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La Certosa di Trisulti: a scuola di sovranismo europeo Bennon. Il Consiglio di Stato da torto al Tar e accoglie il ricorso di 12 associazioni


La concessione della Certosa di Trisulti al Dignitatis Humanae Institute. Il Tar accolgie il ricorso, il Consiglio di Stato no. Una vicenda con risvolti clamorosi e mediatici. Certosa di Trisulti veniva data in concessione alla Dignitatis Humanae Institute, associazione vicina all’ideologo Steve Bannon.

Steve Bennon graziato dal presidente Trump dichiarava al giornalista Adriano Marzi il 23 agosto 2020: Avevo ottime conoscenze in Vaticano. Quando nel 2008 sono arrivato a Roma da Bruxelles dove facevo parte della squadra di Nirj Deva, il conservatore inglese che insieme ad altri 20 eurodeputati, tra cui gli italiani Roberto Fiore (Alternativa Sociale), Mario Mauro e Maddalena Calia (entrambi Forza Italia), aveva appena creato la Dhi – avevo già rapporti con la Seconda sezione della Segreteria di Stato, organo equivalente a un ministero degli Esteri per la Santa Sede. A introdurmi in quell’ambiente è stato monsignor Ettore Balestrero (nunzio apostolico prima in Colombia e poi in Congo, cui a giugno 2019 la Finanza di Genova ha sequestrato 2 milioni di euro dai conti correnti con l’accusa di contrabbando e riciclaggio internazionale, ndr).

 La vicenda- La pronuncia che si annota interviene su una vicenda che ha avuto una notevole eco mediatica (la destinazione della Certosa di Trisulti a scuola del sovranismo europeo) e merita di essere segnalata per le argomentazioni svolte dal giudice amministrativo. Il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo aveva infatti indetto una procedura selettiva per la concessione in uso di alcuni beni immobili appartenenti al demanio culturale dello Stato, ad esito della quale la Certosa di Trisulti veniva data in concessione alla Dignitatis Humanae Institute, associazione vicina all’ideologo Steve Bannon.

A causa della  carenza dei requisiti originari prescritti dall’avviso pubblico di selezione (oltre che per asserite inadempienze della concessionaria agli obblighi assunti), a distanza di due anni, il Ministero annullava in autotutela il decreto con il quale era stata approvata la graduatoria della selezione, nonché tutti gli atti conseguenti, ivi compreso il contratto di concessione. L’associazione DHI, quindi, impugnava tale determina, che veniva annullata dal giudice di prime cure. Avverso siffatta decisione il Ministero proponeva appello al Consiglio di Stato, il quale ha riformato la decisione del TAR.

Le concessioni di beni e l’assoggettabilità all’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione – La sentenza, dopo aver precisato che la concessione per la cura e lo sfruttamento (i.e. la gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione, ha evidenziato che la stipula della convenzione tra amministrazione e privato costituisce il momento civilistico della seconda fase dell’operazione. Ossia il momento nel quale concedente e concessionario disciplinano gli aspetti operativi della gestione del bene demaniale.

Quindi, nel caso in cui venga accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si sia proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità, in ragione dell’”intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra fase amministrativa e fase civilistica”, pervade – inevitabilmente – il contratto, provocando la decadenza dal beneficio ottenuto dal privato.

 Concetto di “dichiarazioni false o mendaci”- Prima di entrare nel merito della questione, occorre ricordare che nella specie l’associazione appellata aveva conseguito un vantaggio economico, ossia l’assegnazione di un bene demaniale culturale (la Certosa di Trisulti), all’esito di una selezione, tramite concessione, sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione, poi dimostratesi non veritiere. Il giudice di prime cure, pur non ignorando tale circostanza, aveva comunque ritenuto che l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento soltanto all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) – eventualmente – avviato nei confronti del dichiarante. Tale impostazione non è stata condivisa dal Consiglio di Stato sulla scorta di diverse ragioni.

Il Collegio ha, in primo luogo, richiamato l’orientamento espresso dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 25 settembre 2020 n. 16 con riferimento agli obblighi dichiarativi dei concorrenti nell’ambito della (diversa e specifica) disciplina del codice dei contratti pubblici di appalto e concessione di lavori, servizi e forniture,  rilevando che le informazioni rese da un concorrente nell’ambito di una procedura selettiva ben possono essere false o fuorvianti, nonché dirette e in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva medesima.

In secondo luogo, ha evidenziato che in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale riservato all’amministrazione (la quale è tenuta ad accertare i presupposti di fatto e a svolgere le proprie valutazioni di carattere giuridico). Il giudice d’appello ha di conseguenza affermato che “la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest’ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità”.

Fatta questa premessa di ordine generale, il Collegio ha avuto peraltro specificamente e opportunamente cura di sottolineare che, nel caso di specie, (i) la non veridicità delle dichiarazioni poggiava su dati di realtà non opinabili, ossia su dimostrazioni documentali di insussistenza dei requisiti richiesti dalla procedura di selezione; (ii) prima di adottare il provvedimento di annullamento in autotutela l’amministrazione aveva svolto un’apposita istruttoria coinvolgendo pienamente l’associazione appellata, consentendole quindi di contraddire su ogni carenza riscontrata dall’amministrazione in ordine ai requisiti di partecipazione dichiarati ma la cui sussistenza non era stata confermata – al termine della verifica successiva all’esito della selezione – dalla documentazione ricevuta; (iii) quindi, la insussistenza dei requisiti di partecipazione in capo all’associazione al momento della presentazione della domanda (il 16 gennaio 2017) era dimostrata dalla non veridicità delle dichiarazioni rese ai sensi del d.P.R. n. 445/2000.

In altre parole, il Consiglio di Stato, sulla scorta dell’insegnamento desunto dall’Adunanza plenaria nella richiamata sentenza n. 16/2020 (che – come già ricordato – era stata pronunciata con riferimento alla selezione dei contraenti nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica), ha ritenuto che nel caso in cui la fallace dichiarazione abbia inciso sul rilascio del provvedimento amministrativo. Tale interpretazione però non trova conferma nel dato testuale dell’art. 21-nonies l. n. 241/90 e sembra contravvenire allo spirito del legislatore che, già dal 2004 – e, quindi, ancora prima della riforma Madia del 2015 – aveva tentato di dare una precisa delimitazione temporale al potere dell’Amministrazione di intervenire in autotutela sui propri provvedimenti, proprio allo scopo di bilanciare l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e l’esigenza del privato destinatario del provvedimento a conservare la propria posizione soggettiva. E ha circoscritto l’inapplicabilità del limite temporale all’ipotesi in cui il provvedimento amministrativo venga conseguito “sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”. La “terza via” percorsa dal Consiglio di Stato – rinvio del dies a quo all’accertamento amministrativo dell’illecito – al di là della sua possibile ragionevolezza, non è contemplata da alcuna disposizione di legge.

Leggi (vedi…….) la interessante sentenze sia in fatto che in diritto e l’appello al legislatore per colmare alcune lacune.

 


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