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La valorizzazione del patrimonio ferroviario in Italia e in Europa


Venerdì 20 gennaio si è tenuto a Roma, presso la Facoltà di Architettura di Valle Giulia, un seminario intitolato “Save the railways”, con interventi di qualificati ricercatori provenienti da Francia, Regno Unito, Spagna, Cina e Brasile. L’intento, chiaramente, era di attirare l’attenzione sulla salvaguardia del patrimonio architettonico e culturale di stazioni ed opere d’arte connesse al trasporto su rotaia nel Mondo.

di Massimo Ferrari

Ma una domanda preliminare si impone: a quasi due secoli dall’esordio del primo treno passeggeri – sulla linea Stockton – Darlington, in Inghilterra settentrionale, nel 1825 – le ferrovie hanno ancora bisogno di essere salvate? Non stanno forse conoscendo un secondo rinascimento con importanti investimenti in tutti i Continenti?

Beh, parecchio tempo è passato da quando il treno sembrò prossimo a scomparire sotto la spinta della motorizzazione privata e della diffusione dell’aviazione commerciale. Almeno mezzo secolo, dalla prima crisi energetica del lontano 1973. Prima di quella data erano bastati appena quindici anni per mettere in grave crisi il più antico dei moderni mezzi di trasporto. L’onda lunga partita dagli Stati Uniti, dove, nell’arco di poche stagioni, non solo linee locali, ma anche grandi e trafficate stazioni erano state abbandonate alle ortiche, si era inevitabilmente riverberata dappertutto.

Il fascino dell’ “American way of life” (simbolizzato da una o più auto in ogni famiglia, parcheggiate nelle villette dei suburbi) contagiava l’altra sponda dell’Atlantico, Italia compresa, ovviamente. Non tutti accettarono supinamente questo modello. Resisteva, almeno in parte, il mondo di cultura germanica, meno individualista, che tuttavia, uscito sconfitto dalla Seconda Guerra Mondiale, non esercitava grande attrazione. Resisteva il mondo di impronta sovietica, la cui dura ricetta collettivista, tuttavia, lasciava molto perplessi.

Resisteva, soprattutto, l’Estremo Oriente dove, fin dal 1964, il Giappone aveva promosso i treni ad alta velocità Shinkansen. Ma l’America pareva infischiarsene. Commettendo, così, un grave errore. Oggi Washington deve competere con la sfida cinese per la supremazia planetaria. Molti settori, dall’informatica al militare, sono in gioco, ma, per quanto riguarda almeno le infrastrutture ferroviarie, Pechino ha già vinto la partita e, nonostante gli sforzi promessi o profusi da Obama, Trump e Biden, il divario sta diventando incolmabile.

Il trasporto su rotaia, dunque, sembra godere adesso del vento in poppa. Ma questo è vero per le linee veloci: 50 mila chilometri già operativi nel Mondo (l’80 per cento attivi proprio in Cina). Certamente è valido soprattutto nelle grandi aree metropolitane, che senza treni efficienti rischiano di collassare per congestione viaria, prima ancora che per inquinamento. E la popolazione planetaria è ormai prevalentemente urbana.  E ciò vale, a maggior ragione, per le metropolitane e i tram, il mezzo di trasporto più negletto cinquant’anni fa, che ora rifiorisce in oltre 400 città, dalla Francia alla Turchia, alla Spagna e persino negli Usa stessi.

Ma il panorama ferroviario non comprende solo l’Alta Velocità, i treni suburbani e i tram moderni. La maggior parte del milione di chilometri che si sviluppano sul Pianeta è composto da linee secondarie, spesso dal tracciato tortuoso. E qui la battaglia per la sopravvivenza è tuttora aperta. La sfida con gli altri mezzi di locomozione – in primis quelli su gomma – è più incerta che mai.

La Gran Bretagna, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, disponeva di una maglia ferroviaria fittissima: oltre 32 mila chilometri di binari. In un’isola come Wight, estesa quanto l’Elba, operavano ben sette compagnie ferroviarie. Poi venne la stagione di lord Beeching, incaricato di risanare i bilanci della British Railways. Lo fece a colpi di scure, sfrondando la metà della rete, senza, per altro, raggiungere l’obiettivo economico. Parte delle linee chiuse vennero rilevate da associazioni amatoriali che oggi trasportano milioni di escursionisti.

La Francia ebbe un approccio meno liberista e continuò ad investire sulle ferrovie anche negli anni bui. Louis Armand, grande patron della Sncf, continuava a ripetere che “il treno avrà un grande avvenire, se solo sopravviverà al XX° secolo”. E aveva ragione. Ma questo valeva soprattutto per i grandi assi che si irradiano da Parigi. Nella provincia profonda molte linee dipartimentali vennero abbandonate. Ed anche nell’Esagono sono proliferati a decine sodalizi per la gestione dei treni turistici che producono un indotto economico sul territorio non trascurabile.

La Spagna giunse in ritardo all’industrializzazione e, mentre le ferrovie declinavano in Occidente, certe linee tradizionali erano ancora in costruzione. Alcuni di quei lavori vennero interrotti e i tracciati furono convertiti in percorsi ciclopedonali: le Vias Verdes, gestite dalla Fundaciòn de los Ferrocarriles Espanoles. Poi si puntò sulle linee veloci a scartamento europeo ed oggi tutti i capoluoghi di provincia spagnoli si trovano a meno di quattro ore di treno da Madrid.

In Italia la cultura ferroviaria non era profondamente radicata. Nell’immaginario collettivo del dopoguerra il treno era associato alle tradotte militari, agli emigranti, alle brumose periferie industriali. Non c’era da stupirsi se la possibilità di acquistare un’utilitaria abbia rappresentato agli occhi generazioni di connazionali l’occasione per affrancarsi dalla vita monotona di tanti piccoli borghi e di provare l’ebbrezza della libertà.

Poi questa illusione è in gran parte sfumata tra ingorghi, inquinamento, stress. Oggi ci sono le condizioni per la riscoperta del treno, anche in chiave escursionistica. Se ne fa carico Fondazione Fs, che conta ormai cento collaboratori ed ha riaperto una dozzina di linee “sospese” da parecchi anni, ma ancora armate e tecnicamente percorribili. Mentre già lavora per ripristinare tracciati chiusi ormai da decenni – come la Noto – Pachino e la Alcantara  – Randazzo in Sicilia – che richiedono comprensibilmente investimenti maggiori.

Non è uno spreco di risorse. A dispetto della pandemia, i treni turistici a calendario conoscono un crescente successo di pubblico e adesso si investe anche per restaurare il materiale rotabile. Non solo le romantiche carrozze “cento porte” che ci portano indietro di un secolo. Ma anche gli elettrotreni che furono all’avanguardia negli anni del boom economico, per comfort e design, come il Settebello, l’Arlecchino e le elettromotrici.

Si potrà riscoprire il piacere di viaggiare, quello che, per la verità, è un poco latitante a bordo delle Frecce e di Italo. Che certo offrono tempi di percorrenza impensabili fino a non molto tempo fa. Sono competitivi con l’aereo e relegano le prestazioni “da casello a casello” in autostrada ai ricordi dei meno giovani. Ma che ci impongono di viaggiare in spazi ristretti che fanno rimpiangere gli ampi scompartimenti di un tempo a chi ha avuto la fortuna di averli provati.  Non si tratterà certamente di proposte di viaggio popolari ed accessibili a tutte le tasche (del resto non lo erano neppure i rapidi di sola prima classe del buon tempo andato). Ma il lusso di viaggiare comodi ed immersi nel paesaggio, grazie alle ampie finestre panoramiche, può giustificare, almeno qualche volta, un certo sacrificio economico.

In alternativa c’è sempre la possibilità di provare emozioni analoghe, varcando il confine e viaggiando sui treni svizzeri. In una nazione, cioè, che non ha mai inseguito l’ “American Way of Life”, pur essendo saldamente ancorata all’economia di mercato; ha chiuso poche linee ferroviarie, anche negli anni dell’ubriacatura automobilistica, ed ha ammodernato non solo le grandi linee o quelle suburbane, ma una rete articolata che raggiunge anche gli angoli più remoti dei Cantoni interni. Anche così si può salvare il grande patrimonio ferroviario che ci circonda.

Massimo Ferrari


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