Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Ancora una “spremuta d’IVA”!!! E poi….?


In “questi” tempi di “questa” crisi, il tema dei “ritocchi dell’IVA” torna sulla bocca di tutti, sopratutto dei politici, siano essi di destra o di sinistra, ma anche di molti cittadini che hanno cominciato a capire [forse un pò tardi] la complessa gravità della situazione. La situazione generale del Paese è grave, anzi forse gravissima, ma complicata sempre di più dalla fin troppo facile e diffusa volontà di nascondere i problemi sotto il tappeto, “tanto qualcun altro, presto o tardi, provvederà!!!” Però, ora è tardi per piangerci sopra!!!

Le origini della tanto vituperata crisi odierna risalgono a circa metà degli anni ’70 quando lo Stato iniziò ad intervenire pesantemente nell’economia; al fine di salvare la scarsa competitività delle imprese italiane, i politici decisero che la collettività si sarebbe addossata il peso della necessaria ristrutturazione industriale e della conseguente disoccupazione.

E’ così che, nel 1975, lo Stato si trovò per la prima volta in deficit, iniziando a bruciare il 6% del reddito nazionale. Seguì l’ingresso dell’Italia nello SME (marzo 1979), la svalutazione della lira (del 13% ) nel 1980, [per facilitare le nostre esportazioni, ma già allora frutto della negoziazione con i partners europei!!!] col risultato di dover importare, a prezzi fortemente maggiorati, i prodotti agroalimentari (un quinto del nostro fabbisogno) e le fonti di energia (80% del fabbisogno).

Ne conseguì un forte deficit della bilancia dei pagamenti e la risalita dell’inflazione, arrivata a toccare il 20% nel 1979. Dal 1981 al 1990 i deficit annui della finanza pubblica salirono: al 59% nel 1981, fino al 98% del 1990, portando alle stelle l’onere degli interessi passivi. Nel 1992 il sistema economico italiano era, già allora, al tracollo. Per reperire i fondi necessari a fronteggiare la spesa pubblica, lo Stato fu costretto ad aumentare i tassi di interesse del debito pubblico innescando una spirale perversa “alti tassi + costo del debito + ulteriore indebitamento”, aggravando così il deficit annuo e il tasso di disoccupazione.

Gli italiani, tutti, non se ne diedero troppo peso, continuando con il consueto “bengodi” [che non significa affatto”welfare”] sebbene la stampa economica del tempo non tralasciasse ripetuti segnali d’allarme. Infatti, già nell’agosto 1985, ben 27 anni fa, sul settimanale “Il Mondo”, sotto il titolo “Una spremuta d’IVA” si poteva leggere quanto segue: “Pane, farina, ma anche carne, vestiti, automobili, televisori: il primo gennaio 1986 i consumatori italiani avranno una sgradita sorpresa: le aliquote dell’IVA saliranno, e così i prezzi di molti prodotti. Insieme all’IVA saranno ritoccate tutte le imposte indirette, a cominciare da quelle sulla benzina, sulle sigarette e sugli alcoolici. …. Poi toccherà alle tasse scolastiche, università, asili nido, e sulla spazzatura…..”

E così avvenne, ma il Paese non insorse: era agosto, gli italiani erano al mare e avevano da risolvere dubbi sulla prossima composizione della squadra di calcio del cuore. Eppure, dal 1974 (introduzione della riforma “Vanoni”] tutti i governi avevano sempre sostenuto e seguito una regola aurea: finanziare la spesa pubblica attraverso le imposte dirette, attribuendo sempre meno importanza a quelle indirette.

Perché non ci furono allora ferme e decisive alzate di scudi da parte di tutta la sinistra del tempo? Perché persino la revisione della curva delle aliquote presentata il mese prima da comunisti e sinistra indipendente, prevedeva già allora, una diminuzione della pressione sulle dirette e un inasprimento delle indirette?

Il settimanale risponde a questi quesiti per bocca del ministro Goria: “A questo punto non ci sono alternative; una manovra sulle imposte indirette è, prima di tutto, più semplice da realizzare, ha meno costi politici, è meno percepita dai contribuenti, ed è sopratutto l’unico strumento nelle mani del governo per contenere, con qualche speranza di successo, di limitare la crescita del disavanzo pubblico, come promesso ai partner della CEE, dopo la svalutazione della lira del mese precedente.” Perché oggi suscita tanto scalpore l’ennesimo stimolo dei partner per farci rigar dritto!?

Seguì (febbraio 1992) la ratifica del trattato di Maastricht, con un’Italia, gravata dal peso di vent’anni di mala-amministrazione dello Stato, ancora lontana da tutti gli obiettivi previsti per la convergenza con l’economia degli stati membri. Nel corso del 1992 la situazione diventò insostenibile: la crescita del tasso di interesse appesantiva i disavanzi pubblici generando circoli viziosi tra crescenti pagamenti di interessi sul debito, deficit di bilancio e ulteriore crescita del debito.

La lira era al collasso: il governatore Ciampi dovette bruciare in pochi giorni 53 mila miliardi di lire di riserve e aumentare il tasso di interesse al 15% per impedire la fuga di capitali all’estero; poi, a settembre, l’Italia dovette svalutare subito la lira del 13%, svalutazione che negli anni seguenti arriverà al 40%. Il governo Amato varò la tassazione dei conti correnti bancari, la creazione della minimum tax per gli artigiani e il congelamento dell’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici, nonché l’abolizione della “scala mobile” e l’avvio dell’innalzamento dell’età pensionabile Dlgs. 30/12/92.

I continui “interventi a pioggia” del governo italiano hanno sempre avuto in realtà la finalità di sovvenzionare i consumi sottraendo fondi che avrebbero potuto essere destinati al settore produttivo, alle infrastrutture di cui abbiamo tanto bisogno, creando le basi per uno sviluppo più duraturo e veritiero, evitando l’arretratezza del nostro paese nella Ricerca e Sviluppo.

Riassumendo questa lunga e travagliata, ma da troppi troppo spesso dimenticata storia, non si può evitare di ricordare la vecchia favola della cicala e della formica: avendo vissuto troppo a lungo al di sopra delle proprie possibilità, sopratutto a causa di una classe politica più attenta al mantenimento dei consensi elettorali che al sostenimento della credibilità all’estero, abbiamo sottovalutato tutti la pericolosità degli indebitamenti (pubblici e privati) lasciati in eredità alle future generazioni, il tutto peggiorato sempre più da fenomeni di abnorme evasione fiscale, corruzione, promesse politiche sistematicamente disattese e autoalimentazione dei debiti (finanziare i vecchi debiti attraverso la creazione di nuovo debito).

Ora tutti i nodi vengono al pettine e piangere sul latte versato non serve! Dobbiamo dire: basta “fare le cicale”, urge invece saper tutti competere con le moderne industriose “formiche”.

 Antonio Garibbo

Ottobre 2012


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