Nel numero del 4 marzo 2018, a pagina 47, de L’Ancora, compare un articolo firmato da un non meglio identificato PDP, che richiama un mio precedente scritto pubblicato a pagina 41 del numero del 12 febbraio 2017 e, precisamente, l’estratto mediante il quale sostenevo come da certi settori, in cui si collocano i servizi pubblici essenziali ad alta rilevanza sociale, tra i quali spicca la Sanità, debba essere categoricamente esclusa ogni forma d’interesse privato e di lucro d’impresa. A distanza di poco più di un anno, non posso fare altro che confermare questa tesi, anche alla luce di quanto si può leggere dal contenuto dell’articolo, dove sono messi in luce gli aspetti positivi dal punto di vista dell’utenza, positività individuabili nella riclassificazione dei Reparti destinati alle cure di emergenza ed urgenza come Pronto Soccorso a tutti gli effetti e non già Primo Intervento come oggi, ma è a tutti noto che ogni medaglia abbia il suo rovescio.
Questa strategia di voler mettere a gara la fornitura di servizi si colloca nell’ambito di una deplorevole tendenza generale, già descritta da Naomi Klein nel suo trattato Shock Economy, pubblicato nel 2007. Negli Stati Uniti d’America, Nazione costitutivamente impostata su (cedevoli) pilastri di tipo mercantile, dove qualsiasi bene o servizio può essere comperato, venduto o negoziato, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, è esplosa, almeno in certe fasce della popolazione, un’intolleranza a quelle, invero poche, regole che ancora disciplinavano l’economia e la finanza: due mostri da tenere sotto stretto controllo, onde evitare danni peggiori.
Fu così che, in nome di una chimera che illudeva le persone in merito ad un improbabile beneficio derivante dalla selvaggia liberalizzazione e dalle privatizzazioni, si trasformò tutto in un gigantesco mercato, riducendo le Istituzioni al lumicino ed esternalizzando qualsiasi fornitura: si arrivò anche all’organizzazione di corsi, tenuti – superflua indicazione – da personale di enti privati, finalizzati ad istruire i funzionari pubblici su come redigere i capitolati d’appalto. Nessuna mente sana, non drogata dai traviamenti della famigerata scuola di Chicago, dubiterebbe sul fatto che non si trattò di agevolare l’utenza, vergognosamente ridotta al rango di clientela, ma di consentire il lucro d’impresa nei servizi pubblici essenziali ad alta rilevanza sociale, in barba ad ogni rispetto per l’Uomo e per le sue inderogabili esigenze, nonché in tutte quelle attività che, normalmente, sarebbero state programmate, organizzate ed eseguite con personale regolarmente assunto all’interno degli uffici, siano essi pubblici o privati; per dirla con un albionismo, fuori luogo nel nostro scrivere in lingua Italiana, ma appropriato all’origine del fenomeno, certe attività che, sana dirittura morale vorrebbe fossero istituzionali sono state trasformate in business.
In Europa, questi concetti sono approdati in quel Regno Unito (mal)governato da Margaret Thatcher a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso, ma, purtroppo, solo ora, la popolazione, prima annientata da quello shock di cui parla la Prof.ssa Klein, si è resa conto di quale fallimento sia stata una simile avventata operazione; in Italia, si dovrà attendere circa una quindicina d’anni perché il morbo contaminasse ed i risultati, purtroppo, sono sotto gli occhi di tutti, sotto forma di Enti pubblici trasformati in Società per Azioni, dove gli emolumenti delle cariche sociali, trattandosi di enti di Diritto privato, non sono soggetti a limitazione alcuna, azionariato finito in chissà quali mani e, anche qualora la nascita di un mercato con annessa concorrenza avesse comportato un qualche vantaggio per l’utenza ormai diventata clientela, occorre, innanzi tutto, districarsi tra le varie offerte commerciali e, in secondo luogo, in ordine d’elenco, ma non d’importanza, la gran parte, se non la totalità degli avanzi di gestione va a rimpinguare le casse dei privati che, in maniera pienamente legale e parimenti immorale, eserciscono questi servizio come una qualunque impresa privata orientata al profitto.
Dovrebbe suscitare non poche riflessioni pensare che pagare un biglietto od una bolletta, sovente a tariffe non di certo amichevoli, produce un lucro privato a vantaggio di imprese che operano se dove e quando a loro convenga: è a tutti noto come i servizi postali o di trasporto abbiano subito pesanti tagli perché non più servizi istituzionali erogati da Uffici dei Ministeri, ma servizi commerciali erogati da Aziende, ancorché molto dell’azionariato sia in mano del Ministero dello Sviluppo Economico, evidentemente, non già della Nazione, ma solo di alcuni suoi abitanti. Che dire allora se un servizio come quello sanitario, pur a costo invariato, è letteralmente appaltato a dei privati, che operano con criterio d’impresa? Purtroppo, il morbo della privatizzazione serpeggia in Sanità da molto tempo: si è cominciato con l’esternalizzazione di servizi essenziali come la manutenzione degli apparecchi elettromedicali, la sterilizzazione dei dispositivi medici e chirurgici o le pulizie, operazioni queste che rivestono carattere di essenzialità nell’ambito dell’organizzazione di un Presidio sanitario e non ha senso affidare ad personale non dipendente diretto, se non in ottica di foraggiare qualcuno, mentre va da sé che l’affidamento esterno potrebbe avere senso per soddisfare quei bisogni occasionali.
Successivamente, si è provveduto a reclutare lo stesso personale sanitario (fortunatamente, non ancora Medici ed infermieri professionali) tramite cooperative o, peggio, agenzie interinali, le quali destano sospetti sul fatto di essere una moderna forma di caporalato. Qualcuno potrebbe osservare che, in oggi, si debba procedere in questo modo, per ottemperare ai regolamenti emanati dall’Unione Europea, ai giorni nostri, di stampo marcatamente privatista e liberista, ma è a tutti noto che i valori fondanti dell’Unione siglata da personaggi del calibro di Adenauer, De Gasperi e Schumann, citati in ordine rigorosamente alfabetico erano diversi, essendo l’impostazione Europea, pur riconoscendo piena legittimità all’iniziativa economica privata, grazie al suo orientamento sociale, tendente a limitare questo diritto e financo quello di proprietà (cfr. Costituzione della Repubblica Italiana, art. 41 e successivi) a differenza di quanto avviene oltre Atlantico, dalla cui sponda occidentale, nel corso degli anni, sono partiti dei segnali volti a piegare l’Europa e, di riflesso, tutti gli Enti di minore entità geografica a modificare il modus legem ferendi verso un impianto come il loro, che, anteponendo il materiale all’Uomo, favorisce il formarsi di quelle disuguaglianze sociali letteralmente esplose in questo secolo ancor giovane.
Roberto Borri
Segnaliamo anche:
Purtroppo, il 1986 ha stabilito, per il Piemonte, l’incipit di un processo di degrado, culminato, nel 2012 con la sospensione del servizio su quasi un terzo della rete ferroviaria interessante la Regione, con lungimiranza rara ai giorni nostri, dotata, insieme alla Lombardia occidentale, della rete più capillare d’Italia e, forse, del mondo. L’asservimento al mondo della gomma da parte di molte persone ha fatto sì che il trasporto pubblico, in ispecie ferroviario, almeno in Italia, cadesse sotto i tagli di una scure impugnata da persone sulla cui identità si possono fare ipotesi molto plausibili, tagli giustificati con farisaiche motivazioni economiche. In un clima – non solo meteorologico – mutato, sarebbe saggio sfruttare quest’occasione per adoperare le gallerie esistenti quali fori pilota e creare, con i mezzi offerti dalla tecnica moderna, lo spazio per la posa del doppio binario e creare un primo nucleo di linea a valenza metropolitana, servendo Mondovì Altipiano, Breo e Carassone, nonché il centro commerciale Mondovicino, che potrebbe beneficiare di un utile raccordo per le merci.
Va da sé che, a Bastia Mondovì dovrà essere previsto l’ingresso nel ricostruendo scalo tanto da Nord – Ovest, quanto da Sud – Est, in maniera tale da evitare l’inversione di marcia. Nello stesso anno 1986 sopra citato, è stata altresì dismessa la ferrovia Saluzzo – Airasca, che collegava la Provincia Granda a quella di Torino: nasce quanto meno la curiosità di sapere il motivo per il quale la ferrovia sia stata ridotta ad un moncherino esercito in regime di raccordo tra Saluzzo e Moretta, mentre, da qualche tempo, si medita di costruire addirittura un’autostrada. Parimenti, ci sarebbe da domandarsi dove siano finiti quei fondi stanziati per la restitutio ad integrum della Bra – Ceva, gravemente danneggiata dalla tristemente nota alluvione del 1994, che, a quasi un quarto di secolo, grida vendetta.
Nel progetto di ristrutturazione della stazione posta all’Altipiano, sperando che non sia trasformata in un centro commerciale, come, scelleratamente, avvenuto a Torino Porta Nuova, Milano Centrale ed in altri scali, dove le biglietterie sono state drasticamente ridotte e confinate in posti da cercare con il lanternino, per tacere dello stravolgimento dell’impianto architettonico originale, è quanto mai approvabile l’installazione degli ascensori e l’elevazione della distanza tra banchine e piano del ferro a 55 cm; nondimeno, sarebbe più opportuno abbassare il piano viabile, onde evitare problemi a quei binari in diretta prossimità del fabbricato viaggiatori.