danni a Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale; una seconda alle 14:15. Nelle stesse località ci fu un’altra scossa molto forte, che fu sentita fino a Palermo, Trapani e Sciacca. Due ore e mezza più tardi, alle 16:48, ci fu una terza scossa, che causò danni gravi a Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa e Vita. Nella notte, alle ore 2:33 del 15 gennaio, una scossa molto violenta causò gravissimi danni e si sentì fino a Pantelleria. Ma la scossa più forte si verificò poco dopo, alle ore 3:01, di magnitudo momento 6,4 che causò gli effetti più gravi. A questa seguirono altre 16 scosse.
Il 15 gennaio non si ebbe l’immediata sensazione della gravità del fatto dato che a quel tempo la zona interessata non era considerata critica dal punto di vista sismico. Il terremoto venne sottovalutato nella sua entità al punto che molti quotidiani riportarono la notizia di pochi feriti e qualche casa lesionata.
I primi soccorsi giunti in prossimità dell’epicentro, approssimativamente posto tra Gibellina, Salaparuta e Poggioreale, trovarono le strade quasi risucchiate dalla terra. In conseguenza di ciò molti collegamenti con i paesi colpiti erano ancora impossibili ventiquattro ore dopo il violento sisma. Ciò rese ancora più confusa l’opera dei soccorritori già poco coordinati e gli interventi furono del tutto frammentati. Dopo decenni di interminabili lavori, la valle del Belìce si è lentamente risollevata e gli antichi paesi della valle sono stati in gran parte ricostruiti in luoghi distanti da quelli originari interessati dal terremoto: nuove abitazioni, infrastrutture urbanistiche e stradali hanno riportato condizioni di vivibilità ma hanno anche profondamente modificato il volto di quella parte della Sicilia.
1976 + 0,051 euro per il terremoto del Friuli – Alla luce delle candele, dei fari alimentati dai compressori a gasolio, dalle fotoelettriche, chi con picchi, chi con badili, chi a mani nude, una moltitudine di persone [i superstiti] scavavano, nel cuore della notte, per estrarre dai detriti chi chiedeva aiuto.
L’esercito, i Vigili del Fuoco, i Volontari della protezione civile, i corpi di Polizia, tutti quelli che rappresentavano una istituzione, quelli vennero dopo. «Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto.» (Gianni Rodari, 8 maggio 1976, Paese Sera) |
«Il Friuli ringrazia e non dimentica.» (Frase utilizzata dai friulani come ringraziamento per l’aiuto ricevuto) |
«Prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese.» (mons. Alfredo Battisti, arcivescovo di Udine, 12 maggio 1976) |
Il terremoto del Friuli del 1976, soprannominato dai locali Orcolat (Orco in lingua friulana), fu un sisma di magnitudo 6.5 della scala Richter che colpì il Friuli, e i territori circostanti, alle ore 21:00:12 del 6 maggio 1976, con ulteriori scosse l’11 e 15 settembre.
L’8 maggio, a due giorni dal sisma, il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia stanziò con effetto immediato 10 miliardi di lire. Il Governo Andreotti III nominò il 15 settembre Giuseppe Zamberletti Commissario straordinario del Governo incaricato del coordinamento dei soccorsi. Gli fu concessa carta bianca, salvo approvazione a consuntivo, che regolarmente il Parlamento approvò. In collaborazione con le amministrazioni locali, i fondi statali destinati alla ricostruzione furono gestiti direttamente da Zamberletti assieme al governo regionale del Friuli-Venezia Giulia. Circa 40.000 sfollati passarono l’inverno sulla costa adriatica, per rientrare tutti entro il 31 marzo 1980 in villaggi prefabbricati costruiti nei rispettivi paesi. La ricostruzione totale durò 10 anni.
Finito il mandato di Zamberletti, il governo regionale del Friuli-Venezia Giulia, grazie ad un’attenta ed efficiente gestione delle risorse, poté, nell’arco di circa dieci anni, ricostruire interi paesi. Ancora oggi il modo in cui venne gestito il dramma post terremoto, viene ricordato come un alto esempio di efficienza e serietà. Il conto dei contributi statali per la ricostruzione del Friuli ammontava a 12.905 miliardi di lire a fine 1995; secondo altre fonti, a 29.000 miliardi di lire. Il motore della ricostruzione fu assicurato da 500 miliardi di lire destinati alla ripresa economica, mentre il resto dei fondi fu affidato in gestione alle amministrazioni locali, che effettuarono controlli efficaci e rigorosi sugli standard di ricostruzione.
Gli Stati Uniti d’America contribuirono generosamente con assistenza subito dopo le prime scosse tramite la vicina Base aerea di Aviano e anche con una grossa somma di denaro (circa 100 milioni di dollari) alla ricostruzione del Friuli e fornirono tende da campo, mezzi ed attrezzature direttamente nelle mani dell’Associazione Nazionale degli Alpini e non nelle mani del Governo italiano di cui non si fidava. (fonte Giornali dell’epoca)[] Immediatamente dopo le scosse il Governo austriaco, per aiutare le popolazioni, inviò il proprio esercito sul territorio italiano violando, all’epoca, diversi trattati internazionali. Il disastro diede inoltre un importante impulso alla formazione della protezione civile.
Nell’aprile 1998 Gemona venne così descritta, dopo una nuova minima scossa, da Luigi Offeddu, inviato del Corriere della Sera: «Gruppi di turisti fotografano il Duomo e passeggiano sotto i portici di via Bini. Duomo e portici che sembrano così com’erano prima del 6 maggio 1976, ma che invece l’orcolat aveva frantumato, e che la gente ha ricostruito pezzo per pezzo secondo il procedimento chiamato anastilosi: raccogliere ogni pietra, numerarla, ricollocarla al suo posto. Ancora oggi, su alcune pietre dei portici si legge un numero. Ma quel numero, insieme a uno spezzone della chiesa della Madonna delle Grazie, è l’unica traccia che ricordi il passaggio dell’orco».
La zona più colpita fu quella a nord di Udine. Fu inizialmente indicato che l’epicentro della scossa era nella zona del Monte San Simeone, successivamente gli epicentri sono stati due. Il primo epicentro macrosismico è stato situato tra i comuni di Gemona e Artegna, il secondo epicentro strumentale localizzato più a est fra Taipana e Lusevera, attribuendo all’evento una magnitudo 6,5. Nel terremoto del Friuli entrano in gioco molte faglie. “Ci sono vari studi sull’epicentro e sulle faglie coinvolte nel sisma, non tutti concordanti. Uno degli studi più citati è quello di Aoudia e altri (2000) che colloca l’epicentro nel gruppo del monte Chiampon, nei pressi di Pradielis e Cesariis. Secondo tale studio, “il terremoto del Friuli del 1976 è da mettere in relazione ad una piega connessa a faglia che evolve da fagliazione cieca sotto le strutture di basamento del monte Bernadia e del monte di Buia, a faglia semi-cieca sotto la struttura neogenica del monte Susans e che finisce nella piega di Ragogna”.
I danni furono amplificati dalle particolari condizioni del suolo, dalla posizione dei paesi colpiti, quasi tutti posti in cima ad alture, e dall’età avanzata delle costruzioni. I paesi andati distrutti non avevano infatti riportato danni rilevanti nella prima e nella seconda guerra mondiale, a differenza di San Daniele del Friuli che fu semidistrutta dai bombardamenti aerei del 1944, e che aveva dovuto ricostruire gran parte della sua struttura urbana con criteri moderni; la città pagò comunque gravi danni al patrimonio artistico con la devastazione delle chiese e degli antichi palazzi di fattura medievale, e il crollo di una manciata di edifici del centro storico provocò molte vittime. La scossa, avvertita in tutto il Nord Italia, investì principalmente 77 comuni italiani con danni, limitati, Anche la zona dell’alta e media valle del fiume Isonzo in territorio jugoslavo (in Slovenia) venne colpita, interessando in particolare i comuni di Tolmino, Caporetto, Canale d’Isonzo e Plezzo.
I danni del terremoto del maggio 1976 furono amplificati da altre due scosse, a fine dell’estate.
L’11 settembre 1976 la terra tremò di nuovo: si verificarono infatti due scosse alle 18:31 (Mw 5.3) e alle 18:35 (Mw 5.6). Il 15 settembre 1976, prima alle ore 5:15 e poi alle ore 11:21, si verificarono due ulteriori forti scosse, rispettivamente di magnitudo 5.9 e 6.0. I comuni di Trasaghis, Bordano, Osoppo, Montenars, Gemona del Friuli, Buja, Venzone e la frazione di Monteaperta, le località maggiormente colpite, furono fortemente danneggiati. La popolazione di quei comuni fu trasferita negli alberghi di Grado, Lignano Sabbiadoro, Jesolo e altre località marittime. Là furono ospitati anche i terremotati di altri comuni, rimasti senza alloggio. Nonostante una lunga serie di scosse di assestamento, che continuarono per diversi mesi, la ricostruzione fu rapida e completa.
1980 + 0,039 euro per il terremoto dell’Irpinia – Le riprese televisive che il giorno dopo commentavano e davano notizie dell’immane sisma, più di una volta facevano sentire la voce di chi, seduto in un angolo, si domandava dove erano i militari dell’esercito che avrebbero dovuto scavare per estrarre eventuali superstiti. Purtroppo degli uomini validi locali non c’era nessuno che spostasse un mattone.
Da Leinì, comune a 30 km da Torino, una ditta di Camper e Roulotte, organizzò una carovana di mezzi per portare conforto alle popolazioni; non solo veicoli ma anche coperte e vestiti. In testa al convoglio anche un insegnante della scuola media locale che aveva i genitori in un paese nei pressi di Sant’Angelo dei Lombardi. Non senza difficoltà riuscirono ad arrivare nei luoghi terremotati. All’ingresso del paese cui erano diretti, furono fermati e gli comunicarono l’ordine di non recapitare i mezzi e le coperte e vestiti, ma di portarli tutti a Napoli. Dopo un rapido conciliabolo, la carovana “girò i tacchi” e ritornò a Leinì.
L’entità drammatica del sisma non venne valutata subito; i primi telegiornali parlarono di una «scossa di terremoto in Campania» dato che l’interruzione totale delle telecomunicazioni aveva impedito di lanciare l’allarme. Soltanto a notte inoltrata si cominciò a evidenziarne la più vasta entità. Da una prospezione effettuata nella mattinata del 24 novembre tramite un elicottero vennero rilevate le reali dimensioni del disastro. Uno dopo l’altro si aggiungevano i nomi dei comuni colpiti; interi nuclei urbani risultavano cancellati, decine e decine di altri erano stati duramente danneggiati. Nei tre giorni successivi al sisma, il quotidiano Il Mattino di Napoli enfatizzò la descrizione della catastrofe. Il 24 novembre il giornale titolò Un minuto di terrore – I morti sono centinaia, in quanto non si avevano notizie precise dalla zona colpita, ma si era a conoscenza solo di un crollo in via Stadera a Napoli.
Il 25 novembre, appresa la vastità e gravità del sisma, si passò a dire che i morti sono migliaia – 100.000 i senzatetto, fino al titolo drammatico del 26 novembre “Cresce in maniera catastrofica il numero dei morti (sono 10.000?) e dei rimasti senza tetto (250.000?) – FATE PRESTO per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla”. La cifra dei morti, approssimata per eccesso soprattutto a causa dei gravi problemi di comunicazione e ricognizione, fu poi ridimensionata fino a quella ufficiale, ma la cifra dei senzatetto non è mai stata valutata con precisione.
L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha appurato che l’area interessata ha subìto tre distinti fenomeni di rottura lungo differenti segmenti di faglia, succedutisi in circa 40 secondi. Tali segmenti sono stati localizzati sotto i monti Marzano, Carpineta e Cervialto. Dopo circa 20 secondi la rottura si è propagata verso SE in direzione della Piana di San Gregorio Magno. Dopo 40 secondi, localizzata a NE del primo segmento, si è verificata la terza rottura di faglia. La frattura ha raggiunto la superficie terrestre generando una scarpata di faglia [] ben visibile per circa 35 km. Studiando le registrazioni delle repliche dell’evento si evince una struttura crostale molto eterogenea, come dimostrato dalle variazioni della velocità delle onde mostrata a differenti profondità, e un processo di rottura estremamente complesso.
Lo scavo di trincee lungo la scarpata di faglia ha permesso di riconoscere e datare forti terremoti predecessori del 1980, avvenuti sulla faglia irpina. Questi risultati dimostrano che la faglia responsabile del terremoto dell’Irpinia ha generato in passato terremoti simili a quello del 1980 e che tali eventi si succedono nel tempo con frequenza di circa 2000 anni. Il sisma si verificò il 23 novembre 1980 e colpì la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale, con una magnitudo di 6,9 (decimo grado della scala Mercalli) con epicentro tra i comuni di Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania, causò circa 280.000 sfollati, 8.848 feriti e, secondo le stime più attendibili, 2.914 morti. Il distretto sismico dell’Irpinia è stato colpito nel corso dei secoli da numerosi terremoti distruttivi con gravi perdite umane e materiali. Il terremoto colpì alle 19:34:53 di domenica 23 novembre 1980: una forte scossa della durata di circa 90 secondi, con un ipocentro di circa 10 km di profondità, su un’area di 17.000 km² che si estendeva dall’Irpinia al Vulture, posta a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza. I comuni più duramente colpiti furono quelli di Castelnuovo di Conza, Conza della Campania, Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Senerchia, Calabritto e Santomenna.
«Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi» (Sandro Pertini al TG2 Studio Aperto del 25 novembre 1980) |
Al di là del patrimonio edilizio, già fatiscente a causa dei terremoti del 1930 e 1962, un altro elemento che aggravò gli effetti della scossa fu il ritardo dei soccorsi. I motivi furono molteplici: la difficoltà di accesso dei mezzi di soccorso nelle zone dell’entroterra, dovuta all’isolamento geografico delle aree colpite e al crollo di ponti e strade di accesso, il cattivo stato della maggior parte delle infrastrutture (tra cui quelle per l’energia elettrica e le radiotrasmissioni, il cui danneggiamento rese quasi impossibile le comunicazioni a distanza) e l’assenza di un’organizzazione come la Protezione Civile che consentisse azioni di soccorso in maniera tempestiva e coordinata. Il primo a far presente questa grave mancanza fu il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Il 25 novembre, nonostante il parere contrario del presidente del Consiglio Forlani e altri ministri e consiglieri, Pertini si recò in elicottero sui luoghi della tragedia, dove lo aspettava l’allora Ministro degli affari esteri, il potentino Emilio Colombo.
Di ritorno dall’Irpinia, in un discorso in televisione rivolto agli italiani, l’allora Capo dello Stato denunciò con forza il ritardo e le inadempienze dei soccorsi, che sarebbero arrivati in tutte le zone colpite solo dopo cinque giorni. Le dure parole del presidente della Repubblica causarono l’immediata rimozione del prefetto di Avellino Attilio Lobefalo, e le dimissioni (in seguito respinte) del Ministro dell’interno Virginio Rognoni. Il discorso del Capo dello Stato ebbe come ulteriore effetto di mobilitare un gran numero di volontari che furono di grande aiuto in particolare durante la prima settimana dal sisma. L’opera dei volontari fu in seguito pubblicamente riconosciuta anche con una cerimonia a loro dedicata in Campidoglio, a Roma. Molti Paesi, in seguito alla notizia del terremoto, si attivarono per inviare alle popolazioni colpite non solo soldi per la ricostruzione, ma anche unità militari e personale specializzato.
Sul modello del terremoto del Friuli, la ricostruzione anche in Irpinia venne incentrata sul rilancio industriale, nonostante il territorio non presentasse caratteristiche industriali già da prima del sisma, la pioggia di contributi costituì una tentazione irrefrenabile per molti. Il meccanismo di captazione dei fondi pubblici prevedeva la costituzione di imprese che fallivano non appena venivano intascati i contributi. I finanziamenti arrivarono talmente concentrati da non riuscire ad essere spesi. In sette anni, ventisei banche cooperative aprirono gli sportelli nella zona terremotata (nove nella sola provincia di Avellino), arrivando a fare prestiti alle imprese del Nord Italia.
La ricostruzione fu, però, anche uno dei peggiori esempi di speculazione su di una tragedia. Infatti, come testimonia tutta una serie di inchieste della magistratura, durante gli anni si sono inseriti interessi loschi che dirottarono i fondi verso aree che non ne avevano diritto [ciò avviene ancora oggi nella regione Liguria], moltiplicando il numero dei comuni colpiti: 339 paesi in un primo momento, che diventarono 643 in seguito a un decreto dell’allora presidente del Consiglio Arnaldo Forlani nel maggio 1981, fino a raggiungere la cifra finale di 687, ossia quasi l’8,4% del totale dei comuni italiani. Più di settanta centri furono integralmente distrutti o seriamente danneggiati e oltre duecento ebbero consistenti danni al patrimonio edilizio. Centinaia di opifici produttivi e artigianali furono cancellati con perdita di migliaia di posti di lavoro e danni patrimoniali per decine di migliaia di miliardi di lire.
Il numero dei comuni colpiti, però, fu alterato per losche manovre politiche e camorristiche lievitando nel corso degli anni. Alle aree colpite, infatti, venivano destinati numerosi contributi pubblici (stime del 2000 parlano di 5.640 miliardi nel corso degli anni), ed era interesse dei politici locali far sì che i territori amministrati venissero inclusi in quest’area.
Alesben B.