Nell’ultimo numero di Trucioli (25 maggio 2023) si è scritto di Calvino (a proposito del progetto di Orto rampante di Antonio Ricci) e delle caratteristiche del geco, tra credenze e verità scientifiche (nell’articolo di B. Alesben).
di Tiziano Franzi
Questa particolare compresenza mi ha fatto pensare a una pagina di Italo Calvino nel romanzo Palomar in cui quello che è considerato uno degli scrittori più geniali del Novecento, parla per l’appunto di questo animaletto. Eccone il testo: Sul terrazzo, come tutte le estati, è tornato il geco. Un eccezionale punto d’osservazione permette al signor Palomar di vederlo non di schiena, come da sempre siamo abituati a vedere gechi, ramarri e lucertole, ma di pancia. Nella stanza di soggiorno di casa Palomar c’è una piccola finestra-vetrina che s’apre sul terrazzo; sui ripiani di questa vetrina è allineata una collezione di vasi Art Nouveau; la sera una lampadina da 75 Watt illumina gli oggetti; una pianta di plumbago dal muro del terrazzo fa penzolare i suoi rami celesti sul vetro esterno; ogni sera, appena s’accende la luce, il geco che abita sotto le foglie su quel muro, si sposta sul vetro, nel punto dove splende la lampadina, e resta immobile come lucertola al sole. Volano i moscerini anch’essi attratti dalla luce; il rettile, quando un moscerino gli capita a tiro, lo inghiotte. Il signor Palomar e la signora Palomar finiscono ogni sera per spostare le loro poltrone dalla televisione e sistemarle accanto alla vetrina; dall’interno della stanza contemplano la sagoma biancastra del rettile sullo sfondo buio. La scelta tra televisione e geco non avviene sempre senza incertezze; i due spettacoli hanno ognuno delle informazioni da dare che l’altro non dà: la televisione si muove per i continenti raccogliendo impulsi luminosi che descrivono la faccia visibile delle cose; il geco invece rappresenta la concentrazione immobile e l’aspetto nascosto, il rovescio di ciò che si mostra alla vista.
La cosa più straordinaria sono le zampe, vere e proprie mani dalle dita morbide, tutte polpastrelli, che premute contro il vetro vi aderiscono con le loro minuscole ventose: le cinque dita s’allargano come petali di fiorellini in un disegno infantile, e quando una zampa si muove, si raccolgono come un fiore che si chiude, per tornare poi a distendersi e a schiacciarsi contro il vetro, facendo apparire delle striature minutissime, simili a quelle delle impronte digitali. Insieme delicate e forti, queste mani paiono contenere un’intelligenza potenziale, tale che basterebbe esse potessero liberarsi dal compito di restare lì appiccicate alla superficie verticale per acquistare le doti delle mani umane, che si dice siano divenute abili da quando non ebbero più da appendersi ai rami o da premere il suolo.
Le zampe ripiegate sembrano, più che tutte ginocchio, tutte gomito, molleggiate a sollevare il corpo.
La coda aderisce al vetro solo con una striscia centrale, dove prendono origine gli anelli che la fasciano da una parte all’altra e ne fanno uno strumento robusto e ben difeso; il più del tempo posata torpida e neghittosa, pare non abbia altro talento o ambizione che di sostegno sussidiario (nulla a che vedere con l’agilità calligrafica delle code delle lucertole) , ma all’occorrenza si dimostra reattiva e ben articolata e anche espressiva. Del capo sono visibili la gola capace e vibrante, e ai lati gli occhi sporgenti e senza palpebra. La gola è una superficie di sacco floscio che s’estende dalla punta del mento dura e tutta scaglie come quella del caimano, al ventre bianco che dove preme sul ventre presenta anch’esso una picchiettatura granulosa, forse adesiva.
Quando un moscerino passa vicino alla gola del geco, la lingua scatta e inghiotte, fulminea e duttile e prensile, priva di forma e capace d’assumere ogni forma. Comunque, Palomar non è mai sicuro se l’ha vista o non l’ha vista; ciò che certamente vede adesso è il moscerino dentro la gola del rettile: il ventre premuto contro il vetro illuminato e trasparente come ai raggi X; si può seguire l’ombra della preda nel suo tragitto attraverso le viscere che l’assorbono.
Se ogni materia fosse trasparente, il suolo che ci sostiene, l’involucro che fascia i nostri corpi, tutto apparirebbe non come un aleggiare di veli impalpabili ma come un inferno di stritolamenti e ingerimenti. Forse in questo momento un dio degli inferi situato al centro della terra col suo occhio che trapassa il granito sta guardandoci dal basso, seguendo il ciclo del vivere e del morire, le vittime sbranate che si disfano nei ventri dei divoratori, finché alla loro volta un altro ventre non li inghiotte.
Il geco resta immobile per ore ; con una frustata di lingua deglutisce ogni tanto una zanzara o un moscerino; altri insetti, invece, identici ai primi, che pur si posano ignari a pochi millimetri dalla sua bocca, pare non li registri. E’ la pupilla verticale dei suoi occhi divaricati ai lati del suo capo che non li scorge? O ha motivi di scelta e di rifiuto che noi non sappiamo? O agisce mosso dal caso o dal capriccio?
La segmentazione ad anelli di zampe e coda, la picchiettatura di minute piastre granulose sul capo e sul ventre danno al geco un’apparenza di congegno meccanico; una macchina elaboratissima, studiata in ogni microscopico dettaglio, tanto che viene da chiedersi se una tale perfezione non sia sprecata, viste le operazioni limitate che compie. O forse è quello il suo segreto: soddisfatto d’essere, riduce il fare al minimo? Sarà questa la sua lezione, l’opposto della morale che in gioventù il signor Palomar aveva voluto fare sua: cercare sempre di fare qualcosa un po’ al di là dei propri mezzi?
Ecco che gli capita a tiro una smarrita farfallina notturna. La trascura? No, acchiappa anche quella.
La lingua si trasforma in rete per farfalle e la trascina dentro la bocca. Ci sta tutta? La sputa? Scoppia? No, la farfalla è là nella gola: palpita, malconcia ma ancora se stessa, non toccata dall’offesa di denti masticatori, ecco che supera le angustie della strozza, è un’ombra che inizia il viaggio lento e combattuto giù per un gonfio esofago. Il geco, uscito dalla sua impassibilità, boccheggia, agita la gola convulsa, tentenna su gambe e coda, contorce il ventre sottoposto a dura prova. Ne avrà abbastanza, per stanotte? Se ne andrà? Era questo il culmine d’ogni desiderio che lui attendeva di soddisfare? Era questa la prova ai limiti del possibile con cui voleva misurarsi?
No, resta. Forse s’è addormentato. Com’è il sonno per chi ha gli occhi senza palpebre?
Neanche il signor Palomar sa staccarsi di lì. Resta a fissarlo. Non c’è tregua su cui si possa contare. Anche a riaccendere la televisione, non si fa che estendere la contemplazione dei massacri.
La farfalla, fragile Euridice, sprofonda lentamente nel suo Ade. Ecco vola un moscerino, sta per posarsi sul vetro. E lingua del geco si scaglia.
(Italo Calvino, La pancia del geco, Palomar, Einaudi, Torino, 1983)
Tiziano Franzi