Non si nomini la patria invano. La suprema Corte di Cassazione ha stabilito che sia penalmente condannabile per reato di vilipendio alla nazione, chiunque pronunci in pubblico parole di “grossolana brutalità”, tali da “ledere oggettivamente il prestigio o l’onore della collettività nazionale”, consapevole di essere ascoltato da un uditorio, appunto, pubblico. Non rileva la motivazione psicologica dell’offesa, sia essa dovuta ad una contestazione fondata o puramente gratuita, bensì il significato dei termini scelti e la volontà di usarli facendosi sentire da altri.
Vale dunque sia per il passeggero in snervante attesa alla fermata dell’autobus – alzi la mano chi, inerme di fronte all’ennesima corsa saltata, non si è mai lasciato ad improperi del genere -, sia sui blog e social network. E’ superfluo ripetere qui la specifica frase incriminata nella sentenza, che associa l’Italia ad un diffuso concime organico, perché turpiloquio o meno, la patria ed i compatrioti vanno rispettati. Però che valvola di sfogo, di fronte all’ennesimo torto subito, a soprusi, prepotenze, inefficienze, incapacità, servilismo, quel lasciarsi andare a sonore imprecazioni contro un paese tra i primi al mondo in quanto ad ingiustizie.
D’ora in poi dovremo morderci le labbra e strozzare quello sfogo in sussurro, magari scriverlo in un taccuino da riporre gelosamente nella tasca interna della giacca, oppure tenercelo dentro e, gonfi come palloni, una volta rientrati a casa sigillare porte e finestre, accendere TV e stereo a tutto volume, e finalmente liberare il nostro disappunto. E’ giusto che l’Italia si riprenda la propria dignità, almeno nelle parole. Restiamo in attesa che lo faccia anche attraverso i fatti.