Aldo Moro e l’articolo mai pubblicato da Il Giorno che titolava: ‘Comunisti nel governo? L’America ci dà consigli, ma limita la politica’. Gero Grassi: “Gli Usa temevano che l’Italia diventasse un altro Cile”. L’ex capogruppo Pd alla Camera custodiva in copia quel testo in cui lo statista Dc apriva ai comunisti al governo e rivendicava una maggiore autonomia dell’Italia. Un progetto osteggiato da Kissinger.
“Quell’articolo, mai pubblicato dal Giorno, era fra le tesi di laurea degli studenti nella borsa di Aldo Moro, rimasta sul sedile della Fiat 130 da dove 45 anni fa le Brigate Rosse lo portarono via”.
Gero Grassi, ex vicecapogruppo Pd alla Camera, fra i promotori dell’ultima commissione d’inchiesta sul rapimento e l’omicidio dello statista democristiano, custodiva in copia quel testo dimenticato, inedito, “se non per una fugace apparizione sul Popolo (l’organo della Dc) o La Discussione (storica rivista democristiana), quell’articolo è sempre stato ignorato”.
” Il Giorno, con cui Moro collaborava dal 1977, decise di non pubblicarlo. Per lui il quotidiano milanese era importante, autorevolmente legato allo Stato, perché di proprietà dell’Eni, ma indipendente e sufficientemente libero da pubblicare articoli su temi innovativi”.
La novità di questo 2023 è indubbiamente la pubblicazione su Il Quotidiano nazionale (giornale controllato adesso dalla famiglia Monti Riffeser che raduna le testate di Giorno, Nazione e Resto del Carlino) dell’articolo inedito di Aldo Moro che l’allora direttore de Il Giorno, Gaetano Alfetra, non ritenne opportuno pubblicare perché troppo critico verso l’invadenza della politica di Washington relativamente all’accordo tra Dc e Pci che è conosciuto come “compromesso storico”.
Colpisce la decisione della non pubblicazione dell’articolo del presidente della Dc da parte del direttore di un quotidiano controllato dell’Eni, gigante petrolifero pubblico.
L’attualità del pensiero politico di Aldo Moro emerge su vari fronti. Ad esempio Marco Tarquinio in un dibattito recente all’istituto Sturzo, a proposito dell’eclisse dei cattolici in politica, ha detto che solo una persona della statura di Moro avrebbe permesso all’Italia di giocare un ruolo originale nel contesto della guerra in Ucraina, in conformità alla prospettiva aperta nel 1975 con la conferenza di Helsinki sulla cooperazione e la sicurezza in un’Europa capace di andare dall’Atlantico agli Urali.
Nella lunga intervista concessa, a suo tempo, a Città Nuova da Giuseppe Fioroni, presidente della più recente commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro, l’esponente ex popolare, da poco uscito dal Pd, ha sottolineato che le scelte compiute dal presidente della Dc «a livello nazionale e internazionale rompevano degli equilibri precostituiti, rendendolo inviso al blocco occidentale e a quello dell’Est».
La conclusione della commissione d’inchiesta ha messo in evidenza molte incongruità, come ad esempio il caso del bar Olivetti in via Fani. «È sorprendente – secondo Fioroni – che in questi ultimi decenni non sia emersa l’anomalia di questo locale di via Fani, dove non si facevano cornetti e caffè, ma si assemblavano armi destinate alla destra eversiva e alla mafia, ai terroristi rossi e alla banda della Magliana. È un particolare che non è stato indagato a fondo, probabilmente perché allora il traffico di armi, come quello odierno della droga, era una zona grigia che impolverava troppe persone. È emerso, tra l’altro, il rapporto tra Olivetti e settori, non si sa se deviati, dei servizi segreti. Chi provò in quegli anni a denunciarlo fu ritenuto un mitomane in base ad una perizia affidata al criminologo Aldo Semerari (studioso della Sapienza di Roma, ma anello di congiunzione tra destra eversiva e malavita organizzata, ndr)».
Sul sito dell’associazione articolo 21, Piero Badaloni, noto ex giornalista Rai e già presidente della Regione Lazio, rievoca altre enormi anomalie, come il fatto che, dopo la prima lettera scritta dalla prigionia, l’allora ministro degli Interni, Francesco Cossiga, «creò un comitato per la gestione della crisi: 11 dei 12 componenti erano iscritti alla P2. Come primo atto, accusarono Moro di essere vittima della sindrome di Stoccolma. Un evidente modo per provare a screditarlo, come fecero poi in molti, mettendo in dubbio l’autenticità delle sue lettere».
Sempre Badaloni mette in evidenza il fatto che «nelle tre lettere inviate successivamente al segretario della Dc Zaccagnini, Moro si domandò se nel tener duro contro di lui, non vi fosse una indicazione americana o tedesca». E in tal senso non può non colpire il fatto che «neanche il tentativo socialista di proporre ai brigatisti lo scambio di Moro con un loro compagno detenuto, malato e non implicato in eventi sanguinosi, riuscì a modificare la posizione» della fermezza nel chiudere ad ogni trattativa per la liberazione dello statista Dc, al contrario di quanto era già avvenuto in Germania con il leader democristiano Peter Lorenz rapito dal “movimento 2 giugno”.
Secondo Fioroni il cosiddetto memoriale Morucci (una ricostruzione dei fatti che prende il nome di uno dei brigatisti) è stata «un’opera a più mani, utilizzata per definire le “verità dicibili”, nell’ottica di chiudere la lunga notte degli anni di piombo».
Occorre perciò cercare ancora la verità sul caso Moro. Ad ucciderlo «sono state le Br – precisa Fioroni – ma è innegabile, e questo pesa come un macigno, che ci sia stata superficialità, sciatteria e vera e propria omissione da parte di chi poteva evitare l’esito tragico di quella vicenda. Anche da parte di servizi segreti stranieri. Una conferma delle legittime domande e inquietudini che toccano questa vicenda riguarda il caso del palazzo di via Massimi di proprietà dello Ior, rifugio sicuro per il terrorista Gallinari, luogo dello scambio delle macchine del sequestro, ma anche sede coperta di servizi segreti italiani e libici. Possibile che nessuno si sia mai accorto di nulla?».