Domenica, 28 Ottobre 2012, ricorrono novant’anni dalla “Marcia su Roma”, un momento di snodo fondamentale nella storia d’Italia, un data nella quale si registrò il crollo definitivo della vecchia Italia liberale e l’avvento al potere del fascismo.
Un vero e proprio momento di “eversione della classi dirigenti” come lo definì Antonio Gramsci, il cui lasciato politico, culturale, morale influenza ancora adesso la vita pubblica ed i costumi sociali del nostro Paese.
Il mio intento, in questa occasione, è quello di alimentare una necessaria memoria storica su ciò che il fascismo è stato ed ha rappresentato nella storia d’Italia, al fine di evitare per quanto possibile quei fenomeni di pericoloso revisionismo storico che pure si stanno manifestando con intensità, in particolare negli ultimi tempi, prendendo soprattutto a bersaglio la Resistenza.
L’ITALIA TRA VITTORIA MUTILATA E BIENNIO ROSSO
Per uno strano paradosso apparente, l’Italia uscì dal grande conflitto mondiale da un lato come una delle grandi potenze vittoriose, dall’altro in preda a una crisi di enorme portata.
Il paradosso sta nel fatto che, mentre all’esterno figurava come uno dei “grandi vincitori”, in realtà il nostro paese si trovò nelle condizioni socio-politiche di un paese vinto.
Lo sforzo che gli italiani avevano sostenuto durante la guerra era stato gigantesco se considerato dal punto di vista delle potenzialità interne ma, al tavolo della pace, i veri “grandi europei” e gli statunitensi trattarono l’Italia non da pari a pari bensì come una potenza di secondo rango, gettando in uno stato di profonda frustrazione i gruppi che avevano voluto e sostenuto l’intervento in guerra.
Inoltre, a differenza che in Francia e in Gran Bretagna, le masse popolari non avevano sentito affatto la guerra come una guerra nazionale e patriottica, bensì come una fonte di sofferenze ingiustificate volute dalla classe dirigente.
Fu così che la polemica fra “neutralisti” e “interventisti” nel 1919 riprese violenta.
Presso gli interventisti espansionisti e in larghi strati borghesi e di ex ufficiali, si diffuse – appunto – quel senso di frustrazione nazionale di cui si è detto e che li portò a ritenere di aver subito una “vittoria mutilata”.
I capi nazionalisti inasprirono le tensioni, e D’Annunzio, il “leader” delle “radiose giornate di maggio” contando su una complicità di comandi militari e sull’esasperazione nazionalistica degli ufficiali e delle loro truppe, occupò Fiume con reparti militari ribelli, proclamandone l’annessione all’Italia.
Era il primo caso di ribellione nella storia dell’Esercito.
Il Paese si divise tra entusiasti sostenitori di D’Annunzio e coloro, in prima fila i socialisti, che ne denunciarono l’imperialismo militaristico.
L’atteggiamento, dunque, di fronte ai frutti della vittoria divideva le classi e i gruppi sociali; ma questa divisione non era che un aspetto di una divisione più generale profonda di natura socio-economica.
Il dopoguerra vide, infatti, la società italiana profondamente mutata.
Anzitutto il bilancio dello Stato mostrava un deficit pauroso: nel 1918 – 19 il deficit ammontava a 23.345 milioni, mentre nel 1913-14 era di 214 milioni.
Il 1921 fu l’anno che segnò una svolta decisiva nella crisi dello Stato liberale.
Fu l’anno in cui emerse chiaramente che la crisi non avrebbe avuto uno sbocco fosse pure di riformismo autoritario, ma di destra.
Nel gennaio, al congresso di Livorno, maturò la scissione del PSI con la nascita del Partito Comunista d’Italia.
L’influenza dei comunisti sul proletario rimase, però, inferiore a quella del Partito Socialista e dei sindacati.
Mussolini da canto suo s’era reso esattamente conto che il movimento operaio andava perdendo di slancio e nello stesso gennaio del 1921, secondo la sua tipica tattica opportunistica, fece un’aperta professione di fede nei valori “insostituibili” del capitalismo.
La crisi economica nei primi mesi dell’anno fece sentire tutti i suoi effetti.
La produzione industriale subì un forte ribasso, seguì una forte disoccupazione, con una decisa volontà degli industriali di puntare su di un abbassamento dei salari.
In questo quadro Giolitti, promotore di una mediazione fra le varie forze politiche e sociali e di leggi che colpivano sul piano fiscale i grandi profitti, era ormai sempre più sgradito agli industriali e agli agrari, i quali invece guardavano con la massima simpatia a Mussolini e alle sue squadre che, nel 1921, mettevano a sacco le sedi delle organizzazioni dei lavoratori.
Settori influenti dell’industria e degli agrari concessero forti finanziamenti ai fascisti.
D’altra parte Giolitti non era sostenuto neppure dai socialisti, che vedevano tutte le tolleranze del governo verso i fascisti e le loro imprese.
A questo punto Giolitti fece sciogliere le Camere e indisse nuove elezioni, che ebbero luogo nel maggio 1921.
Queste elezioni segnarono la piena accettazione del fascismo negli schieramenti della classe dirigente e il riconoscimento della loro utilità nella lotto contro il socialismo.
Come già nelle elezioni amministrative del 1920, furono formati “blocchi nazionali” per far fronte ai due grandi partiti di massa, e i fascisti vi furono inclusi da Giolitti, convinto di poterli riassorbire e condizionare.
I socialisti da 156 seggi scesero a 122; i comunisti ne ottennero 16; il Partito popolare salì a 107; i partiti conservatori di varia sfumatura ottennero 275 seggi (fra cui 35 fascisti e 10 nazionalisti).
Giolitti rinunciò a favore il governo, convinto di non disporre del necessario consenso: la caduta, questa volta senza ritorni, del vecchio uomo politico liberale indicava che lo Stato liberale si avviava inesorabilmente verso la sua crisi decisiva.
L’AVVENTO AL POTERE DEL FASCISMO
Mussolini entrò per la prima volta al Parlamento come uno dei 35 deputati fascisti eletti nei “blocchi nazionali”.
Egli, alla testa di un movimento che nel 1921 andò depurandosi di certo toni radicaleggianti che ne avevano caratterizzato le origini ideologiche (si pensi ai toni “anticapitalistici”delle riforme indicate nel programma del 1919), raccogliendo nelle sue fila elementi apertamente reazionari, cercò di dare al fascismo un volto che gli consentisse di svolgere un ruolo in Parlamento.
Mussolini, in sostanza, intendeva a questo punto togliere al fascismo la caratterizzazione di mera “longa manus” della conservazione, da giocare negli scontri nelle piazze e nelle strade.
Dopo alcune oscillazioni iniziali, giunse a precisare quella che sarebbe stata una linea strategica apprestandosi a raccogliere in sede politica i frutti delle violenze extraparlamentari.
Si diede, così, a stabilire migliori rapporti con il Vaticano, l’esercito, la monarchia, rendendosi conto che il fascismo non avrebbe potuto diventare forza di governo, senza l’accettazione della Chiesa e del Re , dietro di cui stava l’esercito.
Al congresso di Roma (novembre 1921) il movimento fascista, forte ormai di 2.200 fasci e di oltre 300.000 iscritti, si trasformò in Partito Nazionale Fascista.
Nel suo programma affermava che il fascismo si presentava come la forza che più di tutte le altre incarnava i “supremi interessi della nazione”; che la difesa dello Stato di fronte agli elementi di disgregazione era suo compito fondamentale; che esso aspirava ormai al governo dell’Italia.
Nei confronti del Parlamento e della monarchia si esprimeva una minaccia potenziale, nel senso che si sottolineava che la loro funzione era legata alla capacità di difendere i valori nazionali.
Il nuovo partito si presentava sulla scena con una precisa connotazione: mentre era un Partito presente in Parlamento era l’unico tra i Partiti a disporre di una propria organizzazione armata da far valere, non solo contro il movimento operaio ma anche contro il Parlamento che si desse una eventuale maggioranza ostile al fascismo.
Nell’ottobre del 1922 la crisi precipitò definitivamente.
Giolitti, considerata l’assoluta inconsistenza del presidente del Consiglio in carica Facta, iniziò trattative in varie direzioni, specie con il partito Popolare e con i fascisti, tentando di formare un governo di coalizione con queste forze: Don Sturzo si oppose e Mussolini avanzò la richiesta di sei ministeri, mirando a far valere tutta la forza del fascismo e approfittando del disorientamento degli avversari.
La posta era ormai per lui la presa del potere: per creare un ampio consenso alla propria azione da parte degli industriali e della monarchia, in settembre aveva dichiarato che il fascismo avrebbe appoggiato una monarchia forte, e che bisognava dare nuovo spazio all’iniziativa degli imprenditori.
Intanto nel Partito Socialista, che era insieme con i comunisti l’unica reale forza antifascista, si arrivò ad una nuova scissione dopo quella del 1921, con la formazione del PSU i cui maggiori esponenti erano Turati, Treves, Matteotti.
Mentre uomini come Giolitti e Salandra si illudevano ancora di dare spazio ai fascisti nel quadro delle istituzioni liberali, Mussolini strinse i tempi.
Forti di una estesa organizzazione paramilitare, sotto la guida di un “quadrumvirato” formato da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi, con la complicità di ampi strati dell’alta burocrazia e delle alte sfere militari i seguaci di Mussolini si concentrarono il 24 Ottobre a Napoli.
Facta si dimise la sera del 26 Ottobre 1922.
Il 27 Ottobre “l’esercito delle camicie nere” entrò in azione e dispiegò le sue forze nell’Italia settentrionale e centrale.
Il re in un primo tempo parve orientato alla proclamazione dello stato di assedio (sera del 27), ma il giorno dopo rifiutò la firma al decreto relativo.
Mussolini, appoggiato dalla Confindustria, era deciso a chiedere l’incarico di formare il nuovo governo.
Nel pomeriggio del 29, egli venne informato con un telegramma che il Re accettava le sue condizioni.
La sera dello stesso giorno lasciò Milano, da dove non si era mosso per essere prudentemente vicino alla frontiera nel caso che gli avvenimenti assumessero una piega sfavorevole, e arrivò la mattina del 30 Ottobre a Roma.
Il Ministero Mussolini assunse la forma di un governo di coalizione, ma in realtà era la diretta espressione della vittoria del fascismo sulla vecchia classe dirigente liberale.
Il 16 Novembre la camera votò la fiducia al governo Mussolini con 306 voti contro 116.
A favore votarono Bonomi, Giolitti, Orlando, Salandra e i popolari.
Era dominate la convinzione che il fascismo avrebbe rappresentato un governo transitorio
Le elezioni del 1924 e il delitto Matteotti
Il fascismo dell’ottobre 1922 era giunto al potere con l’appoggio di ampi strati delle classi dirigenti e forte delle camicie nere in armi.
Fra la fine del 1922 e il 1926 il fascismo percorse un tratto decisivo del proprio sviluppo.
La classe politica che aveva retto l’Italia per oltre mezzo secolo era in rotta, sfiduciata, senza più il sostegno delle classi possidenti.
Il movimento operaio aveva subito una sconfitta storica; e Mussolini ne era ben consapevole.
Giunto al governo il fascismo disponeva ormai del controllo dell’apparato dello Stato.
Eppure era ben lungi dall’essere del tutto solido.
Nell’ambito delle istituzioni parlamentari, il nuovo governo doveva passare attraverso la fiducia della maggioranza parlamentare; inoltre, nonostante la sconfitta subita il proletariato militava pur sempre per la grande maggioranza nelle organizzazioni politiche e sindacali “rosse”.
Il fascismo, fra l’ottobre del 1922 e il 1926, agì così da liquidare le istituzioni liberali, la pluralità dei partiti, la libertà di organizzazione sindacale e affermare per contro un regime antiparlamentare fondato su di un partito unico e sull’irreggimentazione dei lavoratori in organizzazioni fasciste.
Il periodo 1922-26 fu il periodo di trapasso, durante il quale il fascismo usò autoritariamente delle istituzioni ereditate dallo Stato liberale per distruggere queste ultime e attuare una trasformazione qualitativa delle Istituzioni dello Stato.
Come già nel 1921-22, anche in questi anni, liberali, popolari, socialisti e comunisti non riuscirono ad opporsi al fascismo e alla sua trasformazione da partito di governo a partito di regime.
Nel dicembre 1922 sorse il Gran Consiglio del fascismo, una sorta di suprema direzione politica del partito, con il compito di fungere da trait d’union tra partito e governo.
Nel gennaio del 1923 le forze paramilitari fasciste vennero definitivamente inquadrate.
Sorse la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN), una organizzazione non statale, ma di partito, il cui compito doveva essere quello di proteggere “gli inevitabili ed inesorabili” sviluppi di quella che veniva chiamata “la rivoluzione d’ottobre del fascismo”.
La nuova legge elettorale del 13 Novembre 1923 (legge Acerbo) rivelò che il fascismo intendeva sanzionare sul piano parlamentare, con l’aiuto di una “truffa” legale, la propria posizione di forza, a spese delle altre forze politiche.
Questa legge stabiliva che la lista di maggioranza relativa che avesse raggiunto il 25% dei voti, avrebbe ottenuto i due terzi dei seggi della Camera.
Alle elezioni, fissate per l’aprile del 1924, un “listone” sotto il diretto controllo del Gran Consiglio e di Mussolini, cui aderì la maggioranza dei liberali (Salandra, Orlando).
La minoranza dei liberali (fra cui era Giolitti) presentò proprie liste; fra gli oppositori “costituzionali” (chiamati così per distinguerli dai socialisti e comunisti) vie erano Giovanni Amendola e Ivanoe Bonomi.
La campagna elettorale si svolse in un clima di violenze ed intimidazioni contro tutti gli oppositori, con l’aperta complicità delle autorità dello Stato.
La forza preparò il consenso.
I fascisti ed i loro alleati ottennero il 64,9% dei voti e 374 seggi.
I liberali indipendenti ebbero il 3,3%; gli “oppositori costituzionali” di Amendola e Bonomi il 2,2%; i popolari il 9%; i socialisti unitari (Turati e Matteotti) il 5,9%; i socialisti ufficiali il 5%; i comunisti (a Venezia fu eletto Antonio Gramsci) il 3,7 %.
Il fascismo aveva raggiunto così l’agognata maggioranza parlamentare; e poco importava con quali mezzi.
Quando la Camera fu chiamata a ratificare la convalida delle elezioni, il segretario politico del Partito Socialista Unitario, Giacomo Matteotti, in un forte discorso fece la cronistoria delle violenze fasciste contro gli oppositori nel corso della campagna elettorale e mise vanamente sotto accusa la validità dei risultati.
Questo discorso coraggioso fu la sua sentenza di morte: il 10 Giugno 1924 Matteotti fu rapito e quindi assassinato da sicari fascisti.
La reazione nel Paese fu enorme; anche ampi strati della borghesia e della piccola borghesia, che avevano sostenuto il fascismo furono disorientati ed anche nelle stesse file fasciste lo sbandamento era grande.
Ma le opposizioni, in piena crisi, non seppero andare oltre la condanna politica e morale; il che confermò nei fascisti la fiducia ormai di vecchia data nella maniera forte.
Liberali delle varie correnti, socialisti riformisti, massimalisti, popolari, CGL, respinsero la proposta avanzata da Gramsci di proclamare lo sciopero generale.
Il modo in cui le opposizioni si mossero ne dimostrò tutta la crisi politica.
Il 18 Giugno esse concertarono di agire in modo coordinato (solo i comunisti mantennero la loro libertà d’azione).
I deputati che le rappresentavano decisero di non partecipare più ai lavori della Camera (sempre chiusa) ritirandosi, secondo una definizione di Turati, nell”Aventino delle proprie coscienze”.
Nacque così la secessione dell’Aventino.
Gli oppositori affermarono che sarebbero rientrati alla Camera solo quando fosse stata restaurata la legalità e fosse stata abolita la Milizia.
Era una chiara pressione specie sul re, perché ritirasse la fiducia a Mussolini.
Le speranze riposte nel Re caddero nel vuoto più totale e dimostrarono il loro carattere del tutto illusorio.
Il 30 Giugno Vittorio Emanuele III esortò alla “concordia”, vale a dire manifestò il proprio appoggio al fascismo.
Il 12 Novembre Mussolini, ormai sicuro di se, fece riaprire la Camera, in cui rientrarono i comunisti che avevano constatato il fallimento dell’Aventino.
La Camera, in assenza degli aventiniani, votò la fiducia a stragrande maggioranza a Mussolini (ma votò contro Giolitti, il quale aveva infine capito la vanità dei suoi progetti di “assorbimento” del fascismo).
La via per la completa fascistizzazione dello Stato era ormai aperta ed il discorso del 3 Gennaio 1925 tenuto da Mussolini alla Camera, quando dichiarò come la forza fosse la sola soluzione quando fossero in lotta due elementi irriducibili, aprì la strada ad ulteriori violenze ed intimidazioni rivolte, in questa occasione, essenzialmente verso la stampa.
LE LEGGI “FASCISTISSIME” E LA FINE DEFINITIVA DELLO STATO LIBERALE
Il discorso di Mussolini alla Camera segnava, come abbiamo già segnalato, di fatto se non ancora formalmente, la fine politica delle opposizioni, la fine del sistema liberale parlamentare e l’ormai raggiunta conquista da parte del fascismo del “monopolio politico”.
La vita dei partiti di opposizione venne resa quasi impossibile.
Fu in quel momento che anche Croce tolse il precedente benevolo appoggio al fascismo.
Rispondendo ad un manifesto di intellettuali fascisti, redatto da Gentile, nel quale si registrava la condanna a morte del liberalismo e della democrazia, egli redasse, nell’Aprile del 1925 un contromanifesto (che ottenne una quarantina di firme) nel quale si esprimeva “fede” in quel liberalismo che aveva animato l’Italia del Risorgimento.
Il 20 luglio Amendola venne aggredito da squadristi e percosso; sarebbe morto l’anno dopo in esilio in Francia.
Fra gli atti innumerevoli di violenza fascista, è da ricordare la notte di terrore (4 Ottobre 1925) scatenata contro gli antifascisti a Firenze.
La trasformazione dello stato liberale parlamentare dominato dai fascisti in Stato e regime “fascisti” fu realizzato per mezzo di una serie di leggi dette “fascistissime”.
Una legge del 24 Dicembre 1925 stabilì, modificando lo Statuto del 1848, fino ad allora in vigore, che: la figura del Presidente del Consiglio veniva mutata in quella di Capo del Governo; che il Capo del Governo sarebbe stato nominato e revocato dal Re e che a loro volta i ministri erano nominati e revocati su proposta del Capo del Governo; che era il Capo del Governo a decidere l’ordine del giorno del Parlamento.
Questi provvedimenti significarono un enorme rafforzamento del potere esecutivo e l’esautoramento del Parlamento, ridotto a cassa di risonanza della volontà del Capo del Governo, ormai rivestito dalle caratteristiche di un dittatore.
Un’altra legge, di poco precedente (26 novembre) aveva sottoposto tutte le associazioni al controllo di polizia.
Il 2 Ottobre 1925 si era provveduto, con il patto di Palazzo Vidoni, a esautorare definitivamente la CGL, ufficialmente scomparsa nel gennaio 1927.
Le commissioni interne furono abolite e le Corporazioni nazionali, cioè i sindacati fascisti furono riconosciuti dalla Confederazione dell’Industria come i soli rappresentanti dei lavoratori.
Nel febbraio, e poi nel settembre 1926, furono abolite le amministrazioni locali di nomina elettiva ed i podestà, di nomina governativa, sostituirono i Sindaci.
Nel novembre 1926 ( a seguito del fallito attentato Zamboni) furono annullati i passaporti, soppressi i giornali antifascisti, sciolti i partiti di opposizione.
Centoventi deputati dell’opposizione furono privati del mandato parlamentare.
Infine fu creato un “Tribunale speciale per la difesa dello Stato” con un collegio giudicante formato da “consoli” della MVSN e presieduto da un generale; al tribunale fu affiancata anche una speciale polizia politica, l’OVRA (Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo). Venne instaurata anche la pena di morte.
IL VENTENNIO
Ovviamente non ricostruirò, in questa sede, l’intero ventennio: in Italia venne instaurato un regime totalitario, sia pure fondato su di una sorta di “diarchia” tra il Re ed il Duce (lo Statuto albertino non fu mai abrogato): si realizzarono la conciliazione tra Stato e Chiesa; l’ordine corporativo; l’interventismo statale in economia; si ruppero gli equilibri internazionali attraverso l’alleanza con la Germania, la guerra d’Etiopia, l’appoggio alla rivolta franchista in Spagna, fino alla seconda guerra mondiale: l’altro passaggio decisivo di questa nostra travagliata storia. Fu la seconda guerra mondiale a decretare la fine del fascismo, che si verificò nel Luglio1943, in seguito allo sbarco degli anglo-americani in Sicilia.
A quel punto le acque, anche all’interno del vertice fascista, stavano muovendosi vorticosamente.
Dino grandi assunse l’iniziativa di mettere in minoranza, in una seduta del Gran Consiglio del fascismo (24-25 Luglio 1943) Mussolini, su un programma (eliminazione delle strutture totalitarie, ripristino dello Statuto e riassunzione da parte del Re delle prerogative costituzionali) che convergeva in sostanza con quello della monarchia.
Il 25 Luglio un ordine del giorno Grandi venne approvato a maggioranza (19 si, 7 no, una astensione, fra i sì anche quello di Ciano, il genero di Mussolini).
Il re, messo di fronte alla crisi del regime, nominò il maresciallo Badoglio Capo del Governo, quindi fece arrestare Mussolini.
Nella notte tra il 25 ed il 26 Luglio, in tutta Italia esplose l’entusiasmo popolare.
Il re assunse il comando delle forze armate.
La caduta del fascismo faceva gravare sull’Italia la minaccia della reazione tedesca.
I tedeschi diffidavano della monarchia e di Badoglio, nonostante questi si fosse affrettato a dichiarare che l’Italia rimaneva fedele alle alleanze.
Badoglio (constata l’assenza di reazione da parte dei fascisti, che aveva dimostrato il baratro venutosi a creare fra il paese e il caduto regime) costituì il 26 Luglio una governo di militari e alti burocrati che procedette sia a smantellare gli apparati della dittatura fascista sia ad organizzare la repressione, che in alcuni casi fu molto dura, con morti e feriti di ogni manifestazione popolare.
Il disegno monarchico – badogliano puntava a ritornare al regime prefascista evitando una Costituente, lasciando intatte le strutture conservatrici in campo economico-sociale.
I partiti antifascisti, riemersi alla luce, erano rimasti di fatto estranei al colpo di Stato del 25 Luglio.
Il loro problema dominante era quello di prendere posizione di fronte al programma di Badoglio.
I socialisti e gli aderenti al Partito d’Azione, sorto dal movimento Giustizia e Libertà, si mostravano decisamente ostili alla monarchia, considerata complice del fascismo; i comunisti dal canto loro oscillavano fra la richiesta di un governo formato dai partiti antifascisti e l’appoggio al governo Badoglio in vista di far uscire l’Italia dalla guerra; i liberali, infine, erano favorevoli in genere a Badoglio.
Mentre i tedeschi si apprestavano a mettere in atto l’operazione “Valkiria” al fine di assumere il controllo militare dell’Italia, Badoglio condusse segretamente trattative segrete con gli alleati, i quali però chiesero la resa incondizionata: l’armistizio fu firmato dal generale Castellano, a Cassibile in Sicilia l’8 Settembre 1943.
Il re, Badoglio, la corte, lo stato maggiore dell’esercito, il governo abbandonarono Roma, e fuggirono prima a Pescara e poi a Brindisi.
La risposta dei tedeschi fu fulminea. Circondata Roma, la occuparono dopo duri combattimenti contro reparti dell’esercito cui si unirono elementi popolari.
Fu il primo atto della Resistenza italiana
RESISTENZA E LIBERAZIONE
La sorte dell’Italia centro-settentrionale dopo l’8 Settembre del 1943 e la fuga del Re da Roma fu decisa dalla immediata occupazione tedesca.
Sotto la protezione e per volontà dei nazisti il fascismo risorse immediatamente.
Gerarchi rifugiatisi in Germania provvidero subito a preparare un nuovo governo fascista: Mussolini, liberato dalle SS a Campo Imperatore (12 Settembre 1943) ripresa la guida del neofascismo.
Il Partito fascista prese il nome di “Repubblicano” e il regime si chiamò Repubblica Sociale Italiana: il governo si formò ufficialmente il 23 Settembre.
Il programma di Mussolini prevedeva la continuazione della guerra accanto ai tedeschi, la punizione dei traditori, il rinnovamento interno del fascismo in seno repubblicano e sociale.
Il primo congresso del Partito si svolse a Verona nel novembre del 1943 e stabilì la punizione dei traditori del Gran Consiglio del 25 Luglio: Ciano, De Bono ed altri gerarchi furono fucilati l’11 Gennaio 1944.
A mano a mano che la sconfitta tedesca si profilava sempre più inevitabile, la Repubblica di Salò (così denominata per aver stabilito a Salò la sede alla Presidenza del Consiglio) mostrò il volto di un fantoccio senza speranza. Essa si trovò avvolta nell’odio della popolazione, che vedeva i repubblichini impegnati come bande di terroristi al servizio dei tedeschi nella repressione antipartigiana.
La repubblica di Salò si rese inoltre complice dello sterminio degli ebrei avviati dai tedeschi nei grandi campi di sterminio di Auschwitz, Mauthausen, Buchenwald, Bergen Belsen, ecc.
Quando, nel febbraio del 1945, fu avviata la socializzazione delle imprese era evidente che si trattava di una misura presa da chi, fra poco, non avrebbe più avuto alcun potere.
Di contro al Governo neo-fascista stava il “regno del Sud” con il Re e Badoglio stabilitisi prima a Brindisi e poi (dopo uno sbarco degli Alleati) a Salerno.
Il governo monarchico dichiarò guerra alla Germania ottenendo dagli alleati la qualifica di “cobelligerante”.
Nel regno del Sud era urgente la formazione di un governo in grado di rappresentare i partiti politici antifascisti che avevano ripreso in pieno la loro attività: ma c’erano divisioni sul tema del riconoscimento della monarchia.
Risolse la situazione il ritorno in Italia del segretario del Partito Comunista, Palmiro Togliatti (27 Marzo 1944). 13 giorni prima il governo sovietico aveva riconosciuto il governo Badoglio: Togliatti si espresse, a Salerno, per l’unità di tutte le forze antifasciste, per l’accantonamento della questione istituzionale alla fine della guerra, alla formazione di un governo di unità nazionale.
Dopo lo sbarco di Anzio, Roma fu liberata il 5 Giugno 1944 (il giorno dopo gli alleati sbarcarono in Normandia, nel corso di una delle più imponenti manovre militari della storia, fornendo un decisivo impulso alla vittoria).
Il Re trasferì i poteri e Badoglio si dimise. Per designazione dei partiti Ivanoe Bonomi, il 18 Giugno 1944 un governo formato da tutti i partiti della coalizione antifascista.
Intanto al Centro-Nord si sviluppava il movimento partigiano.
Il Nord fu la parte dove la Resistenza operò sino alla fine della guerra contro la Repubblica di Salò, quindi la lotta partigiana si presentò oltre che come lotta antitedesca anche come guerra civile.
Questa lotta durò dal Settembre 1943 all’Aprile 1945 e abbracciò un movimento comprendente tutte le classi sociali, che raggiunse nell’aprile del 1945 i 200.000 combattenti con 70.000 caduti.
In questi strati era diffusa la convinzione che la Resistenza armata al nazifascismo, dopo il crollo del regime sorto nel 1922, dovesse costituire il preludio per una rottura del vecchio Stato, con il suo centralismo burocratico, con il dominio del privilegio sociale.
Interpreti di queste esigenze erano le formazioni partigiane di sinistra: Garibaldi (comuniste), Giustizia e Libertà (del partito d’azione) Matteotti (socialiste). Accanto a queste stavano le organizzazioni di orientamento moderato: la “autonome”, sostanzialmente apartitiche, formate da militari in gran parte monarchico-badogliani, le organizzazioni democristiane e i partigiani liberali.
Nell’Italia del Nord la lotta partigiana poté giovarsi di un vasto appoggio popolare, tanto nelle città quanto nelle campagne.
Il proletariato urbano fu in prima linea.
Dopo scioperi nel triangolo industriale nell’inverno del 1943-44, si ebbe un grande sciopero generale tra il 1 e 9 Marzo 1944, che paralizzò con chiari intenti politici e resistenziali, la produzione a Torino, Milano, Genova.
Fu l’unico grande sciopero dell’industria nell’Europa occupata dai nazisti, pagato a caro prezzo dalla classe operaia, con migliaia di deportazioni nel campi di sterminio.
La direzione politica della Resistenza fu opera dei Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), i quali rappresentavano i partiti antifascisti, poggiando sull’unità che veniva dalla comune lotta ma anche riflettendo le inevitabili divergenze di strategia.
Nel gennaio del 1944 sorse il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI).
Un problema importante era quello della definizione dei rapporti tra il CLNAI, il Governo del Sud e gli Alleati.
Questi ultimi, e fra loro specie gli inglesi, erano preoccupati che nel Nord i partigiani potessero diventare un fattore di radicalizzazione politica.
Per questo nel novembre del 1944 il maresciallo inglese Alexander, dietro motivazioni militari, invitò di fatto le forze partigiane a smobilitare in attesa che la liberazione venisse dagli eserciti anglo-americani: l’invito non fu accolto.
Nella stessa direzione andò un accordo del 7 Dicembre 1944 fra i delegati del CLNAI e gli Alleati che, mentre riconoscevano solennemente il movimento partigiano e l’autorità del Comitato, al tempo stesso sottoponeva le forze partigiane, trasformate in Corpo Volontari della Libertà (CVL) ad un comando militare supremo con a capo un generale dell’esercito regolare italiano, Raffaele Cadorna, affiancato dai vicecomandanti Luigi Longo, comunista e Ferruccio Parri, azionista.
Accordo che impegnava le forze della liberazione ad accettare le decisioni del governo militare alleato all’atto della liberazione.
Poco dopo, il 26 Dicembre 1944, anche il governo Bonomi riconobbe il CLNAI come proprio “delegato” al Nord, quest’ultimo riconosceva nel governo del Sud il “solo governo legittimo”.
I governi del Sud, prima Badoglio e poi Bonomi, avevano ottenuto dagli alleati di costituire, con truppe regolari, un Corpo Italiano di Liberazione.
Nel Nord le forze partigiane affrontarono i tedeschi e le bande fasciste in lotte dure e sanguinose, arrivando ad impegnare nell’ottobre del 1944 fino a 8 divisioni germaniche.
Un rilevante peso politico ebbero le “repubbliche partigiane”, costituite in località temporaneamente liberate (nelle Langhe, in Valsesia, Val Maira, Montefiorino, Val d’Ossola) dove furono avviate forme di governo popolare.
Nella durezza della guerra civile e contro i tedeschi, le popolazioni ebbero in innumerevoli casi a soffrire di atroci rappresaglie, la più grave, accanto a quella delle Fosse Ardeatine, ebbe luogo a Marzabotto, dove fra il 29 Settembre ed il 1 Ottobre 1944, furono trucidate oltre 1.000 persone.
L’insurrezione nazionale, dopo che già nel Marzo si furono intensificati gli scioperi, ebbe luogo il 25-26 Aprile 1945.
Mentre le truppe motorizzate alleate iniziavano l’invasione della valle del Po, i partigiani liberarono le grandi città del Nord, Genova, Torino, Milano.
I tedeschi si arresero o si ritirarono, la Repubblica di Salò si disgregò. Mussolini, dopo aver vagheggiato un’ultima resistenza in Valtellina, fuggì travestito da soldato tedesco verso la Svizzera, con una colonna germanica. Riconosciuto dai partigiani fu giustiziato il 28 Aprile, su ordine del Comando del Comitato di Liberazione Nazionale
La tragica avventura del fascismo era finita.
Si apriva così finalmente la stagione del dopoguerra e dell’avvento della democrazia, una fase complessa, travagliata ma foriera di avvenimenti politici di grandissima portata: primo fra tutti quello della nuova forma repubblicana dello Stato, decisa attraverso il referendum popolare del 2 Giugno 1946, e del varo della Costituzione.
Proprio alla Costituzione dedico la chiusura di questo lavoro, nel tentativo di suscitare una riflessione complessiva.
IN CONCLUSIONE: ANTIFASCISMO E COSTITUZIONE ITALIANA
A questo punto è necessario interrogarsi sulla radice profonda della Costituzione.
Uno de padri costituenti, Giuseppe Dossetti, metteva in luce la rilevanza dell’evento globale che l’aveva ispirata: ” In realtà, la Costituzione Italiana è nata ed è stata ispirata da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale. Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei costituenti non poteva non sentire alle sue spalle l’evento globale della guerra testé finita. Non poteva , anche se lo avesse cercato di proposito, in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le nazioni, l’urgere di una nuova solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra. Quindi l’acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l’asprezza dei contrasti politici fra i partiti appena rinati, lo stesso nuovo fervore religioso determinato dalla coscienza resistenziale non potevano non inquadrarsi, in un certo modo, in vasto orizzonti, al di là di quello puramente paesano, e non poteva non inserirsi anche in una nuova realtà storica globale a scala mondiale. Insomma, voglio dire che nel 1946 certi eventi di proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte e le esplicitazioni, anche quelle cruente, delle ideologie contrapposte e per non spingere, in qualche modo, tutti a cercare, in fondo, al di là di ogni interesse e strategia particolare un consenso comune, moderato ed equo. Perciò la Costituzione Italiana del 1948, si può ben dire nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo; più che dal confronto/scontro di tre ideologie datare essa porta l’impronta di uno spirito universale e, in un certo modo, trans-temporale” (Don Giuseppe Dossetti: I Valori della Costituzione).
Pur accettando la precisazione di Dossetti, che la Costituzione non è il semplice prodotto di una ideologia antifascista, coltivata in Italia da limitate elites politiche ma nasce dalle dure lezioni della storia, non si può disconoscere che il presupposto politico della Costituzione Italiana è rappresentata dall’antifascismo.
Su questo punto occorre essere chiari.
La Costituzione italiana è una costituzione compiutamente antifascista, non perché è stata scritta da antifascisti desiderosi di vendicarsi dei lutti subiti; al contrario per voltare definitivamente pagina rispetto alla triste esperienza del fascismo e della guerra, hanno sentito il bisogno di rovesciare completamente le categorie che avevano caratterizzato il fascismo.
Come il fascismo era alimentato da uno spirito di fazione ed assumeva la discriminazione come propria categoria fondante (sino all’estrema abiezione delle leggi razziali), così i costituenti hanno assunto l’eguaglianza e la universalità dei diritti dell’uomo come fondamento del loro ordinamento.
Come il fascismo aveva soppresso il pluralismo, perseguendo una concezione totalitaria (monistica) del potere, così i costituenti hanno concepito una struttura istituzionale fondata sulla massima distribuzione, articolazione e diffusione dei poteri.
Come il fascismo aveva aggredito le autonomie individuali e sociali, così i Costituenti le hanno ripristinate, stabilendo un perimetro invalicabile di libertà individuali e di organizzazione sociale.
Come il fascismo aveva celebrato la politica di potenza, abbinata al disprezzo del diritto internazionale ed alla convivenza con la guerra, così i costituenti hanno negato in radice la politica di potenza, riconoscendo la supremazia del diritto internazionale e ripudiando le nozze antichissime con l’istituzione della guerra.
Se i principi fondamentali della Costituzione, come ho cercato di dimostrare anche attraverso questa sommaria ricostruzione storica, sono antitetici rispetto a quelli proclamati o praticati dal fascismo, è l’architettura del sistema che fa la differenza ed impedisce che, ove mai giungano al governo forze politiche caratterizzate da cultura o aspirazioni antidemocratiche (come sta avvenendo nell’attuale congiuntura politica) queste forze possano realizzare una trasformazione autoritaria delle istituzioni, aggredendo il pluralismo istituzionale (per esempio l’indipendenza della magistratura) o il sistema delle autonomie individuali e collettive (libertà di espressione del pensiero, libertà di associazione, diritto di sciopero).
La Costituzione, insomma, rende impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza”.
Proprio per questo motivo, da circa quindici anni, si reiterano i tentativi per modificarla che ancora risultano all’ordine del giorno: la Costituzione è vissuta come un impaccio, una serie di vincoli fastidiosi, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza dei decisori politici.
Dobbiamo continuare a respingere questi attacchi e queste pericolose tentazioni e, proprio per questa ragione, non smarrire mai il senso della memoria storico: anche nel caso di un evento funesto e drammatico come quello della Marcia su Roma.
Franco Astengo