Cari amici, sono reggiano e ho visto con i miei occhi o con quelli dei miei genitori e nonni tutto ciò che il novecento ci ha portato.
di Sergio Bevilacqua
Un Paese Italia che nasceva, che combatteva per la sua esistenza, che coglieva opportunità storiche e fortunate per il periodo, che s’irrigidiva e tentava il colpaccio, che perdeva, che si confondeva le idee, che abbracciava la democrazia, che la maltrattava, che si puniva, non riusciva a uscire dalla crisi d’identità; un Paese che aveva almeno 10 volte la ricchezza culturale e varietà di ogni altro Paese del mondo (sic), che cercava ossigeno in Europa e in Occidente, un Paese amato da tutto il mondo, baciato dalla sorte per bellezza e easy life corrente, un inferno burocratico e amministrativo, che per metà cerca diversi equilibri rispetto a quelli legittimi, pieno di menti che non riescono ad elaborare la sua enorme varietà, preda di opportunisti, pieno di brava gente. E poi molto altro.
Ho visto la città attraverso cui ho capito tutto questo, Reggio Emilia dove sono nato e vissuto fino al Liceo (classico Ludovico Ariosto, grande scuola!), cambiare radicalmente, più di ogni altra città italiana: da chiusa comunità emiliana, provincia storica sia di Parma che di Modena e Ferrara, affrontare un vero tsunami di immigrazione, dove quelli che sospettavano differenze e stilavano giudizi per inezie (ah, la provincia!) sono stati sommersi dalla più grande varietà: musulmani, africani, indiani, cinesi hanno cercato qui più benessere e hanno sommerso la semplicità millenaria reggiana dell’agricoltore e dell’astuto piccolo e medio industriale che aveva capito l’uso delle macchine e della forza lavoro.
Tutto sommerso, tutto investito dall’onda della più grande rivoluzione umana mai esistita: dentro e fuori, sopra e sotto. Quattro rivoluzioni insieme hanno colpito tutti e i reggiani altrettanto: la globalizzazione, l’antropocene, la mediatizzazione estrema, la emersione della donna in tutte le funzioni della vita sociale.
E dunque, la piccola Reggio Emilia?
Prima (inizio anni ’90), viene identificata dal Ministero degli Interni come principale porto padano dell’ondata migratoria in arrivo: lo Stato aveva visto giusto, pur rischiando, considerando che Reggio avrebbe avuto più possibilità delle altre città padane di assorbire il fenomeno eccezionale. Reggio non era preparata, nessuna città italiana la era. E allora? I reggiani si sono chiusi a riccio, ma sono padani e ben disposti verso la vita e quindi hanno pian piano aperto alle nuove genti le funzioni vitali, con la parsimonia tipica della cultura contadina e l’opportunismo astuto dell’organizzazione industriale: hanno dato lavoro, hanno sopportato la divisione dei servizi moderni (imperfetti eh, ma presenti) con questi esseri umani alieni, hanno allargato le spalle della città e, senza un disastro, hanno dato un tetto, un lavoro e una dignità a tutti quelli che arrivavano. La secolare serenità civile è stata scossa, ma i reggiani hanno sopportato, e così la seconda generazione di immigrati multietnici si è integrata abbastanza, ha ricostituito forme culturali sue proprie nell’humus del welfare nostrano e la gestione dei flussi migratori è divenuta una funzione stabile della vita civile.
Le istituzioni, nei limiti del caso italiano, sono state abbastanza vicine alla città. Hanno assecondato la sua evoluzione, condotta, va detto, molto più dal popolo che dalle amministrazioni locali alle quali però va riconosciuto che abbiano fatto anche la loro parte, non tutto né particolarmente bene, ma le voci fondamentali sì. E non è stata questione di ideologia o di visione del mondo: lo spirito degli uomini di pianura ha guidato l’organismo sociale, il senso di umanità e comunitario ha operato per raggiungere questi stati stazionari, ben di più delle strategie politiche.
Ora Reggio è una strana città: la sua dimensione storica e culturale d’origine, fragile e secondaria nel quadro emiliano degli ultimi secoli, è diventata ferrea base di una città-rete, che accoglie e alimenta. Da una parte, sfuma nel tessuto civile circostante, in Modena, Parma e Bologna riguardo all’emilianità, dall’altra nelle metropoli italiane collegate più o meno tutte in circa due ore (Milano, Torino, Venezia, Genova, Firenze, Roma e perfino Napoli) riguardo al cosmopolitismo, che apre a quel mondo multietnico e globale, olistico, che è il mondo di oggi.
Rivoltata come un guanto, l’area reggiana è diventata a sorpresa una potenziale capitale.
La società della resistenza, civile e culturale, che ha stretto i denti e traghettato Reggio dove è ora, ha finito il suo ciclo: l’ha dotata di una grande Università ove già le diverse etnie condividono i banchi, di infrastrutture di cui essere fieri come la stazione Mediopadana dell’Alta Velocità ferroviaria, di servizi pubblici decorosi e di un settore del volontariato e di assistenza che funziona, bene o male, per le esigenze di un nuovo popolo, irriconoscibile rispetto a quello degli anni ’80. E, come accade alle piante robuste e rigide, ora è in crisi un’altra volta; i reggiani tutti (quelli del confuso melting pot contemporaneo) avvertono una insufficienza, ma prima di tutto è proprio la pianta stessa a mettersi in discussione: il monolitismo che l’aveva caratterizzata è osteggiato anche al suo interno. La flessibilità della nuova Reggio Net-city non fa parte del suo DNA. Una Net-city vive nel mondo, parla tante lingue, si mette a capo della compagine sociale, si relaziona con tutto e tutti, non può essere ideologica. Meglio i dubbi della giovinezza, per Reggio del futuro, che la certezza dei limiti della vecchiaia.
È il momento del passaggio del testimone ringraziando il passato, pur con le sue tante contraddizioni, e andando oltre, con una visione sociale e civile di una nuova via democratica: Reggio città rete, Reggio del mondo, Reggio neo-cosmopolita, che sieda al tavolo con le metropoli storiche, Lei, metropoli contemporanea, cuore dell’Emilia e della pianura padana.
Sergio Bevilacqua