Conosco il vescovo Mario Oliveri dal dicembre 2009. L’ impressione che ho di lui, oltre ad essere limitata, prende le distanze dal giudizio spesso un pò grossolano e molto approssimativo che i media gli hanno cucito addosso in questi ultimi anni.
Certamente, come tutti noi, anche don Mario avrà fatto degli errori nel corso della sua vita. Se da un lato chi sta più in alto ha responsabilità maggiori e dovrà rispondere personalmente a chi sta al di sopra di lui, da un altro lato anche noi che stiamo al di sotto in autorità dobbiamo fare lo sforzo mentale di vestire l’abito civile della nostra cultura. E non solo quello cristiano, per capire cosa spinge un uomo ad agire in un modo piuttosto che un altro. E per poter far ciò non bisogna stare con il bilancino in mano ma entrare in punta di piedi dentro l’altro. Credo che questo atteggiamento che non si eredita automaticamente ma è frutto di anni di maturità fatta su più fronti esistenziali, deve essere alla base delle relazioni umane a tutti i livelli, anche quelli di estrazione culturale diversa.
L’unico che ci può aiutare in questo itinerario è il Maestro, che nonostante la condanna a morte subita ingiustamente lancia un grido al Padre nostro che è nei cieli che squarcia il Tempo. Questo grido non è solo per i crocifissori ma anche verso i loro mandanti. Chi ci tramanda il fatto insiste sul motivo che più che di biasimo o di accusa per l’errore giudiziario, Gesù era dolorante oltre che per le ferite anche per il fatto che non era riuscito a farsi capire. Il suo messaggio non era passato e lui moriva per questa mancanza di intelligenza da parte degli uomini. Da uomo sapiente e amante del genere umano qual’era, per non buttare con l’acqua sporca anche il bambino, proprio perché lo ama, lo immagino ancora oggi sulla croce, in attesa che anche l’ultimo ignorante prenda consapevolezza della propria identità di Figlio di Dio e gridi con Lui tutto è compiuto.
Questo atteggiamento di Gesù lo credo famigliare anche a mons. Mario Oliveri; lo ha usato con me e ritengo che sia la sua indole, nutrita ovviamente dall’educazione ricevuta che gli ha permesso di utilizzare lo stesso metro con tutti.
Ora mettendomi (indegnamente) nei panni del Maestro come posso pensare di dire che il vescovo Mario è da togliere di mezzo, da rispedire al mittente? Mi chiedo se queste persone che si esprimono cosi sono consapevoli di quello che dicono.
Sono andato a trovarlo qualche giorno prima della Messa di commiato nel suo ufficio. Era amareggiato soprattutto per i tanti preti che non lo vogliono in diocesi da emerito insieme a suo fratello. Addirittura qualcuno di loro, per la presenza del fratello ha espresso l’augurio che questi morisse! Ma se togliessimo di mezzo il vescovo Mario dal territorio (e suo fratello) risolveremmo i problemi della nostra diocesi? E se morisse il fratello cosa cambierebbe per il vescovo Mario ora che è cambiato tutto? E di questo cambiamento potrebbe saperne più di me il vescovo Guglielmo che regge la diocesi da parecchi mesi!
Dovremmo ringraziare la Provvidenza che ci ha dato questo vescovo coadiutore scelto dal papa, autorizzato a risolvere i problemi al posto nostro. Su questa bella figura discreta ed energica qual è quella di mons. Borghetti, vedo trasparire i tratti della delicatezza con cui papa Francesco ha trattato mons. Oliveri preferendo agire come ha agito piuttosto che in un altro modo.
Ricordo un bel film ambientato in un carcere americano nel quale, scontata la condanna, i carcerati uscivano dalla reclusione ormai vecchi e senza più famiglia. Riacquistata la libertà il progetto educativo del carcere prevedeva che il reinserimento in società passasse attraverso il lavoro che svolgevano in un supermercato vicino all’istituto penitenziario, a imbustare i prodotti ai clienti. Finito il loro lavoro tornavano nella camera di pensione convenzionata sempre con il carcere ed erano sempre soli con se stessi; più soli di prima. Non dico l’epilogo di uno di essi perché non è il caso nostro!
Penso che per don Mario rimanere in Albenga sarà un po’ come per un galeotto stare ancora in carcere; ancora “dentro” e coadiuvato da quel manipolo di presbiteri e amici generosi che si è acquistato in questi ultimi 26 anni, i quali, saranno in grado di farlo sentire ancora vivo e in comunità, potrà ancora “dare” così come ha fatto fino ad oggi.
Don Giuseppe