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Dove sta ‘Zaza’ e polveri sottili. La Confesercenti di Cuneo da lezione


Da “La Guida.it” l’informazione quotidiana in Cuneo e provincia: « Stasera la protesta a luci accese di Confesercenti contro il nuovo Dpcm – Dal Buono, direttore generale Confesercenti della provincia Granda: “Chiediamo sostegni concreti e rapidi » Lunedì 26 ottobre 2020.

di Alesben B.

‘Dove sta Zaza’. Canzone napoletana scritta nel 1944 da Raffaele Cutolo (parole) e Giuseppe Cioffi (musica), ma anche un varietà televisivo italiano, in onda nel 1973 per quattro settimane, il sabato in prima serata sul Programma Nazionale.

Saracinesche alzate e luci accese in segno di protesta contro la chiusura di bar e ristoranti alle 18, «insensata e assurda», decisa dall’ultimo Dpcm che «ha condannato a morte i pubblici esercizi». È l’iniziativa lanciata da Confesercenti Cuneo con l’invito esteso a tutti i commercianti della Granda.

Nadia Dal Bono

«La rabbia e la preoccupazione dei commercianti è tangibile, ormai si teme di più di morire di fame che non di Covid-19 – dice Nadia Dal Bono, direttore generale della Confesercenti provinciale -. Si penalizza un settore che in questi mesi ha speso di tasca propria per rispettare i protocolli e per mettere i locali in totale sicurezza». E sottolinea: «Non possiamo sopportare gli oneri di un’altra chiusura: se non ci sono interventi economici seri e immediati, queste categorie saranno annientate. Troppo facile obbligare alla chiusura e penalizzare sempre le stesse categorie, molto più difficile è stilare un piano di regole certe e chiare, colpendo chi non le rispetta».

Secondo Nadia Del Bono «tutelare la salute è fondamentale, ma senza bloccare l’economia di un Paese. Non siamo di quelli che dicono che il coronavirus non esiste, ma certo non si può non vedere in questo mini lockdown – di fatto è lockdown totale mascherato – un fallimento della classe politica».

Quando ad aprile, durante il primo lockdown, i provvedimenti, particolarmente restrittivi presi dalle autorità in gran parte del mondo, hanno avuto come obiettivo quello di arginare il contagio del coronavirus; ma indirettamente, queste decisioni hanno permesso altri fattori, come l’inquinamento atmosferico, di diminuire drasticamente.

Dall’India una notizia riportata da tutti i giornali e telegiornali 10 apr 2020 – 14:50 ha fatto il giro del mondo: per la prima volta in oltre 30 anni gli abitanti del Punjab, zona nel nord dell’India, sono riusciti infatti a vedere la catena montuosa dell’Himalaya che si trova a 200 chilometri di distanza – si tratta di un fenomeno dovuto al completo lockdown del Paese che ha consentito alle polveri sottili di diminuire e quindi all’inquinamento atmosferico di ridursi drasticamente

Anche il sito della Cnn  ha pubblicato alcuni tweet dei tanti abitanti della zona che hanno postato i loro scatti sui social media, tra cui appunto Twitter. A testimonianza di questo fenomeno, tanto affascinante quanto insolito, basti pensare che solo a Nuova Delhi, per esempio, si è verificato un calo del 44% delle polveri sottili e che in tutta l’India sono addirittura 85 le città che hanno registrato un calo dell’inquinamento, dopo due settimane di isolamento. La conferma era arrivata dai dati riscontrati dal Consiglio Centrale per il Controllo dell’Inquinamento dell’India.

Tra le foto pubblicate in rete, quelle di alcuni abitanti della città di Jalandhar che si trova a oltre 100 miglia dall’Himalaya e che, dai balconi delle loro case, hanno mostrato l’insolito panorama. Dichiarando, in certi casi, di non aver più visto le vette dell’Himalaya da decenni. “Per la prima volta in quasi 30 anni ho potuto vedere chiaramente l’Himalaya a causa del blocco dell’India che ha favorito l’abbassamento dell’inquinamento atmosferico. Semplicemente fantastico”, ha scritto un utente su Twitter. Il fenomeno, in effetti, è stato possibile grazie ad un deciso miglioramento della qualità dell’aria nelle ultime settimane, dopo che l’India si è fermata, le industrie hanno chiuso, le auto sono rimaste ferme e le compagnie aeree hanno cancellato i voli: tutti provvedimenti attuati in risposta alla pandemia di coronavirus che ha colpito anche la nazione indiana.

L’India, spiega ancora la Cnn, ospita 21 delle 30 aree urbane più inquinate al mondo. L’intero Paese è stato bloccato per più di due settimane, con il Primo Ministro Narendra Modi che ha ordinato “un divieto totale di recarsi fuori dalle proprie case“. Sono rimasti operativi solo servizi essenziali, tra cui quelli che forniscono acqua, elettricità, servizi sanitari, negozi di alimentari e servizi municipali. Tutti gli altri negozi, stabilimenti commerciali, fabbriche, officine, uffici, mercati e luoghi di culto sono stati chiusi e gli autobus e le metropolitane interstatali sono stati sospesi. Il paese ha riportato quasi 6000 casi di Covid-19 e 178 morti, secondo i dati della Johns Hopkins University. Per quanto riguarda l’Himalaya, molte delle sue montagne sono state chiuse agli scalatori per quasi un mese, così come successo con i lati nepalese e cinese del Monte Everest che hanno chiuso all’inizio di marzo.

L’inquinamento c’entra con le morti per coronavirus? E se sì, di quanti decessi per covid sarebbe responsabile l’aria cattiva che respiriamo? Ebbene, ha risposto a queste domande uno studio appena pubblicato su Cardiovascular Research, che riportiamo,: utilizzando un modello matematico gli autori hanno infatti stimato le percentuali di morti per coronavirus attribuibili all’esposizione prolungata all’inquinamento atmosferico, a livello globale e nei diversi paesi.

Per concludere che potrebbe essere responsabile del 15% delle morti per Covid-19 a livello mondiale, del 19% in Europa, del 17% in Nord America, del 27% in Asia Orientale. Più nel dettaglio, l’inquinamento dell’aria avrebbe contribuito al 15% dei decessi da Coronavirus in Italia, al 18% in Francia, al 16% in Svezia, al 14% nel Regno Unito, al 26% in Germania, al 22% in Svizzera, al 21% in Belgio, al 19% nei Paesi Bassi, all’11% in Portogallo, all’8% in Irlanda, al 29% nella Repubblica Ceca. E fuori dall’Europa: al 27% in Cina, al 12% in Brasile, al 6% in Israele, al 3% in Australia e solo all’1% in Nuova Zelanda.

Come leggere i dati-

Ma cosa indicano esattamente queste  percentuali, e come andrebbero lette in termini di numeri di morti? Come hanno spiegato gli stessi autori dello studio, che è stato coordinato dal Max Planck Institute di Mainz, in Germania, vanno considerate come una stima della frazione di morti per Covid-19 che si potrebbero evitare se la popolazione non fosse esposta. Non indicano un rapporto di tipo causa-effetto tra scarsa qualità dell’aria e mortalità per Covid-19, ma che l’azione diretta o indiretta dell’inquinamento sull’infezione (o la sinergia tra i due fenomeni, se vogliamo) può far salire il numero di esiti fatali per malattia da Sars-cov-2 . “Per esempio – ha detto Jos Lelieveld del Max Planck e coautore dello studio –  se nel Regno Unito ci sono stati oltre 44.000 decessi per coronavirus, secondo le nostre stime la frazione attribuibile all’inquinamento atmosferico sarebbe del 14%, il che significa più di 6100 persone”.

Lo studio –

I ricercatori hanno elaborato un modello matematico all’interno del quale hanno inserito i dati epidemiologici sul Covid-19 raccolti la scorsa primavera in Italia, negli Usa e in Cina e quelli cinesi sulla  Sars del 2003, i dati ottenuti dalle reti di monitoraggio della qualità dell’aria al suolo, e quelli da satelliti sull’esposizione al PM2.5. Il PM2,5 consiste di particelle inquinanti solide o liquide con diametro inferiore o uguale a 2,5 micron rilasciate dai veicoli a motore, dal riscaldamento domestico e altre attività antropiche. Sono le polveri fini più dannose per la salute, perché, viste le loro dimensioni davvero minime, penetrano molto in profondità nei polmoni.

Un doppio contributo del PM2,5 [PM2,5 vedi in fondo articolo] –

Quando inaliamo aria inquinata, il  PM2,5 penetra profondamente negli alveoli polmonari provocando infiammazione e stress ossidativo. Un processo che finisce per danneggiare l’endotelio, cioè la parete interna delle arterie. “Il Covid19 – ha spiegato Thomas Münzel, cardiologo della Johannes Gutenberg University, anche lui come Lelieveld coautore della pubblicazione – provoca danni simili”. Ma oltre all’infiammazione, ha aggiunto Münzel, “il particolato sembra aumentare anche l’attività di ACE2, il recettore localizzato sulla superficie cellulare che favorisce l’entrata del virus nelle cellule”.

In questo caso avremmo un doppio contributo dell’inquinamento alla mortalità per Covid: “un danno ai polmoni e un rafforzamento dell’attività di ACE2”. L’ingresso contemporaneo del coronavirus e delle particelle inquinanti produce un effetto che potremmo quindi definire sinergico. E la sinergia danneggia soprattutto chi è già affetto da problemi cardiaci che già di suo è più vulnerabile e meno resiliente al Covid-19. “Se si è già affetti da una patologia cardiaca – ha ripreso Münzel – l’inquinamento atmosferico e l’infezione da coronavirus potrebbero provocare attacchi di cuore, insufficienza cardiaca e ictus”.

Due limiti –

Lo studio avrebbe due limiti, come si legge nel testo della stessa pubblicazione: il primo è che i dati epidemiologici Usa sono stati raccolti a livello di contee e non direttamente su un campione di individui. Questo rende più difficile la possibilità di escludere i cosiddetti fattori di confusione, cioè gli elementi che potrebbero alterare i risultati. Gli autori hanno preso in considerazione ben 20 di questi fattori, ciò non toglie che  potrebbero essercene altri. Il secondo limite è che le informazioni sono state raccolte in paesi a reddito medio-alto (Cina e Stati Uniti e Europa), mentre i calcoli sono stati fatti (e quindi le stime sono state ottenute) per tutto il mondo, il che significa che i risultati sui paesi a basso reddito potrebbero essere meno buoni.

La lezione della prospettiva ambientale –

“Una lezione che ci viene dalla prospettiva ambientale della pandemia è che la ricerca di politiche efficaci per ridurre le emissioni di origine antropica che provocano sia l’inquinamento atmosferico che il cambiamento climatico, deve accelerare (…). Vaccini contro la cattiva qualità dell’aria e il cambiamento climatico non esistono. Il rimedio è mitigare le emissioni. La transizione verso una green economy con fonti energetiche pulite e rinnovabili favorirà sia l’ambiente che la salute pubblica a livello locale migliorando qualità dell’aria, e a livello globale limitando il cambiamento climatico”.

Articoli in cui si parla di polveri sottili:

  • ANNO VIII
    – NUMERO 30 DEL 9 APRILE 2020
  • La culla del virus, perché parliamo di ambiente.

    ●     ANNO VIII – NUMERO 29 DEL 2 APRILE 2020

    Io cittadino savonese: ecco i divieti più curiosi al mondo (e in casa nostra) ai tempi di virus. E 50.550 morti per Pm2,5 in Italia

    ●     ANNO VIII – NUMERO 28 DEL 26 MARZO 2020

    Il randello di Pertini e una primavera senza PM10 

    PM 2.5 (o PM 2,5, a seconda del separatore decimale usato) è una classificazione numerica data alle polveri sottili in base alle dimensioni medie delle loro particelle. Con il termine PM 2,5 si raggruppano tutte le particelle aventi dimensioni minori o uguali a 2,5 µm. Il metodo di misurazione è normato nell’Unione Europea secondo la UNI EN 12341:2014. Di massima più il numero è basso, più le polveri sono sottili ed anche più pericolose per la salute della specie umana ed animale. Infatti mentre il PM 10 raggiunge solo i bronchi, la trachea e vie respiratorie superiori, il PM 2,5 è in grado di penetrare negli alveoli polmonari con eventuale diffusione nel sangue. Nelle donne ci sono evidenza che il PM 2,5 venga ad accumularsi nel seno causando il cancro al seno.

    Il PM 2,5 è dunque parte di ciò che è definito polveri sottili. Può essere in minima parte di origine naturale ma per gran parte trae origine da attività umane di varia natura, industriali e non. Un esempio sono i freni degli autoveicoli che consumandosi emettono PM 2,5 ma che non sono la fonte del maggiore inquinamento. Può essere di tipo primario o secondario, quando si forma successivamente alla trasformazione chimico-fisica di altre sostanze originarie. Si tratta di una miscela di particelle di proprietà diverse, costituita da polveri minerali ma anche composti come nitrati, solfati, ammoniaca e sali.

    Si calcola che per una presenza di PM 2,5 superiore di 10 punti rispetto al massimo consentito vi sia un incremento della probabilità di contrarre il cancro pari al 7%. In uno studio effettuato dal 2004 al 2008, campionando i dati di 100 giornate, in alcune città si sono verificati livelli di PM 2,5 che hanno superato fino a 3 volte il valore della soglia limite 50 µg/m³: Torino e Milano hanno toccato il valore di quasi 200 µg/m³, Roma ha superato di 10 punti il massimo stabilito. Gli studi effettuati variano di molto riguardo alle previsioni di un possibile cancro ed emerge da alcuni studi che la probabilità di contrarre il cancro aumenti di oltre il 18% con valori che oltrepassano la soglia massima di appena 5 µg/m³.

    Alesben B.


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