Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Giornali e giornalisti, quale futuro
Quando c’erano corrispondenti anche nelle piccole città e nei paesini dell’entroterra
Albissola, alla Fornace serata con l’autore


Un certo potere mal tollera il giornalismo. Meno ce n’è, meglio si sente. La  proposta di Raffaele Fiengo è quella del ”giornalista per adesione” e l’ha presa da Piero Calamandrei. Sotto i nostri occhi il giornalismo sta cambiando velocissimamente, non ce ne accorgiamo, perché anche dove sembra esistere in realtà non c’è. Al Corriere della Sera (nei quotidiani regionali, come Il Secolo XIX, ndr) c’erano i corrispondenti anche nei paesini. Quasi sempre non erano giornalisti con il timbro, talvolta professori, maestri, impiegati di banca, ma erano riconosciuti ed apprezzati nella comunità. Non perdevano una notizia di bianca, di nera, sportiva, rosa. Nel 1968, al Secolo XIX, erano 14 nella sola provincia di Savona. Solido e riconosciuto punto di riferimento dell’informazione locale.

Si aggiunga che oggi non ci sono più giornalisti che consumano le scarpe nei corridoi dei Palazzi di Giustizia, dei consigli comunali e regionali, delle aziende piccole e grandi,  nelle corsie degli ospedali, pronto soccorso, dei maggiori uffici pubblici, per trovare notizie, consultare fonti, verificare soprusi e inadempienze. Si frequentava ogni giorno la questura (Capo di Gabinetto e capo delle squadra mobile), il comando dei carabinieri (stazioni locali, Compagnia, Gruppo), se necessario si andava al comando vigili del fuoco. Resta la presenza sui campi di calcio delle formazioni maggiori, mentre quello di provincia (e sport minori in genere) è ‘confezionato’ in larga misura via cellulare dalla scrivania e affidato a collaboratori esterni.

Di fronte alla caduta libera di vendite in edicola, crisi di lettori, dominio dei social, occorre tornare alle origini. E vedi anche i libri di giornalisti savonesi ‘di provincia’ Mario Muda e Angelo Verrando. Sul prossimo numero il libro di Bruno Lugaro: ‘Teardo. Il destino capovolto. La prima tangentopoli italiana’. A dicembre il libro ‘IL ​CALCIO ​LIGURE ​OLTRE ​IL ​GENOA LA ​S​A​MP’ di Luciano Angelini e Franco Astengo che in precedenza hanno dato alle stampe: Savona la città nella storia del calcio; 110 anni racconti biancoblu; Savona e l’identità perduta. I libri storici di Pier Paolo Cervone: ben otto, il primo nel ’92 (Enrico Caviglia l’anti Badoglio), l’ultimo nel 2019 ( Thaon di Revel. Il grande ammiraglio). E ancora,  Stefano Delfino, il primo nel ’99 (Dundindei? Racconti di Liguria tra musica e mistero), a seguire, con Roberto Pockaj, I sentieri della storia; Ceriana, un borgo di mille anni; Non soldi Ma Ciccolato, racconti di guerra. Diversi i testi pubblicati da Gianni Nari, compreso il Dizionario del dialetto di Verezzi. Anche il decano vivente dei cronisti savonesi, Remigio Vercellino, 95 anni il prossimo 24 gennaio, iscritto all’ordine dei giornalisti pubblicisti dal 2 maggio 1959, ha dedicato un libro in memoria della consorte (Ricordo di Nella Porro). Senza dimenticare il giornalista scrittore alassino Daniele La Corte che con il suo ultimo libro (Resistenza Svelata. L’agente segreto suor Carla De Noni) forse è primatista tra i colleghi quanto a diffusione, 10 mila copie.

GIORNALISTI DI PROVINCIA CHE SCRIVONO LIBRI:

AL VIA LE SERATE ALLA FORNACE DI ALBISSOLA MARINA

Ripartono le ‘Serate’ alla Fornace Alba Docilia di Albissola Marina. Venerdì 10 gennaio 2020, con inizio alle ore 18, il giornalista Angelo Verrando presenterà i libri ‘Altre vite’ e ‘Giallo Nervia’, realizzati in collaborazione con il cartoonist Roby Ciarlo e il fotografo Mirko Saturno. Nelle settimane e nei mesi successivi, si alterneranno altri giornalisti con le loro ultime novità editoriali. Venerdì 24 gennaio musica e storie d’amore nella Vienna di 120 anni fa con ‘Alma e il suo maestro’  .

1) TRE AUTORI PER I LIBRI SU PIGNA ALL’ANTICA FORNACE DI ALBISSOLA

Angelo Verrando ai Rai News 24 intervistato per il caso del viadotto Teiro a 10) che da mesi suscita allarme a Varazze

Angelo Verrando li ha scritti, il cartoonist Roby Ciarlo ha illustrato “Altre Vite” con i suoi disegni, e il fotografo Mirko Saturno ha eseguito il foto-racconto di “Giallo Nervia”. Assieme si presenteranno al pubblico dell’Antica Fornace “Alba Docilia” in via Stefano Grosso ad Albissola Marina per raccontare la loro esperienza, presentando i due racconti. L’appuntamento è per venerdì 10 gennaio dalle ore 18.

Le storie di Verrando raccontano della campagna ligure a Pigna, nell’entroterra di Ventimiglia. “Altre Vite” narra della vicenda vera di una famiglia di contadini del paese, tra povertà e grandi sofferenze, ma anche di spiragli di speranza, visione del futuro, forza morale impensabili. Le illustrazioni di Ciarlo rendono in modo commovente il senso narrativo. “Giallo Nervia” è una storia-fantasy nella quale protagonista è la ricchezza. Improvvisa, insperata, facile e immediata. Nella piccola realtà rurale, viene introdotta come una sorta di virus nel racconto dell’autore. Tra grandi sconvolgimenti e profondi mutamenti anche nell’animo profondo dei paesani. Ma, come tutte le cose, anche la ricchezza presenta il conto. Salato. Si potrà “guarire” dal virus del benessere? Il lettore sarà sorpreso di scoprire in chi lo scrittore cercherà i necessari anticorpi, anche se ciascuno sarà lasciato libero di trarre una personale conclusione. Il foto-racconto di Saturno traduce con immagini di grande efficacia un tema così spinoso e attualissimo.

2) LA SAVONA DELLA FARINATA
RINGRAZIAMENTI INFINITI E QUALCHE SCUSA DELL’AUTORE MARIO MUDA
LIBRO ESAURITO IN POCHE ORE E IN ATTESA DI RISTAMPA CON PIOGGIA DI PRENOTAZIONI

Mario Muda già vice direttore del Secolo XIX e gavetta nella redazione di Savona del Decimonono

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POST DELL’AUTORE SULLA PAGINA FACEBOOK –  C’è stata la presentazione del libro che ho realizzato con altri autori La Savona della farinata. La sede, cioè la Camera di Commercio di Savona era autorevole, e il pubblico che ha presidiato fino alla fine la sala, davvero numeroso, attento, partecipe. Tutti i posti a sedere occupati e per due ore altre decine di persone in piedi. Qualcuno – mi dicono – sia venuto e poi abbia desistito. Meglio di così non poteva andare. Libro esaurito e persone molto soddisfatte dell’intervento di tutti gli autori che, simpaticamente hanno tenuto banco. Alla fine, a sorpresa (anche per me) i titolari di Vino e Farinata hanno servito nostralino e farinata. Al momento dei commiato ci sono state ressa e un po’ di confusione quindi non ho potuto salutare, come avrei voluto, molte delle persone che hanno partecipato, mi scuso con tutti, in special modo con gli amici che perdoneranno. Ci sono stati molti applausi (non avrei creduto) soprattutto quando si è parlato della speranza di rilanciare la fiera di Santa Lucia e il mercato degli addobbi natalizi e del presepe, soprattutto i Macachi. É stata un’occasione importante di incontro di cui ringrazio la Camera di Commercio per l’ospitalità e la splendida accoglienza. Martedì alla Feltrinelli ci sarà il bis, un po’ più intimo e raccolto ma, almeno nei contenuti, identico. Ancora grazie.

E ALCUNI COMMENTI SUI SOCIAL-

Gianni Gatti  – A volte un pò di ruffianeria serve …dietro la barricata di gente non ho assistito a tutta la discussione, però mio sono seduto su comoda poltrona ed ho iniziato a leggere il libro. Confesso che non è la cosa che abitualmente compro, ma basta leggere l’introduzione di Mario e la voglia prende, prende come la farinata. Col suo modo garbato di esposizione, quasi poetico capisci un pezzo di storia dietro un cibo. Le parole guidano un sentire dentro una storia che non è la mia (sono piemontese) e me la fanno quasi invidiare. Il resto si trascina dentro la mente come un colpo di fulmine e anche se all’inizio ti dici, beh in fondo è solo farinata, proseguendo entra come un colpo di fulmine con tutto il contorno di argomenti e belle foto. E’ storia di cultura dentro il mondo digitale che è frammentazione del vissuto utile a chi non vuole dimenticare una parte dell’essere…Chapeu !
Paolo Bianco – Il parere dei Foresti: Mia moglie, Amburghese, la farinata la mangia solo in un certo locale di Albenga, che io non amo troppo, perchè sempre pieno ed il suo ‘rosso della casa’ dà alla testa.
L’immagine, purtroppo sfuocata, del tavolo dei testimonial del libro con l’autore

ARTICOLO DE IL SECOLO XIX – Savona – Si è riunita in una sala della Camera di Commercio gremita di spettatori, lo scorso giovedì 12 dicembre, la “Savona della farinata”. Dimostrazione lampante di quanto rappresenti, ancora oggi, per la città, il piatto savonese per eccellenza, protagonista di un nuovo libro storico, scritto da Mario Muda e altri autori cittadini, presentato, appunto, nella sede di via Quarda Superiore e intitolato proprio “La Savona della farinata: luoghi, persone, storie”.

Un volume che mancava, nella letteratura dei simboli della città della Torretta, in quanto non solo racconta il rapporto emotivo che lega da sempre i Savonesi e la tipica torta bianca, ma raccoglie tutte le informazioni storicamente accertate su questo cibo povero che diventa così una chiave di lettura attraverso la quale conoscere diversi aspetti di Savona e del popolo che la abita.  Infatti, la pubblicazione ha una struttura corale che presenta la farinata attraverso temi culturali, enogastronomici, letterari e linguistici, curati da studiosi ed esperti di storia come Giovanni Assereto, Umberto Curti, Giuseppe Milazzo, Giovanni Gallotti, Elio Ferraris, Alessandro Bartoli e Andrea Briano.
Contributi cuciti tutti insieme da Muda, con l’arricchimento di ricostruzioni storiche della città da cui emergono memorie, curiosità e personalità locali del passato, a cominciare dall’albero genealogico della pietanza savonese che parte dalla famiglia Parodi per arrivare a Giorgio Del Grande, leggendario “tortaio” di via Pia, per anni dietro il bancone dello storico locale “Vino e farinata” nel centro storico, presente all’incontro in mezzo al pubblico.
«La farinata bianca per i Savonesi è come un tatuaggio mentale, una volta che si prova, non si può più dimenticare – spiega Mario Muda – ci identifichiamo in questo piatto soprattutto in momenti topici della vita cittadina, come la fiera di Santa Lucia e l’inizio delle feste natalizie, ma anche durante la processione del Venerdì Santo, occasioni in cui era usanza, in città, andare a mangiare la farinata».
Uno spirito che si è conservato, facendo diventare il mitico “turtellassu” un’identità culturale e sentimentale, una bandiera, un punto di contatto tra diverse generazioni, un fermo riferimento che tale deve rimanere. Infatti, per Andrea Zampino e Luca Tortarolo, il sentimento tra i cittadini e questo cibo semplice è anche un po’ espressione del carattere restìo ai cambiamenti del popolo savonese. Lo possono dire loro, da tre anni nuovi titolari, insieme a Tiziana Calandrone, di “Vino e farinata”, che questo stretto rapporto gastronomico lo osservano tutti i giorni: «Per Savona, la farinata è un pezzo di storia intoccabile – racconta Zampino – quando abbiamo rilevato l’attività dalla famiglia Del Grande, con un progetto di salvaguardia delle fonti storiche della città, tra gli abitanti è nato un dibattito perfino sulla somministrazione di caffè e la reperibilità telefonica del locale, modernità che venivano avvertite come un taglio con il passato e con la tradizione».
«Questo libro sulla farinata è molto scorrevole e interessante, piacevole alla lettura e corredato da bellissime foto – commenta il socio Tortarolo, ex bambino che andava a mangiare la bianca pietanza con la famiglia proprio nella “sciamadda” di via Pia – è un valido strumento di divulgazione, magari per i giovani, sulla conoscenza di questo piatto savonese capace di unire più generazioni».
Alla presentazione del volume collettivo di Mario Muda, posti a sedere “sold out” e persone rimaste in piedi, libro esaurito. E a sorpresa, rinfresco offerto proprio dall’attuale gestione di “Vino e farinata”, con le teglie di farinata, ovviamente, di grano e ceci, accompagnate da bicchieri di Nostralino.

COMMENTO DA SLOW FOOD.IT – “Perchè i manganelli di S. Lucia” da “La Savona della farinata” di Mario Muda. In occasione della festa di Santa Lucia, anticamente, si celebrava anche la Processione dei bambini, realizzata sulla falsariga di quella che, secondo la tradizione, si svolgeva durante la Settimana Santa, quando i più piccoli portavano a spalla prototipi in scala delle casse lignee della Processione del Venerdì Santo e rievocavano, in costume, le varie tappe della Via Crucis. Anche il 13 dicembre si svolgeva qualcosa di simile e i bambini mettevano in scena il martirio di Santa Lucia, che nella tradizione savonese arrivava al luogo del supplizio incalzata e bastonata dalla folla pagana inferocita. Questa sceneggiata lungo la via che conduce alla chiesa dedicata alla santa, il perseguitare la martire con bastoni e altri oggetti, nell’Ottocento doveva avere assunto, a un certo punto, una sua declinazione brutale in quanto, in una sorta di sineddoche fisica, con il tempo e lo scadimento del fervore religioso, la folla inferocita dei maschietti adolescenti era passata dal simulare l’aggressione alla giovane santa ad assalire le giovani in generale. E già negli anni ’30 del secolo scorso si citava l’usanza di colpire con palle di stoffa riempite di segatura le ragazze che partecipavano alla fiera di Santa Lucia. La consuetudine era arrivata fino agli anni 70-80 con un crescendo di violenza: clave di gomma, manganelli, fino alla proibizione di questo rito che era precipitato nel teppismo
PS – La farinata savonese, quella di Via Pia, è nota e conosciuta in tutto il mondo non solo di farina di ceci ma l’unica ( o quasi) anche di farina di grano ovvero bianca , una vera delizia, ben conosciuta dal nostro Carlin Petrini.

DA ‘LIGURIA E DINTORNI’ DI STEFANO PEZZINI – Umberto Curti storico dell’alimentazione e docente esperto di marketing territoriale, spiega la storia di questo piatto, la sua valenza, potenzialità e valore attuale. Giuseppe Milazzo docente e scrittore rievoca la Savona nelle pubblicazioni, negli articoli e poesie di Giuseppe Cava (Beppin da Cà) in cui il poeta racconta la topografia fisica e umana di forni e personaggi in quartieri oggi scomparsi. In tre capitoli la ricostruzione, fra fine 1800 e fine 1900, delle attività della famiglia Parodi che ha gestito, quasi fino ai giorni nostri, una serie di rivendite più frequentate e conosciute della città, principalmente Vino e Farinata di via Pia. Personaggi, curiosità, memorie raccolti dallo studioso Giovanni Gallotti. 

Elio Ferraris, fondatore del Circolo degli Inquieti ed ex editore traccia un affresco-citazione con il ricordo di vari personaggi che della farinata hanno saputo elencare non solo le qualità gastronomiche (esempio l’editore Sabatelli, lo storico Giovanni Rebora), ma anche il grande valore conviviale ed emotivo (l’ex direttore della pinacoteca e del teatro civico Chiabrera Renzo Aiolfi e il matematico Bruno Spotorno). Un aspetto inusuale, non scontato, ricco di curiosità è rappresentato dalle citazioni nella letteratura anglosassone dei viaggiatori sia inglesi sia statunitensi negli ultimi due secoli. La ricostruzione è a cura del saggista ed esperto di relazioni culturali con il Regno Unito Alessandro Bartoli.

Il vino, come elemento di cultura e le sue declinazioni con un cibo socialmente trasversale è raccontato dal docente e sommelier Andrea Briano. Nella tradizionale sciamadda Vino e Farinata, nel 2007 l’Accademia della Cucina, presente un notaio e alcuni gourmet sottoscrisse il documento in cui si stabilivano le regole auree per la confezione della torta bianca che è tipica ed esclusiva di Savona. Questo come la secolare realizzazione delle teglie e la valenza emotiva di questo cibo, elemento significante dei grandi appuntamenti tradizionali (dalla Fiera di Santa Lucia alla Processione del Venerdì Santo) portano la firma di Mario Muda ex vicedirettore de Il Secolo XIX che ha curato tutto il progetto.

“DOVEROSO E AMOREVOLE “early worning”, da allerta tempestiva

di RAFFAELE FIENGO*

Quale strada deve intraprendere il giornalismo italiano per superare la crisi strutturale che lo attanaglia? Qualche settimana fa ho espresso una proposta, durante un incontro  organizzato dalla Fondazione Murialdi. Torno su quell’analisi per Professionereporter.eu, nella speranza di alimentare una discussione cui devono seguire decisioni ormai urgenti.

Oggi sono ancora una volta in gioco i valori della professione. Con il mandato morale di Paolo Murialdi e in armonia con il gruppo dirigente che uscì dalla “svolta di Salerno” (quando il sindacato dei giornalisti si rinnovò e fu eletto il cattolico democratico Ceschia), mi sento di essere ruvido.

Un punto acquisito da tutte le ricerche, soprattutto non italiane, (ne ho fatte anche io, per 17 anni di seguito, all’Università di Padova), è il seguente: il giornalismo, nello stato attuale, italiano in particolare, ma anche nelle altre parti del mondo dove la libertà della stampa c’è, non è in grado di fare la sua parte se non in misura limitata. Basta pensare a Instagram che in  Italia ha 19 milioni di contatti mensili. Diamo per noti i discorsi su Facebook, Twitter, Instagram, YouTube, in combinazione con i big data, le prolificazioni individuali, il mercato della diffusione di “sentiment”, e la non trasparenza degli algoritmi, tutte cose che ipotecano fortemente la formazione dell’opinione pubblica. Il giornalismo strutturato copre una parte assai piccola del campo, riesce a malapena a tenere botta, a fare il proprio compito, dove il contesto sociale è ricco di informazione, di pluralità delle forme culturali, quasi sempre solo nelle grandi città. Vale per la Brexit, vale per Trump, vale per Erdogan, vale per l’Iran, per l’Europa.

LEGITTIMAZIONE PERDUTA –   Nelle aree metropolitane il giornalismo opera, nel bene e nel male: c’è la cultura, c’è il meccanismo dell’informazione digitale, chiamiamola così, che però non subisce la grande manipolazione veicolata attraverso il ”sentimento” diffuso facilmente e prevalentemente nelle periferie sociali e culturali, dove forma senza sforzo i consensi elettorali che stanno minando le democrazie. Si trova quello che sto dicendo in decine di ricerche. La rivista della Columbia University ha diffuso un testo dove si dimostra come il giornalismo stia perdendo addirittura la sua legittimazione di fronte ai meccanismi della pubblicità, nativa e dintorni, del marketing. Il giornalismo non è neanche più primario dove dovrebbe esserlo, nelle imprese editoriali, nei grandi media, nei giornali, nei siti, nelle tv.

Allora su tutto questo sommovimento avvenuto e operante, sto avanzando da tre anni ovvie e naturali proposte, in diverse forme capaci di avere più giornalismo, dentro e fuori. Il giornalismo non può sopravvivere senza allargarsi, andando a responsabilizzare in rete chi fa informazione, i comunicatori, i non comunicatori, quelli che fanno i siti. Diciamo almeno trentamila persone di cui dodicimila adesso, abbastanza presto, entreranno nell’Inpgi. Ma non basta che entrino nell’Inpgi e ci salvino il conto. Bisogna che questi siano in qualche modo riconosciuti dalla comunità senza intaccare la serietà e la struttura dell’informazione professionale, peraltro manchevole a sua volta.  

Se questo non avviene noi andiamo incontro ai fenomeni che fronteggiamo tutti i giorni nei Paesi occidentali. È semplice, sotto gli occhi di tutti, la soluzione. Ma appena la dici diventa incerta, sarebbe meglio che venisse dal cielo. Magari da una autorità lontana, una istituzione, un governo. Ma attenzione, il potere mal tollera il giornalismo. Meno ce n’è, meglio si sente. La mia proposta è quella del ”giornalista per adesione”, l’ho chiamato così. Ma l’ho presa da Piero Calamandrei, non me la sono inventata! Perché Calamandrei, difendendo Danilo Dolci, (4 mesi di carcere nel 1956 per aver chiamato un centinaio di disoccupati edili a rimettere in sesto, con uno “sciopero bianco”, una strada, una vecchia “trazzera”, da tempo non più praticabile,  per raggiungere una frazione di Partinico) spalleggiato in giudizio da Norberto Bobbio e Carlo Levi, aveva dimostrato che la comunità, quando c’è una prestazione, la deve riconoscere.

QUATTRO PUNTI CHIAVE –  Non so se il “giornalista per adesione” possa o debba entrare in un elenco speciale dell’Ordine. Forse basterà chiedere a chi vuole una responsabilità sociale e voglia anche tenersi lontano da fake-comunicatori, di sottoscrivere i quattro punti che ha suggerito la collega Rita Querze’ che si occupa di lavoro nell’ Economia al Corriere:

”A) tutela dei minori, mai riconoscibili tramite nomi o immagini;

B) impegno a pubblicare notizie verificate almeno con una fonte;

C) nessuna forma di ricompensa o vantaggio dai soggetti citati nelle news che si firmano

D) niente denigrazione o toni che incitino a odio e violenza;

Potrebbe venirne la creazione di una sorta di “bollino”, un simbolo di cui si possa fregiare chi ha firmato questi impegni.

La Federazione della stampa e gli organismi che sono il cuore del giornalismo in Italia, ne sono la difesa storica. Lo sono anche gli attuali rappresentanti. Loro sono gli eredi, è loro il compito di creare le condizioni perché sia presente il miglior giornalismo dove ora non arriva, riempire di contenuti razionali quello che sta avvenendo nel peggiore disordine. Non possiamo chiudere gli occhi e dire “ci basta prendere i soldi dall’Inpgi e stiamo più tranquilli con le pensioni”. Perché questa è una questione drammatica e necessaria, urgente.

La Federazione della stampa, l’Ordine, chiunque sia, deve almeno incominciare a chiedere alle persone che stanno entrando nell’Inpgi, chi si assuma precisi obblighi deontologici. Si può organizzare una “operazione conoscenza”, chiedere per sapere chi è interessato, che cosa fa nel campo dell’informazione, anche per incominciare ad avere una prima mappa, un inizio di censimento, per poi agire. Può darsi che pochi vogliano assumersi impegni.    

LA RAI METALLURGICA –  La nostra storia é piena di questi passi fatti con coraggio, pensate alla RAI. Adesso ci stupiamo a ricordarlo: ma la Rai, solo qualche anno fa non era una impresa giornalistica, ma eredità’ di quella metallurgica: non solo gli operatori, i fotografi (quasi mai riconosciuti giornalisti anche nella carta stampata) e molti altri, davano prestazioni in sostanza giornalistiche, ma erano trattati da tecnici, come i contratti, quasi tutti i contratti erano metallurgici. Poi piano piano sono diventati giornalisti seguendo i contenuti e le loro prestazioni, i cameramen, i dimafonisti e gli stenografi. Non possiamo non procedere con questa apertura, con questo spirito, in questo modo. Certo con tutte le prudenze del caso, senza intaccare i meccanismi solenni, formali e collaudati dell’ accesso alla professione. Ma non possiamo non farlo.

Non sarà sufficiente inseguire le realtà affermate come Fanpage (dove dai 5 iniziali si è arrivati a più di 30). Bisognerà trovare il modo di qualificare molto altro, pur tenendo regole di qualità verificata per chi vuol essere giornalista professionista.

Se non ci assumiamo la responsabilità del fatto che le democrazie non hanno il giornalismo e la libertà di stampa automaticamente e per sempre nelle proprie mani, avremo brutte sorprese. È la libertà di manifestare il pensiero alla base della democrazia, non viceversa.  Sotto i nostri occhi il giornalismo sta cambiando velocissimamente, non ce ne accorgiamo, perché anche dove sembra esistere in realtà non c’è. Il giorno della nascita del governo Conte II, Sky News24 ha trasmesso Salvini che faceva una conferenza stampa e le domande non si udivano in televisione. Questo vuol dire che il giornalismo lì non c’era, perché se vedo tutti i giornalisti che fanno le domande e sento solo le risposte, quella diventa una diretta Facebook.

PICCOLI CORRISPONDENTI –  Cinquant’ anni fa, al Corriere avevamo i corrispondenti anche nei paesini. Quasi sempre non erano giornalisti con il timbro, talvolta erano dei professori, dei maestri, ma erano riconosciuti nella comunità come “”Corriere della Sera”. E non cascava il mondo. Dobbiamo rifarlo, prenderne mille, duemila, pagarli per le singole prestazioni, li facciamo corrispondenti del Corriere. Sono un antidoto alla manipolazione. Guardate che la manipolazione nella rete è totale, passa dagli algoritmi, passa dalle profilazioni, comprate e vendute insieme con i pacchetti di contatti. Trump ha comprato per le elezioni 180 milioni di profili individuali. Quando interveniva su una votazione in bilico e interveniva con la geolocalizzazione (lo spiega la Nieman Foundation for Journalism all’universita’ di Harvard) Trump aveva la certezza al 90% di ottenere il proprio risultato. Lui andava in Virginia occidentale, metteva la parola “carbon” e, a quelli che usavano cinque volte la parola “carbon”,  mandava il messaggio. “Io difendo l’industria del carbone“ diceva e i voti li ha presi. E ha così vinto. E se non bastasse, nel maggioritario, chi ha in mano il disegno dei collegi elettorali e lo può pilotare (Jerrymandering), oggi altera facilmente il numero degli eletti perché con i profili i voti si conoscono prima che siano dati.

Questa realtà c’è dappertutto e la possiamo contrastare, ma non solo con le leggi. Qualche cosa sta avvenendo. Dopo lo scandalo Cambridge Analytics, Facebook sta facendo marcia indietro, comincia a cancellare le fakenews e il discorso razzista e violento). Ma non illudiamoci. Facebook non può cambiare natura. Dunque questo non basterà, e nemmeno la lotta per la trasparenza degli algoritmi (pur giusta). Non dimentichiamo che il campo allargatissimo e velocissimo della comunicazione non ha solo virus cattivi e pilotati. Di tanto in tanto si manifestano effetti stupefacenti e meravigliosi. La settimana della Terra in pericolo, culminata in Italia venerdi’ 28 settembre con le manifestazioni “Friday For Future” dei ragazzi in 180 città con più di un milione in strada l’abbiamo vista con piacevole stupore. Per non parlare delle Sardine.

Questi lampi di coscienza generale sono abbastanza rari, ma ci sono. E aiutano a capire. Uno ci fu la sera dell’incendio a Notre Dame, con il canto di preghiera nelle strade intorno alla chiesa in fiamme, credenti e laici, cristiani e musulmani, avversari politici, forse anche nemici storici, profondamente insieme. E  il 13 febbraio 2011, quando donne di tutta Italia riempirono strade e piazze con le parole “Se non ora quando?”. Anche allora una imprevedibile prova di coscienza collettiva, poco immaginabile. Tutti lampi rimossi e archiviati in 24 ore. Nelle reti dei nativi digitali anche le sensibilità buone diventano consapevolezza generale. Ma non si consolidano mai. Scompaiono dal quadro subito. Perché il giornalismo, quello con la sua connaturata autonomia, non ha la stessa ampiezza.

Può sembrare un po’ ruvido. La categoria strutturata deve saper vedere il giornalismo dove c’è nelle forme precarie e riconoscersi reciprocamente. Se non riusciamo a farlo, sarà un tradimento. Abbiamo paura di perdere consenso, perché la corporazione (e sbaglia), non vuole un allargamento? Lo capisco. Ma non dobbiamo farci prendere da piccole viltà che non ci appartengono. L’allargamento non può portare che bene a tutti, perché noi siamo -insieme- una cosa sola, il giornalismo.

Dove c’è, il giornalismo deve essere riconosciuto dalla comunità, a incominciare da noi. Al più presto. Il mio vuol essere un doveroso e amorevole “early worning”, un’allerta tempestiva.  

*Raffaele Fiengo è stato giornalista e sindacalista al Corriere della Sera


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