Il personaggio si racconta senza veli. Il bisnonno “avventuriero impercettibile”, vetturino, musico barbiere, calzolaio, contadino, amante delle donne; il papà medico condotto ad Altare; gli studi alle medie e al ginnasio degli Scolopi di Carcare con il ricordo di don Rimoldi “uomo delicato e ottimo insegnante di lettere” e Maria Rebufello “che divenne un’amica”; ai Salesiani di Alassio “con docenti mediocri”; al Classico “Chiabrera” nel segno di De Chiffre e Adriano Guerrini; all’Università a Bologna sotto la guida dei filosofi Melandri e Forni “poi diventati amici”. L’amore per Altare “paese di vetrai allora non privo di charme”. La nostalgia per il mare e la focaccia.
di Gian Luigi Bruzzone
Nanni Cagnone, da Carcare, in Valbormida, ha girato il mondo e da 19 anni risiede a Bomarzo, nel Viterbese. Suonatore di jazz, giornalista, poeta, filosofo, scrittore fecondissimo, a Roma negli anni Sessanta, poi a Milano, redattore della casa editrice Lerici, editore lui stesso (Coliseum), direttore creativo d’agenzie di pubblicità, docente d’estetica, e molto altro.
Caro Nanni, parlaci della tua famiglia e di tuo nonno Angelo, se non ti dispiace.
Erano i tempi della marmellata Ligure-Lombarda: la famiglia paterna era di Carcare; quella materna, di Sommo Pavese. Lasciammo presto Carcare per Dolceacqua e Mentone, poi – quando avevo più o meno quattro anni – Beppe, mio padre, divenne medico condotto ad Altare, e la famiglia vi si stabilì. Si stava a Villa Agar, un edificio bizzarro e un grande giardino, luogo d’ogni insegnamento. Poi, mio padre acquistò una villa, nostra definitiva residenza. Angelo Cagnone, uomo spavaldo e padre di mio padre, fu un avventuriero impercettibile. A quindici anni, berretto di traverso e coltello in tasca (c’erano les voleurs de grand chemin), portava carrozze dall’entroterra savonese alla Principauté de Monaco, poi fu musico, barbiere, calzolaio, contadino, narratore di minime gesta e ammiratore delle donne. «Tutta l’uva deve diventare vino» raccomandava, nel tempo in cui il mondo non era ancora decaffeinato. Morí perché investito da un’auto mentre, su un carro, faceva ritorno dalla campagna. Per me, uno schianto.
La Carcare della tua infanzia.
Non molti ricordi: un appartamento in paese, poi una villa un po’ fuori, il Bormida di Pallare, orecchioni e suore cappellone, la vigna e la cantina del nonno, una piazza grande con il chiosco dei gelati. Tornai a Carcare al tempo delle scuole medie e del ginnasio: studiavo dagli Scolopi. Ricordo don Rimoldi, uomo delicato e ottimo insegnante di lettere; più tardi, Maria Morichini Rebufello, che divenne un’amica. In verità, più che carcarese sono altarese, essendo cresciuto nell’entroterra rivierasco d’Altare – paese di vetrai, allora non privo di charme – in cui negli anni Quaranta-Cinquanta c’era anche un fermento culturale. È lì che ho imparato me stesso. Ad Altare vive ancora Daniele, il fratello più giovane.
E gli studi? Con qualche insegnante ti sarai sentito sulla medesima lunghezza d’onda…
I docenti Salesiani d’Alassio (soggiornai nel loro collegio per cinque anni) erano davvero mediocri. Invece, più tardi, al liceo savonese Chiabrera, due valorosi insegnanti, con cui feci amicizia: Ezio De Chiffre e Adriano Guerrini. A Bologna, ai tempi dell’università, soltanto due filosofi, anche loro divenuti amici: Enzo Melandri ed Enrico Forni. Nessuno che mi piacesse a Genova, e nessuno a Roma.
Gli autori classici e il nostro presente.
La tradizione. Nostro compito non è né contrapporre né ripetere, bensí non interrompere. Non sono mai riuscito ad apprezzare l’atteggiamento delle fazioni avanguardistiche. Drammatizzarono ingenuamente il rapporto con la tradizione, opponendole una disobbedienza animosa, e avevano una coloritura deontologica – un instancabile Es muß sein! – che le rendeva permalose e intolleranti.
Ricordi del tuo periodo di docente.
Delusioni. L’insegnamento, attività di per sé generosa (prima che i governi della Repubblica devastassero la scuola) avrebbe potuto esser un dono, e un antidoto all’orgoglio. Ma io ero insolito, troppo disinvolto e stranamente incline a farli pensare; inoltre, proponevo una concezione anomala della cultura, pur sapendo che avrebbero finito per adottare quella convenuta. Ben presto s’accovacciavano, cercavano un ricettario, si assopivano e, quando sembravano capirti, in verità ti banalizzavano. Non sto lamentando un’ingratitudine, ma una trasmissione fallita, il solito stupido spreco.
Incontri ed amicizie memorabili.
Ho imparato di più dai pescatori e dagli artigiani che dagli intellettuali, ai quali non devo niente. Tuttavia, ho avuto fortuna: Amelia Rosselli, Emilio Villa, Rubina Giorgi, Angus Fletcher, Carlo Enzo, amici di grande affettività, di grande ingegno.
Hai abitato in moltissime città italiane, prima di approdare a Bomarzo, un ventennio fa.
Sì, oltre quaranta traslochi. Le città in cui ho insistito sono Roma, Milano, Venezia. Ma non le sopporto più, le convulse città: sono vecchio, desidero vicinanza, desidero quiete. Ora, presso la mia casa di Bomarzo, una moltitudine d’alberi e una tribù di choucas des tours, popolo volatile, festoso e chiassoso: questo mi basta.
La campagna, amor mio!
Il mio sogno: una collina avanti al mare. Abitai più volte in campagna, venerando boschi e animali. Ma non c’era quel salmastro in cui per me si riassume la dovizia del mondo.
Ma non ti manca il mare? Quali località rivierasche sono rimaste nel tuo cuore?
Il mare (e la focaccia) sono la causa della mia più grave nostalgia. Sono un ligure di Ponente, di quelli che tramontano (il Levante mi piace meno). Ho frequentato sopra tutto Savona, Albissola, Celle e Varazze, e ne ho festevoli ricordi.
Hai fondato la casa editrice “Coliseum” ricca di tre collane: di poesia, di narrativa, di saggi; vuoi presentarcela?
Ambizione d’andar oltre il consueto elenco di titoli tra loro indifferenti, per invenirne una reciprocità e farli dialogare: un bosco, non una parata. Tre collane: poesia-e-poetica, narrativa, saggistica. Buona carta avoriata, segnalibro di pergamena e composizione in Bembo, il bel carattere quattrocentesco di Francesco Griffo. In prima di copertina, un’insegna, e invece del solito dipinto una foto in bicromia, né immiserita da scarsa dimensione né offesa da sovrapposte scritte, la cui funzione era analogica e non descrittiva. Sfrontate epigrafi in quarta di copertina. L’atteggiamento di Coliseum poteva apparire eclettico, ma era se mai comparatistico. Si pensava ad intrecciare il protoromanticismo europeo, il pensiero ellenistico, quello arabo-persiano medievale, la mistica ebraica rinascimentale, la filosofia narrativa, le ingegnose eresie. Poesia incline all’astrazione e romanzi anomali, divaganti.
Il silenzio e la parola.
ll silenzio, soggetto del dire. Il silenzio precede, e il linguaggio è misteriosamente inesperto, parola per sé stessa come il medio dei verbi rituali nel sanscrito vedico. Impossibilmente, si vorrebbe ottenere un silenzio originario a furia di dire. Ma, sulla via della riluttanza denotativa, hanno un secondo silenzio, le parole.
Scusa la banalità della domanda: quali sono i temi precipui della tua poesia?
Domanda lecita; ma è difficile, per me, tematizzare. Ad ogni modo, più che temi, sentimenti: m’appassiono a tutto ciò ch’è vivente, diffido della cultura, non posso evitare i ricordi, odio le ingiustizie, prediligo le amicizie, temo il nostro avvenire, spero ancora (disperatamente) in una possibile fraternità.
Mi ha colpito, fra gli altri, il tuo verso: “Siete nati in vincoli, Homines / de Altari, a un esilio / senza derisione: un torchio / vi precede, un’obbedienza …”
Pensavo al destino dei maestri vetrai altaresi (“Più non ci sono figli accordatori, / né apprendisti di sguardi. / Era in un vaso sbilenco, / la speranza.”). Le vicissitudini economiche interruppero una tradizione che risaliva all’undicesimo secolo. Ricordo, ragazzo, d’aver lavorato per un’estate nella Società Artistico-Vetraria: mi piaceva.
La libertà ci fa conoscere noi stessi, anzi ci fa oltrepassare noi stessi: sei d’accordo?
Sì. Ingenuus, in latino, denota un uomo nato libero, che pensa liberamente. Mia unica ambizione, e forse mio unico vanto, essere un uomo libero.
Quanto è scaduta l’italica favella: sei d’accordo?
“È ancor nostra, / l’amorosa lingua, o / con sue alte canzoni / fu svenduta?” Da tempo, l’Italia, è – anche linguisticamente – una colonia. Ci offende il barbarico American English.
Che cos’è la felicità?
Non saprei: si direbbe che l’idea di felicità implichi una forma di ‘perfezione’. Non fa per me. Mi basta, ogni volta, quel che c’è. Sono in pace. Non sarà felicità, però…
Sul far della sera…
Sul far della sera, un saluto per te, di molto affetto.
Grazie, caro Nanni, auguro a te e a Sandra giorni ricolmi di ore sempre serene.
Gian Luigi Bruzzone