“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.Tutti conoscono il dettato dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che ho riportato qui sopra soltanto allo scopo di far seguire un brevissimo ragionamento circa il significato di queste frasi e trarne alcune considerazioni d’attualità.
La Repubblica democratica è la forma di governo scelta dalle elettrici e dagli elettori il 2 giugno 1946 contrapponendola alla monarchia.
La Repubblica democratica si caratterizza per la partecipazione del popolo al governo dello Stato, mediante l’elezione degli organi del potere legislativo da parte di tutti i cittadini.
Sotto quest’aspetto attraverso il dettato costituzionale si rende operante il principio della sovranità popolare e si compie una scelta ben precisa: quella della prevalenza della forma di “Democrazia Rappresentativa” attuata con l’elezione da parte delle elettrici e degli elettori dei loro rappresentanti al Parlamento e ai Consigli degli Enti territoriali. Una scelta rafforzata dalla necessità del voto di fiducia al Governo da parte delle Camere e dall’elezione in forma indiretta del Presidente della Repubblica.
Esistono nella previsione costituzionale anche forme di democrazia diretta, ma ben delimitate e circoscritte in due ambiti ben precisi: quello del referendum abrogativo (il referendum confermativo per atti di modifica della Costituzione è, invece, eventuale conseguenza dell’esito di una votazione parlamentare) e quello della potestà di presentazione di progetti di legge a iniziativa popolare. Democrazia diretta che si trova in una condizione evidente di minorità rispetto alla Democrazia rappresentativa.
L’altro elemento da rimarcare, in quest’occasione, riguarda il tema del Lavoro, così come questo è configurato nel dettato dell’articolo1.
Il Lavoro è considerato dalla Costituzione il valore fondamentale che qualifica la forma dello Stato: s’impone così il perseguimento di una politica di difesa sociale, tesa a eliminare le diseguaglianze e i privilegi economici attraverso la promozione e la tutela privilegiata di ogni attività lavorativa.
Nella sostanza, con il dettato del suo articolo 1 la Costituzione Repubblicana afferma il principio dello Stato di diritto che prevede la separazione dei poteri e la supremazia della legge su tutti gli altri poteri pubblici, ma lo vivifica sottolineando il carattere democratico della Repubblica e affermando il primato della Costituzione che è il manifesto dei principi e dei diritti fondamentali.
La Repubblica, che si basa unicamente sul consenso popolare, riconosce il lavoro come principio basilare della società nel senso dello Stato sociale e on conferisce più alcun valore al censo, ossia al possesso di ricchezze, soprattutto quelle ereditariamente acquisite, o ai privilegi di nascita o di casta, ma favorisce tutte le iniziative necessarie per garantire l’eguale dignità sociale e affermare il diritto del lavoro per tutti.
In conclusione di questa sommaria esposizione dei contenuti presenti nell’articolo1 della Costituzione Repubblicana credo sia il caso di svolgere una considerazione di fondo: se anche soltanto ci limitiamo ad analizzare l’insieme delle vicende politico – istituzionali dell’Italia principiando dalle modalità di nomina del governo Monti (Novembre 2011) senza risalire di più all’indietro, non possiamo fare a meno di notare come, sia al riguardo del tema della democrazia rappresentativa, dell’esercizio del consenso popolare e del tema – fondamentale – del diritto del lavoro ci si stia muovendo ai limiti, se non già al di là della Costituzione.
Ciò che si sta preparando, con l’idea di una “Convenzione delle Riforme”evidentemente orientata verso il mutamento della forma di Stato in senso presidenzialista, non può che suscitare un grave allarme.
Il tema della qualità della democrazia, così come questa è stata delineata dalla Costituzione del ’48 diventa un’assoluta priorità politica per una sinistra che intenda ancora affermare i principi della rappresentatività e della presenza dei lavoratori sulla scena politica del nostro Paese.
Franco Astengo
INCARICO A LETTA, COMPLETATO IL CERCHIO DELLA SVOLTA AUTORITARIA
Con l’incarico a Enrico Letta, nobile rampollo di una stirpe perfettamente “bipartisan”, Giorgio Napolitano ha chiuso il cerchio di una svolta “autoritario – presidenzialista” che, si badi bene “a Costituzione invariata”, nella situazione italiana era in cammino da tempo, ed era stata fortemente accelerata almeno dal Novembre 2011, quando era stata attuata l’operazione “governo dei tecnici”.
Sparisce ingloriosamente di scena il “governo di cambiamento” e viene praticamente azzerato l’esito della recente consultazione elettorale.
L’unica incognita, in verità, risiede a questo punto è rappresentato dalla capacità del PD di non implodere definitivamente al momento della fiducia.
L’elemento più significativo che emerge, comunque, dalla conclusione della fase apertasi, in Italia, con il risultato elettorale del 24-25 Febbraio scorso non è rappresentato dal fatto che ci sarà un governo in perfetta continuità con quello dei cosiddetti “tecnici” sul piano della sudditanza all’Europa delle banche e della crisi, della visione sociale e dei contenuti di fondo sul piano dei programmi.
Un governo che, sicuramente, continuerà nell’opera di vera e propria “ricollocazione di classe” così pervicacemente perseguita dall’esecutivo precedente.
Si tratta di un tema, quello della collocazione “politica” di questo esecutivo che esamineremo nei prossimi giorni annunciando, però, da subito la necessità di una forte opposizione sociale al riguardo della quale sarà necessario muoverci rapidamente al fine di poter definire un’ipotesi di opposizione politica in grado, dal punto di vista strutturale, di raccoglierne le istanze e portarle avanti a tutti i livelli, agendo sul terreno dell’alternativa intesa, per chiarire immediatamente, come alternativa di sistema.
Il punto più importante però, in questo momento, riguarda la “torsione” antidemocratica e anticostituzionale che è stata attuata verso il sistema politico italiano.
Ci troviamo di fronte ad una crisi generale della rappresentanza politica, dalla quale sono scaturiti i fatti di cui ci stiamo occupando relativi all’emergere di un presidenzialismo di fatto che proprio nella vicenda dell’incarico per la formazione del nuovo governo ha avuto il suo più evidente suffragio: com’è noto proprio nel momento in cui il Presidente della Repubblica ha trattato la propria riconferma, è stato proprio il tema del “governo” la discriminante effettiva sulla quale le forze politiche hanno dovuto misurarsi e cedere.
Questo che si profila non sarà un “governo delle larghe intese” ma un vero e proprio “esecutivo del Presidente” (inteso il governo come braccio esecutivo della Presidenza della Repubblica): un vero e proprio rovesciamento dei canoni della repubblica parlamentare contenuti nella Costituzione del ’48.
Del resto la resa totale e incondizionata del PD nel corso della riunione della sua direzione di ieri appare come la testimonianza più emblematica di questo stato di cose.
E’ dunque il deficit di rappresentanza politica il nodo di fondo da affrontare: un deficit che viene da lontano, si accompagna fin dagli anni’80 con l’offensiva liberista a livello internazionale, che emerge da una vera e propria espressione d’incapacità culturale delle élite dirigenti i partiti di sinistra (anche a soprattutto a livello europeo).
In Italia questo stato di cose è stato accentuato anche da scelte sbagliate sul piano dell’architettura del sistema, a partire dalla scelta sciagurata a favore del sistema elettorale maggioritario avvenuta nel 1993 attraverso un’operazione di vera e propria mistificazione di massa, nel corso della quale risultarono particolarmente attivi gli stessi protagonisti che, poco tempo prima, avevano scelto di liquidare, di fatto, l’esperienza del PCI.
L’esito della vicenda relativa al mutamento del sistema elettorale confermò la tendenza di fondo distruttiva del sistema dei partiti, puntando a produrre – appunto – partiti sempre più ricchi di potere e sempre più poveri di politica, sempre più “apparati” e sempre meno strumenti di sintesi: due processi che abbiamo visto completarsi nel corso degli anni fino ad assumere, nel caso del PD e dei suoi alleati, la veste delle “primarie” come elemento costitutivo della natura del partito e dell’alleanza.
In realtà l’unico collante possibile, come risposta a una sconfitta che si era ritenuta storica e irreversibile, era rappresentato dall’idea della “governabilità” quale unico elemento sul quale far poggiare l’iniziativa politica.
Era stato facile intuire, fin proprio dai primi anni’90 del secolo scorso, come sarebbe stato complicato resistere alla pressione che, attorno al concetto di “governabilità” inteso come esaustivo, sarebbe stata esercitata nella direzione di un mutamento sistemico di tipo “autoritario – presidenzialista”.
Un sistema “autoritario – presidenzialista” che risultava, come adesso risulta, del tutto congeniale alla forte carica ideologica contenuta nel meccanismo feroce della modernizzazione capitalistica che ha prodotto la crisi e ne sostiene la sua gestione.
Il tema della sovrastruttura politica risultava dunque del tutto centrale, ma le forze della sinistra italiana (o meglio di quel che ne rimaneva) non hanno dimostrato in questi anni di avere la forza di un’autonomia di pensiero e di una prospettiva di alternativa altrettanto sistemica come quella presentata dai padroni e dalla loro “coalizione dominante”.
La sinistra si è ridotta, grazie ad una ricerca di politica delle alleanze del tutto subalterna, a essere priva della rappresentanza parlamentare, oppure come nel caso di Sel di recuperarla in una dimensione del tutto dipendente dalle oscillazione altrui: tanto è vero che, nel caso del profilarsi (molto eventuale, per la verità) di una scissione del PD e della formazione (del tutto ipotetica) di una sorta di “Partito del Lavoro” questa avverrebbe sotto l’egemonia di un’idea di mera modernizzazione del sistema di visione semplicemente tecnocratica di modifica di alcune regole; neppure si potrebbe parlare di “riformismo”.
Appare urgente, dal punto di vista dei comunisti e della sinistra d’alternativa muoversi, prima di tutto nell’individuare un nuovo senso nel rapporto tra la politica e la morale, tra l’individuale e il collettivo.
Contestualmente si tratta di sviluppare almeno tre punti di analisi:
1) La constatazione definitiva dell’incapacità di un sistema di partiti occupati esclusivamente nell’esercizio dell’invadenza del potere a penetrare all’interno di una società così complessa (in questo, sempre riferendoci soltanto al “caso italiano”, sta, ad esempio, l’essenza del successo del M5S.)
2) Il pressoché definitivo esaurimento delle usate formule politiche;
3) Il venir meno delle potenzialità soggettive della sinistra di almeno due punti essenziali: il riconoscimento di una “centralità” della soggettività sociale un tempo rappresentata dalla classe operaia e la disponibilità di un nucleo militante d’avanguardia.
Su questi punti d’analisi, sulle discriminanti che essi oggettivamente tracciano, potrà essere possibile pensare di recuperare un’identità e un’autonomia progettale dei comunisti e della sinistra d’alternativa, lanciando da subito, però, una grande iniziativa di opposizione sulla svolta autoritaria in atto.
Franco Astengo