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Tra Ustica e il ‘caso Teardo’. Il defunto generale Bozzo torna alla ribalta


Scomparso nel 2018 il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo è tornato alla ribalta nella memoria collettiva attraverso le rivelazioni fornite da Giuliano Amato circa la tragica vicenda di Ustica.

di Franco Astengo

L’ing. Rocco Peluffo (compianto), da presidente della Campanassa, consegnava un attestato di benemerenza all’allora generale Nicolò Bozzo, già comandante del Gruppo di Savona

Nicolò Bozzo carabiniere e figura straordinaria della Prima Repubblica uno dei più stretti collaboratori di Carlo Alberto Dalla Chiesa; uno che aveva personalmente denunciato i suoi colleghi iscritti alla P2; uno che poi ha goduto della totale fiducia del pool Mani Pulite, che gli affidò la consegna del primo avviso di garanzia all’allora premier Silvio Berlusconi. “Nei secoli fedele allo Stato”, come ha intitolato la sua biografia scritta con Michele Ruggiero nel 2006.

Il generale Bozzo collaborò anche alle indagini sul caso Ustica,  in particolare riferì al giudice Priore importanti spunti investigativi sull’attività della base francese di Solenzara la notte del 27 giugno 1980, acquisiti anche in qualità di testimone oculare trovandosi per caso in Corsica e sull’esistenza di un piano per eliminare Gheddafi.

A Savona però il generale Bozzo è ricordato come un protagonista del “Caso Teardo”.

Nel 1983, infatti, con il grado di colonnello, era il comandante provinciale dei carabinieri e prese l’iniziativa di fornire ai due giudici Francantonio Granero e Michele Del Gaudio che stavano indagando sulle malversazioni del “clan” la sede – appunto quella della caserma dei carabinieri in Corso Ricci – per proseguire nelle loro indagini allentandosi dalla sede del Tribunale (allora in Palazzo Santa Chiara/Della Rovere) nella quale pullulavano spie e soffiavano venti contrari al loro lavoro.

Così fu che proprio dalla Caserma di Corso Ricci il 14 giugno 1983 partisse l’ordine di cattura per Teardo e alcuni dei suoi sodali. L’esponente socialista si era appena dimesso dalla presidenza della Regione Liguria per candidarsi alla Camera dei Deputati e la campagna elettorale era nel suo pieno corso.

Nei giorni seguenti si verificarono altri arresti di esponenti dello stesso PSI e della DC: alla fine del processo quasi tutti gli imputati furono condannati per corruzione e associazione a delinquere semplice (non fu riconosciuto lo “stampo mafioso”): risultarono assolti l’ex-deputato socialista Paolo Caviglia e il sindaco di Borghetto Santo Spirito, l’architetto Pier Luigi Bovio, iscritto al PCI.

Teardo era già al centro da qualche tempo, anche grazie alle denunce avanzate dall’ avv. Carlo Trivelloni consigliere comunale della Sinistra Indipendente, di un forte iniziativa legata alla “questione morale”: polemica politica rafforzata, nel 1981, allorquando il magistrato Gherardo Colombo aveva sequestrato, a Castiglion Fibocchi in provincia di Arezzo, le liste degli appartenenti alla loggia massonica segreta P2 di Licio Gelli. In quegli elenchi assieme a quelli di Silvio Berlusconi, Fabrizio Cicchitto, di generali, uomini politici, uomini d’affari, giornalisti, personaggi dello spettacolo figurava anche il nome di Alberto Teardo.

Eppure quasi nessuno volle riconoscere l’effettiva natura e dimensione di quell’episodio che risultava, invece, essere assolutamente anticipatore di “Tangentopoli”.

La configurazione di quei fatti e il tipo di problemi che, in allora, si posero alle forze politiche, avrebbero dovuto promuovere un ragionamento in profondità, da svilupparsi proprio mentre si stavano scoprendo i diversi tasselli istituzionali.

Com’era allora configurabile il fenomeno concreto con il quale ci si trovò a dover fare i conti? La “questione morale savonese” presentava, rispetto ad altri fenomeni apparentemente analoghi elementi di assoluta originalità.

Non si trattava soltanto di una “centrale” collettrice di tangenti, ma di un fenomeno di contropotere organizzato in cui erano poteri extra-legali (appunto le logge massoniche “coperte”) a determinare gli assetti politici e gli atti concreti della Pubblica Amministrazione al di fuori da qualsiasi possibilità di controllo democratico. Lo stesso rapporto con la società che era stato instaurato da questo potere extra-legale non risultava essere di natura classicamente clientelare (per cui si sarebbe potuto parlare semplicemente di reciproco favoritismo tra società civile e ceto politico) ma riguardava invece, un fenomeno di vera e propria “progettualità criminale” che puntava a contaminare (realizzando l’obiettivo) i diversi settori della politica, delle professioni, dello stesso mondo del lavoro.

Era quello il punto, che riconosciuto adeguatamente, avrebbe dovuto portare da subito a considerare Savona un “caso nazionale”.

Rammentare quella vicenda anche nei suoi risvolti politici più complessivi collegandola agli eventi successivi di Tangentopoli può far risaltare il ritardo di analisi sulla questione morale e far riflettere sulla debolezza delle contromisure che furono assunte in allora, lasciando che la Magistratura svolgesse, come in tante altre occasioni nella storia d’Italia, un funzione di supplenza rispetto ad un agire politico e amministrativo costantemente in ritardo. Un ritardo che ha pesato e pesa ancora sull’insieme del nostro sistema quale componente ben presente nella determinazione di una ormai atavica fragilità legata alla debolezza internazionale (caso Ustica) e alla strisciante “questione morale” (alla base del deficit di credibilità e autorevolezza di una classe politica che ormai ha smarrito anche l’identità che il sistema dei partiti poteva comunque fornire).

Franco Astengo


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F.Astengo

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